Sharing economy, svolta positiva o con troppe luci ed ombre? Il tema è caldo e molto discusso.
Quando i fattorini in bicicletta di Foodora hanno proclamato il primo sciopero nella storia delle start up, a molti è sembrato che si stesse infrangendo il più grande sogno dell’ultimo decennio: la sharing economy.
Non è la prima volta che l’incontro tra l’economia tradizionale e la distruzione creativa della tecnologia assume toni conflittuali: negli ultimi mesi abbiamo assistito, solo per citare gli episodi più noti, alla guerra dei tassisti contro gli autisti di Uber e a quella degli albergatori contro AirBnb, accusati a vario titolo di concorrenza sleale ed infedeltà fiscale.
La vicenda Foodora ha contribuito a svelare il lato più oscuro dell’economia collaborativa: non è un caso che proprio negli Stati Uniti, dove le piattaforme più note si sono sviluppate ed hanno conosciuto il successo (le già citate AirBnb e Uber arrivano ovviamente dalla California), il termine sharing economy sia stato progressivamente accantonato in favore di “gig economy”, ovvero di un sistema fondato su prestazioni lavorative di carattere precario e temporaneo.
Le tipologie
Esistono molteplici forme e declinazioni di sharing economy: alcune sono basate sulla condivisione, gratuita o dietro compenso monetario, di servizi o proprietà sottoutilizzate direttamente da parte dei privati (si pensi al fenomeno BlaBla Car); altre rappresentano la rivisitazione in chiave tecnologica di tradizionali comportamenti economici (affittare, erogare un prestito, scambiare, barattare, regalare), che senza il contributo di internet risulterebbero insostenibili (Scambiocasa); altre ancora mettono in contatto, a fronte del pagamento di un corrispettivo, le necessità dei clienti con i fornitori di servizi per consegnare beni o erogare servizi che possono poi essere fruiti anche da altri soggetti in funzione della loro disponibilità (Car2go o Enjoy).
La diffusione in Italia
Non vi è dubbio che un intervento normativo e regolatorio, volto a disciplinare gli aspetti più “borderline” delle varie iniziative, sia auspicabile. Ma è altrettanto vero che la sharing economy, con la rivoluzione che sta apportando ai comportamenti ed allo stile di vita degli individui, è difficilmente incasellabile nelle tradizionali nomenclature: è per definizione un processo dinamico, che ha tratto la sua forza da quella filosofia post moderna del consumo che privilegia l’accesso in luogo del possesso e di conseguenza l’utilizzo in luogo dell’acquisto.
Soprattutto nel nostro Paese, che con la sharing economy ha preso confidenza prima e più di altri. In Italia, secondo l’ultimo censimento, sono operative circa 120 piattaforme di servizi collaborativi: vi ha già aderito il 5% dei consumatori italiani (3 milioni di persone), il dato più alto in Europa insieme alla Spagna, mentre un ulteriore 30% ha dichiarato l’intenzione di sperimentare la sharing economy nel prossimo futuro.
In virtù della proverbiale disponibilità del consumatore italiano a sperimentare modalità alternative di scambio di beni e servizi, il nostro Paese ha assunto il ruolo riconosciuto di capofila in ambito collaborativo. Siamo coloro che più di tutti in Europa ne apprezzano i benefici: la possibilità di risparmiare denaro (in qualità di utente) e di avviare attività micro imprenditoriali senza l’intermediazione di altri soggetti (nelle vesti di fornitore), così come il sentimento di appartenenza ad una community e l’attenzione all’ambiente che vengono associati al consumo circolare.
L’aspetto normativo
L’Italia è stato inoltre il primo Paese al mondo ad aver avviato in Parlamento un iter normativo (lo “Sharing Economy Act” risale al mese di maggio 2016), con il quale il legislatore ha inteso regolamentare lo strumento delle piattaforme digitali, incluse le rilevanti implicazioni sul mercato del lavoro.
Ma qual è il giro d’affari che la sharing economy è in grado di muovere in Italia? Secondo le informazioni disponibili, essa arriverà a valere circa 5 miliardi di euro entro la fine del 2016 ma con prospettive di crescita di tutto rilievo, se si considera che potrebbe approssimare i 9 miliardi al 2020 ed i 15 miliardi di euro entro il 2025.
Tenuto conto del numero degli utenti attivi, ciò significa che già oggi gli italiani destinano oltre 50 euro al mese al consumo nelle diverse forme collaborative, non una cifra di poco conto. Se queste sono le premesse, il consumo del futuro sarà sempre più smart.
Non inganni il caso Foodora, che in fondo è solo l’ultima di una serie infinita di distorsioni: in un Paese in cui il lavoro dipendente è spesso retribuito con i voucher, prendersela con la sharing economy appare davvero una inutile forzatura.
Fulvio Bersanetti