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GIUGNO/LUGLIO 2017

fattore culturale, fattore umano. Un nuovo concetto

che tiene conto del deficit strutturale nella produ-

zione di materie prime agricole del nostro Paese.

“Passare alla logica di “Prodotto Italiano” – ha

spiegato – significa identificare e classificare

un prodotto la cui realizzazione coinvolge in

misura necessaria e significativa territorio, fat-

tore umano e fattore culturale, in relazione al

quale la creazione di valore aggiunto economico

sia apprezzabilmente attribuibile e di pertinenza

dei cittadini italiani e dell’Italia. L’italian sounding,

per esempio, non sarebbe “prodotto italiano” perché

difetta della territorialità”.

Bisogna favorire gli scambi

“Il Made in Italy in purezza – ha sottolineato a tale

proposito

Alberto Mingardi, direttore dell’Istituto

Bruno Leoni

– è fenomeno al contempo di marketing

e di integralismo. È frutto di una strategia commerciale,

ma è un concetto utopico. Tutti i prodotti, da sempre,

sono frutto di una storia promiscua. Per questo il lo-

ro valore non risiede e non può risiedere nella mera

prossimità». Secondo il ricercatore, anzi, la divisione

dei processi produttivi in più passaggi, anche geogra-

ficamente lontani, agevola lo sviluppo delle tecnologie

e favorisce l’innovazione.

“Attraverso lo scambio commerciale – ha affermato – si

scambiano anche le idee. La rivoluzione industriale è un

fenomeno complesso, che porta ad uscire sempre più

da un’economia di prossimità e sussistenza, per andare

verso un’economia di scambio di raggio sempre più

lungo. È sempre più difficile attribuire una reale con-

notazione nazionale a un prodotto. La globalizzazione,

considerata come un processo di deregolamentazione,

in realtà è un processo di mutua armonizzazione delle

regole da seguire».

La produzione agricola non basta

Questi concetti sono applicabili anche all’industria ali-

mentare italiana, tanto più che la disponibilità di suolo

agricolonon è tale da soddisfare le esigenze del consumo

interno e delle esportazioni. Lo ha confermato

Gian-

carlo Corò, professore associato all’Università Ca’

Foscari di Venezia

. “Dire che il Made in Italy non esiste

è una provocazione – ha precisato – io credo che esista

e possa funzionare. È l’abuso di questo concetto che

costituisce una gabbia culturale e normativa che frena

la potenziale espansione dell’industria agroalimentare

italiana. Bisogna quindi frenare l’abuso, salvando però

quello di buono che il concetto racchiude”.

Corò ha sottolineato come l’industria agroalimentare

nazionale stia vivendouna fasedi rinascimento. “L’export

– ha sottolineato – negli ultimi quattro è cresciuto a

un tasso medio annuo composto del +6,5%. L’Italia è

tradizionalmente unPaesemanifatturiero, caratterizzato

VISIONI

dalla capacità di trasformare. Il concet-

to di Made in Italy nel senso di “tutto

fatto in Italia, in purezza” è un vincolo

che non fa parte della nostra storia, ma

nemmeno di quella di altre economie

avanzate che esportano, come Francia

e Germania”.

Il docente ha ricordato che secondo le

statistiche Wto oggi esportiamo circa 30

miliardi di euro nel settore dell’industria

agroalimentare e dei tabacchi, ma che il

saldo attivo è di poco più di 1 miliardo.

“Nel settore delle commodity agricole, in

particolare – ha rimarcato – siamo sotto

di 6 miliardi di euro. L’Italia, quindi, si

conferma un Paese di trasformazione,

più che di produzione primaria. Limita-

re questa importazione e quindi i nostri

approvvigionamenti,significherebbefarla

arretrare. Bisogna considerare la catena

globale del valore ed è difficile valuta-

re quanto della capacità di produrre e

trasformare dell’industria italiana derivi

dall’avere incorporato beni e commodity

da altri Paesi”.

E la produzione primaria che ne pensa?

Non tutti considerano pericolosi questi

argomenti. “L’agricoltura italiana – ha

affermato

Giorgio Fidenato, impren-

ditore e presidente dell’Associazione

Agricoltori Federati

– è stata sempre

aperta, in passato, alle innovazioni tec-

nologiche e ne ha tratto grandi vantaggi.

La produzione locale è una falsa reto-

rica. Se chiudiamo le frontiere e alzia-

mo barriere, faranno lo stesso con noi.

E allora, chi berrà il nostro Prosecco?

Creare ricchezza all’estero è un modo di

ampliare mercati, la chiusura è la cosa

più sbagliata che ci sia”.

S

No, almeno stando a

Giancarlo Corò, Università Ca’ Foscari

di Venezia

. “Il tanto vituperato Italian sounding – ha affermato

– è oggi uno straordinario veicolo di promozione dell’Italia

e dei suoi prodotti. Intercettare quei processi e sfruttarli è

un’occasione che ci stiamo lasciando sfuggire”.

La sua tesi è che i 60 miliardi “rubati” all’Italia dai

prodotti che si ispirano a quelli della nostra tradizione,

non sarebbero effettivamente ottenibili con l’attuale

disponibilità di materie prime nazionali. Ancora una volta

l’approvvigionamento all’estero di materie prime o il controllo

italiano di filiere produttive al di fuori dei confini nazionali potrebbe

permettere di sfruttare meglio l’opportunità offerta dal grande appeal

dei nostri prodotti nel mondo.

ITALIAN SOUNDING: È DAVVERO UN MALE?

Giorgio Fidenato,

imprenditore e presidente

dell’Associazione

Agricoltori Federati

Alberto Mingardi,

direttore dell’Istituto

Bruno Leoni

+6,5%

TASSO MEDIO

ANNUO DI CRESCITA

DELL’INDUSTRIA

AGROALIMENTARE