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Filiera lattiero casearia, crescono l’export e la fiducia degli italiani

Numeri da record per la filiera lattiero casearia, con 7,1 miliardi di euro di valore realizzato dalla fase di allevamento e 21,8 miliardi di euro nella successiva trasformazione. Questa seconda fase ha fatto registrare un aumento del 9% nell’ultimo anno, confermando il primato in termini di fatturato nell’ambito dell’industria alimentare. A fare da traino sono le esportazioni: lo scorso anno ha visto un risultato straordinario – 5,4 miliardi euro di giro d’affari e 660 mila tonnellate inviate oltreconfine – e il primo semestre 2025 ha fatto registrare un +15,7% in valore e un +5% in volume.
L’Italia si posiziona al quinto posto tra i produttori di latte bovino in ambito UE, con oltre 13.000 tonnellate consegnate, 23.000 allevamenti e circa 1,7 milioni di vacche. Nel 2025 la produzione di latte è in calo (-0,6% nel periodo gennaio-luglio), a fronte di prezzi alla stalla mediamente in crescita (+15% nel periodo gennaio-agosto) sostenuti dalle quotazioni all’ingrosso dei principali formaggi della tradizione.

IN RECUPERO LA DOMANDA INTERNA
La spesa delle famiglie italiane per i prodotti lattiero caseari – che incide per circa il 14% sullo scontrino medio – fa segnare un deciso recupero nel corso del 2025, con una maggiore propensione da parte dei consumatori a riempire il carrello con formaggi freschi (+5,7% in volume nei primi sette mesi) e yogurt (+6%). All’opposto sempre meno latte fresco, complici dinamiche socio-demografiche e cambiamento di abitudini e preferenze.
Questo è il quadro delineato da Ismea, sulla base degli ultimi dati presentati in occasione di “Think Milk, Taste Europe, Be Smart”, la campagna di promozione di latte e derivati, promossa dal settore lattiero-caseario di Alleanza delle Cooperative Italiane, realizzata da Confcooperative con il cofinanziamento della Commissione europea.

IL PROCESSO DI AGGREGAZIONE AVANZA
Negli ultimi dieci anni, rileva Ismea, sono progressivamente scomparse le realtà di piccole dimensioni, a favore, però, di un progressivo percorso di aggregazione. Sebbene gli allevamenti di piccole dimensioni (<49 capi) siano attualmente circa la metà del totale nazionale, l’offerta è per lo più concentrata in aziende di medio-grandi dimensioni. Quelle grandissime con oltre 5.000 capi, pur rappresentando poco meno del 5% della numerosità totale, detengono circa 1/3 dei capi da latte.
Oggi, uno dei principali obiettivi su cui il comparto deve intervenire anche con strumenti politico-normativi – commenta Giovanni Guarneri, Presidente del Settore lattiero-caseario Confcooperative Fedagripesca (nella foto a sinistra) – è quello dell’aggregazione del sistema produttivo. Solo con una maggiore dimensionalità delle aziende è possibile, infatti, competere nei mercati internazionali. È già in atto un robusto consolidamento delle dimensioni, in virtù sia di processi di crescita che di fusioni fra cooperative e se teniamo conto che il 63% del giro d’affari cooperativo lattiero-caseario è sviluppato proprio dalle 25 imprese più dimensionate, è evidente come risulti fondamentale organizzarsi per fare sinergie ed economie di scala, per essere maggiormente reattivi di fronte a cambiamenti repentini e per accrescere il potere contrattuale sui mercati internazionali”.
Complessivamente, al sistema cooperativo fanno capo, attualmente, 17.000 stalle, 540 imprese di trasformazione e più di 13.000 lavoratori: la cooperazione è responsabile del 65% del latte raccolto in Italia nonché del 70% della produzione dei principali formaggi Dop.

I CRITERI DI ACQUISTO
Interessanti i risultati emersi dalla Consumer Survey condotta da Nomisma, sempre nell’ambito delle attività di monitoraggio del progetto “Think Milk, Taste Europe, Be Smart”. Il 98% della popolazione italiana consuma più o meno regolarmente latte, yogurt e formaggi.
Trai i criteri di acquisto dei prodotti lattiero-caseari e tra i desiderata, convenienza e sconti ricoprono un ruolo di rilievo, accompagnati però da qualità, filiera tracciata e certificazioni, delineando come il passaggio dal prezzo al valore del prodotto sia un percorso da consolidare in modo consapevole.

GLI ITALIANI SI FIDANO DEL MADE IN EU
Rispetto alle precedenti survey di monitoraggio, cresce la fiducia nel latte e nei prodotti lattiero-caseari Made in EU, arrivando quasi a 8 italiani su 10. Il dato è maggiore negli uomini, tra i più giovani e al salire di reddito e titolo di studio. Il 44% cerca fonti ufficiali a conferma delle informazioni sui prodotti alimentari trovate online, ma aumenta il gruppo di chi si informa tramite web e social media (28%). Nel complesso sale la quota di italiani che si informa (85%, +23punti percentuali rispetto al 2024).
Andando poi ad analizzare la conoscenza delle specifiche dei prodotti lattiero-caseari, emerge come oltre 6 su 10 italiani ne sono consapevoli, con una correlazione positiva tra chi si fida ma anche tra chi si informa, indice che la consapevolezza non può prescindere da una corretta informazione. Sulle fake news legate al mondo lattiero-caseario, 2 consumatori su 3 sono in grado di individuarle correttamente: l’eliminazione del lattosio appare un’informazione ancora poco conosciuta, ma in consolidamento, mentre su bevande vegetali e latte Uht permangono falsi miti ancora non del tutto sfatati.

LA PERCEZIONE DEL BENESSERE ANIMALE
L’indagine ha poi esplorato la percezione relativamente alla sostenibilità, con un focus sul comparto bovino da latte: un ambiente pulito e spazioso il concetto principalmente associato al benessere animale, tema su cui gli italiani cercano informazioni (ma sporadicamente) soprattutto su canali entertainment Tv e social. Infine, appare positiva – ma con spazi di miglioramento – l’attitudine futura all’informazione sui prodotti lattiero-caseari, con il 78% che si dichiara interessato ad avere maggiori informazioni sul latte e sulle sue proprietà nutrizionali.
La survey fa emergere chiaramente la connessione fra una corretta informazione su latte e formaggi e la fiducia dei consumatori – afferma Chiara Volpato, Head Of Technical Consulting di Nomisma – che deve necessariamente basarsi su un solido percorso di consapevolezza. Incrociando il profilo relativo all’informazione e la consapevolezza specifica, emerge infatti come gli italiani siano un popolo di fact checkers: oltre uno su due ha un approccio proattivo nell’informazione rispetto ai prodotti alimentari e una buona conoscenza delle specificità dei prodotti dairy”.

UNA CAMPAGNA PER SFATARE I FALSI MITI
Questa indagine – aggiunge Guarneri – ci restituisce un quadro positivo che attesta l’efficacia della campagna ‘Think Milk,Taste Europe, Be Smart’, nata più di quattro anni fa proprio con l’obiettivo di sfatare falsi miti e sensibilizzare i consumatori, ma soprattutto i giovani, nei confronti dei prodotti lattiero-caseari con un’immagine contemporanea e attraverso attività esperienziali, digital e corretta informazione. Oggi, ci approcciamo ad un consumatore informato e consapevole che cerca qualità, sicurezza alimentare, benessere animale, certificazioni e tracciabilità di filiera: ecco perché è importante lavorare di concerto con i diversi attori della filiera, con la distribuzione e con gli organi di stampa per continuare a promuovere un consumo consapevole guidato soprattutto dal valore intrinseco del prodotto stesso”.

Ortofrutta, primati produttivi a rischio per la stretta sui principi attivi

Una grave incertezza incombe sul futuro del comparto ortofrutta: la riduzione del numero dei principi attivi utilizzabili per la difesa delle colture, senza che vengano messe a disposizione dei produttori nuove alternative valide. Ne è convinto Raffaele Drei, Presidente di Fedagripesca Confcooperative (nella foto in alto), a cui aderiscono oltre 450 cooperative ortofrutticole con 45.000 soci e un fatturato di 7,7 miliardi di euro. “La Commissione europea – ha spiegato Drei a margine dell’inaugurazione della fiera internazionale Macfrut – ha ridotto progressivamente negli ultimi anni il numero dei principi attivi autorizzati: un percorso orientato ad innalzare livelli qualitativi e di sicurezza alimentare che non si può non condividere. A condizione però che ciò non provochi come conseguenza la perdita di buona parte della produzione nazionale, a tutto vantaggio di competitor che non rispettano gli stessi standard qualitativi. Nonostante la sua forte vocazione produttiva, il nostro Paese ha progressivamente perso la leadership in alcune colture strategiche. Basti pensare che dal 2014 ad oggi sono andate perdute oltre il 45% delle superfici coltivate a pere in Emilia-Romagna e gli ettari di pesche e nettarine si sono dimezzati nell’ultimo decennio”.

Nell’ambito dell’ortofrutta, per ogni principio attivo eliminato, in mancanza di alternative efficaci si rischia di perdere intere colture. È per questo che, ha aggiunto Drei, “come Confcooperative abbiamo richiesto in questi mesi una moratoria quinquennale sui principi attivi oggi in uso. Ma se con il Ministero dell’Agricoltura stiamo registrando una totale condivisione sulla questione, sentiamo ora l’urgenza di appellarci ad un più ampio coinvolgimento di altre istituzioni, a partire da quelle che hanno la competenza in materia, sia a livello nazionale che comunitario. Il nostro auspicio è che tutte le istituzioni coinvolte assumano l’impegno di analizzare le problematiche connesse alla revoca delle autorizzazioni dei principi attraverso una valutazione di impatto complessiva più ampia rispetto alla mera analisi della molecola”. Secondo Drei, ad esempio, nelle valutazioni non si tiene spesso sufficientemente conto di altri aspetti e ricadute. Gli attuali mezzi di distribuzione e le macchine agricole utilizzate nell’ortofrutta sono ad esempio tecnologicamente più avanzate rispetto a 20 anni fa, con una conseguente riduzione significativa dei rischi ambientali e della salute umana.

C’è poi il tema del freno alla ricerca. “Se vogliamo trovare altre molecole meno pericolose – ha argomentato Drei – è fondamentale che la ricerca abbia tempi più veloci e percorsi burocratici più snelli. A tal proposito, ci aspettiamo misure concrete già nell’ambito del cosiddetto ‘Pacchetto per la semplificazione’ presentato dal Commissario Hansen. Le aziende che producono i principi attivi riescono in paesi come il Brasile ad ottenere nel giro di soli due anni l’autorizzazione alla produzione. Mentre in Europa occorrono all’incirca dieci anni per riuscire ad avere l’autorizzazione ad una nuova molecola, con il rischio che le disposizioni normative possano nel frattempo anche subire modifiche”.

Dazi Usa, al via la conta dei danni nel food & beverage italiano

La guerra commerciale con gli Usa è ufficialmente cominciata: sono oltre 100 i Paesi su cui impatteranno i dazi voluti da Donald Trump e tra questi c’è ovviamente l’Italia. Brilla l’assenza nell’elenco di Russia e Corea del Nord, come ha rimarcato già nelle prime ore la stampa internazionale. In sintesi, a partire dal 5 aprile gli Usa applicheranno dazi del 10% su tutte le importazioni e per alcune nazioni – per esempio il Regno Unito – questa sarà l’unica misura adottata. Dal 9 aprile entreranno in vigore tariffe più pesanti e differenziate per una sessantina di Paesi: nel caso dell’Unione Europea – e dell’Italia, dunque – saranno pari al 20%, mentre il 34% annunciato per la Cina dovrebbe andarsi ad aggiungere al 20% già previsto, portando il totale a ben il 54%. Anche per l’Unione Europea e l’Italia le nuove tariffe si vanno a sommare a quelle già applicate per le singole merci. La conta dei danni per il nostro Paese è subito iniziata, accompagnata anche da proposte per affrontare l’emergenza: “Con i sanguinosi dazi americani al 20% il mercato dovrà tagliare i propri ricavi di 323 milioni di euro all’anno – dichiara Lamberto Frescobaldi, Presidente di Unione italiana vini (Uiv) – pena l’uscita dal mercato per buona parte delle nostre produzioni. Perciò Uiv è convinta della necessità di fare un patto tra le nostre imprese e gli alleati commerciali d’oltreoceano che più di noi traggono profitto dai vini importati; serve condividere l’onere dell’extra-costo ed evitare di riversarlo sui consumatori”.

UIV AUSPICA UNA REAZIONE DI FILIERA
Secondo un’analisi dell’Osservatorio Uiv, l’unica soluzione è infatti da ricercare lungo la filiera, con il mercato – dalla produzione fino a importatori e distributori – che dovrebbe farsi carico di un taglio dei propri ricavi per un valore pari a 323 milioni di euro (su un totale di 1,94 miliardi) e mantenere così gli attuali assetti di pricing. Sempre in base ai calcoli di Uiv, ben il 76% delle 480 milioni di bottiglie tricolori spedite lo scorso anno verso gli Stati Uniti si trova in “zona rossa” con una esposizione sul totale delle spedizioni superiore al 20%. I picchi si registrano per il Moscato d’Asti (60%), il Pinot grigio (48%), il Chianti Classico (46%), i rossi toscani Dop al 35%, i piemontesi al 31%, così come il Brunello di Montalcino, per chiudere con il Prosecco al 27% e il Lambrusco. In totale sono 364 milioni di bottiglie, per un valore di oltre 1,3 miliardi di euro, ovvero il 70% dell’export italiano verso gli Stati Uniti. Per Paolo Castelletti, Segretario Generale di Uiv (nella foto in alto), “Rispetto ai partner europei, l’Italia presenta due principali fattori di rischio: da una parte la maggiore esposizione netta sul mercato statunitense, pari al 24% del valore totale dell’export contro il 20% della Francia e l’11% della Spagna. Dall’altra, una lista di prodotti più sensibili su questo mercato, sia in termini di esposizione, che di prezzo medio a scaffale: solo il 2% delle bottiglie tricolori vendute in America vanta un price point da vino di lusso, mentre l’80% si concentra nelle fasce “popular”, che tradotto in prezzo/partenza significa in media poco più di 4 euro al litro”.

CENTROMARCA AVVIA UN’INDAGINE SUL FRONTE INDUSTRIALE
Dal canto suo, Centromarca ha avviato un’indagine rapida per misurare l’impatto che i dazi americani avranno sull’industria di marca e fornire dati utili in sede nazionale ed europea. “Nel settore del largo consumo il prezzo è una componente significativa – sottolinea Vittorio Cino, Direttore Generale di Centromarca –. Le conseguenze non dovrebbero essere omogenee: ogni merceologia ha specifiche dinamiche di esportazione, variabili produttive e commerciali. Per esempio, ci sono diverse elasticità della domanda alle variazioni di prezzo che i dazi potranno determinare per i consumatori. Certo la scelta statunitense crea una discontinuità senza precedenti nel mercato globale: ci vorrà tempo e un’attività diplomatica di vasta portata per recuperarla”.

GLI EFFETTI SUI COMPORTAMENTI DEL CONSUMATORE STATUNITENSE
Secondo una ricerca, condotta in questi giorni negli Stati Uniti da YouGov per Centromarca, circa la metà dei consumatori americani utilizza prodotti grocery italiani: il 14% lo fa ogni settimana, il 25% mensilmente. Tra i prodotti usati abitualmente, nelle prime cinque posizioni troviamo pasta (50% di citazioni), seguita da olio di oliva (46%), formaggi (38%), salse (37%) e vino (33%). In merito all’effetto dazi solo il 16% dei consumatori afferma di essere disposto a pagare di più per acquistare prodotti grocery italiani, il 48% afferma di essere disposto a spendere la stessa cifra che sborsa per altri prodotti, il 10% vorrebbe investire di meno, il 26% non ha un’opinione precisa. Fatto cento coloro che consumano prodotti grocery made in Italy, il 47% asserisce che in caso di aumento dei dazi manterrebbe la quantità di prodotti italiani acquistati, mentre il 30% la ridurrebbe. Tra gli elementi che guidano l’acquisto di prodotti italiani primeggiano qualità percepita, reputazione della marca e rapporto qualità/prezzo.

L’EXPORT DI PRODOTTI DI LARGO CONSUMO NEGLI STATI UNITI
Alcuni dati elaborati da Nomisma per Centromarca descrivono l’importanza dello sbocco statunitense per le produzioni grocery alimentari e non food italiane. Tra il 2023 e il 2024 l’incremento delle importazioni a valore negli Usa è stato del +16%, da 8,5 a 9,9 miliardi di euro. In dettaglio, l’alimentare cresce da 6,8 a 8,0 miliardi di euro e i prodotti per la cura della casa e della persona da 1,7 a 1,9 miliardi di euro. Nel decennio 2014 – 2024 il fatturato grocery complessivo è passato da 3,8 a 9,9 miliardi di euro, pari a una crescita del +161%. Le analisi mostrano che nel 2024 il peso degli Usa sull’export italiano food & beverage era pari al 12%; 13% per i prodotti cura casa/persona. Il 72% dell’export di sidro italiano (spesso usato come intermedio di lavorazione) ha come canale di sbocco gli states. Seguono: acque minerali (41%), olio di oliva (32%), aceti (30%), liquori (26%), vini fermi/frizzanti (25%), spumanti (24%), formaggi duri/semi duri (19%), profumi/fragranze (18%), pasta (16%), trucchi/prodotti di bellezza (15%), conserve di pomodoro (7%). Per il 54% dei consumatori statunitensi acquistare un prodotto alimentare di marca italiana è sinonimo di bontà, per il 49% di qualità delle materie prime, per 36% di sicurezza e tutela della salute. Nell’ambito dei prodotti per il personal & home care il 53% delle persone trova qualità delle materie prime, il 49% sicurezza, il 32% sostenibilità ambientale.

IL POSIZIONAMENTO PREMIUM SALVERÀ IL PARMIGIANO REGGIANO?
A confidare nella specificità della nostra produzione è Nicola Bertinelli, Presidente del Consorzio Parmigiano Reggiano (nella foto a destra): “I dazi sul nostro prodotto passano dal 15% al 35%. Di certo la notizia non ci rende felici, ma il Parmigiano Reggiano è un prodotto premium e l’aumento del prezzo non porta automaticamente ad una riduzione dei consumi. Lavoreremo per cercare con la via negoziale di fare capire per quale motivo non ha senso applicare dazi a un prodotto come il nostro che non è in reale concorrenza con i parmesan americani. Ci rimboccheremo le maniche per sostenere la domanda in quello che è il nostro primo mercato estero e che rappresenta oggi il 22,5% della quota export totale. Il Parmigiano Reggiano copre circa il 7% del mercato dei formaggi duri a stelle e strisce e viene venduto a un prezzo più che doppio rispetto a quello dei parmesan locali. Nel 2019, quando Trump introdusse tariffe aggiuntive pari al 25%, il Parmigiano Reggiano fu il prodotto più colpito con un incremento del prezzo a scaffale dai 40 ai 45 dollari al chilo. Fortunatamente i dazi sono poi stati sospesi il 6 marzo del 2021 e non ci hanno creato problemi in termini di vendite. Gli americani hanno continuato a sceglierci anche quando il prezzo è aumentato. Negli Stati Uniti chi compra il Parmigiano Reggiano fa una scelta consapevole: ha infatti un 93% di mercato di alternative che costano 2-3 volte meno”.

ALLARME NEL MONDO COOPERATIVO
Fortemente impattato è anche il tessuto cooperativo: negli Usa il fatturato delle cantine cooperative è di oltre 570 milioni di euro, il 30% di tutto l’export vitivinicolo nel mercato statunitense, mentre per un altro settore ad alto valore aggiunto con le sue produzioni DOP come i formaggi, le cooperative commercializzano negli Stati Uniti 122 milioni di euro, il 25% di tutte le vendite di formaggi negli Usa, che nel 2024 hanno toccato quota 484 milioni di euro. Seguono poi altre filiere e prodotti in cui la cooperazione esporta valori significativi come il pomodoro da industria. “Per quanto riguarda il settore vino – dice Raffaele Drei, Presidente di Confcooperative Fedagripesca (nella foto in alto) – occorre destinare maggiori risorse per la promozione, se davvero vogliamo aiutare le aziende ad acquisire nuovi mercati. Andrà fatto inoltre un grande lavoro di sburocratizzazione nelle procedure per l’accesso ai bandi. All’Europa chiediamo misure per la promozione più snelle e in generale risposte più efficaci rispetto al passato perché quelle attuali risultano un po’ timide rispetto all’urgenza di aggredire nuovi mercati”. Più in generale, per altri settori fortemente orientati alle esportazioni, le istituzioni secondo Drei “dovranno concentrarsi maggiormente nei rapporti internazionali per promuovere rapporti bilaterali con altri paesi extra-Ue, anche attraverso nuovi accordi di libero scambio al fine di migliorare canali commerciali già consolidati o aprire altri mercati in cui oggi è difficile conquistare quote di mercato. Il settore lattiero-caseario rischia di veder compromessa la stabilità della tutela delle Dop con il conseguente proliferare dell’Italian sounding”.

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