
L’industria alimentare è in buono stato di salute, anzi nei difficili anni dal 2007 al 2013 ha registrato una crescita media del Cagr del 3,87% e un aumento della redditività media dell’8,51%. Ma questo non vale per tutti i comparti.
Sono le evidenze emerse dalla ricerca condotta in collaborazione con Federalimentare e Fiere di Parma dall’Università Cattolica del sacro Cuore di Milano, con l’obiettivo di individuare le performance economiche, competitive e sociali delle aziende del sistema alimentare italiano e i fattori che hanno consentito di raggiungere risultati eccellenti.
Nel periodo considerato, ha ricordato il presidente dei giovani imprenditori di Federalimentare Francesco Divella, la produzione complessiva dell’industria alimentare è si diminuita del 3%, ma quella dell’industria manifatturiera lo è stata del -24% e l’export è crescito del 50% contro il 10% dell’insieme dell’industria.
Basta quindi a dire che l’industria alimentare gode di ottima salute? Di certo il discorso vale per quella che è stata definita l’élite dell’industria alimentare su cui si è concentrata la ricerca, vale a dire 448 aziende sulle 58 mila che compongono il settore (ma va ricordato che solo 13.300 sono società di capitali e solo 6250 sono imprese industriali con più di 9 addetti), il cui fatturato è di 57 miliardi sui complessivi 133 dell’intero settore alimentare. Ecco spiegato, quindi il concetto di élite.

Sono tre, però, secondo il professor Lorenzo Ornaghi, Presidente dell’Alta Scuola di Economia e Relazioni internazionali (ASERI) gli elementi costitutivi di questa avanguardia: «Il rapporto intergenerazionale negli imprenditori che fa sì che i giovani abbiano attenzione e passione per il loro lavoro, il rapporto stretto che si è generato dall’appartenenza a una base territoriale in cui operano queste imprese e un campo d’azione globale. Infine un comune sentire delle imprese. Da questi tre elementi nasce l’importanza economica dell’industria alimentare prima ancora che dal legame associativo».
Dalla ricerca emergono però, insieme ai dati positivi che hanno permesso al settore di navigare con relativa tranquillità in questi anni difficili, le diverse situazioni dei singoli comparti. «Storie differenti emergono dalla crescita dei ricavi – spiega Fabio Antoldi (foto in apertura), Direttore del Centro di Ricerca per lo Sviluppo imprenditoriale (CERSI) – perché se la media ponderata è intorno al 4%, ve ne sono alcuni che sono stati più penalizzati (la birra, l’olio, l’acqua e le bevande) e altri che hanno perforato meglio della media, come le carni, la gastronomia, le conserve. Lo stesso vale per un altro indicatore, l’Ebitda che mediamente è positivo con un valore di +8,5%. Ma anche in questo caso vi sono comparti che hanno una redditività superiore della media (gli snack, i coloniali, la birra) e altri che sono sotto media: i salumi, le carni, l’olio, la gastronomia.
«Vi sono alcuni segnali di sofferenza – aggiunge Antoldi – come il lattiero-caseario che ha avuto una crescita di fatturato per i rincari e ha avuto importanti performance nell’export, ma il Mol si sta erodendo a casusa del costo della materia prima in ascesa dopo la fine dell sistema delle quote. Altro settore critico è quello dei salumi, dove molti piccoli salumifici territoriali, che non hanno la dimensione per trarre benefici dal driver internazionale, sono in forte difficoltà».
Esiste quindi una relazione statisticamente significativa tra crescita dei ricavi, redditività aziendale e dimensione aziendale, si chiedono i ricercatori?
“Sotto questo aspetto – si legge nella sintesi della ricerca – l’analisi delle correlazioni mostra alcuni elementi interessanti (che saranno oggetto di ulteriore approfondimento nel rapporto finale della ricerca). Tali elementi sono sintetizzabili nel modo seguente:
- c’è una correlazione positiva tra dimensione e redditività, riscontrata in particolare nei settori Pasta, Dairy, Snack e Acqua/bevande: questo dato induce a ritenere che, soprattutto in questi settori, il maggior potere di mercato delle grandi imprese “faccia la differenza”;
- non vi è, invece, una correlazione significativa tra dimensione e crescita. In altri termini, non può affermarsi in maniera statisticamente fondata che siano le grandi o le piccole imprese ad avere tassi di crescita superiori. Fanno eccezione a questo dato i comparti Olio e Conserve, nei quali sono state le imprese di minori dimensioni a crescere maggiormente nel periodo in esame;
- la crescita è correlata negativamente alla redditività (soprattutto nei comparti Dairy e Snack). Esiste in altri termini un trade-off: l’aumento dei ricavi tende ad accompagnarsi ad una “contropartita”, in termini di minore redditività. Fa eccezione il comparto dei salumi, nei quali invece si riscontra nei sette anni analizzati una relazione positiva tra crescita e redditività;
- la crescita è correlata positivamente alla posizione finanziaria netta (soprattutto nel comparto Snack): questo dato indica che, in generale, la crescita passa anche attraverso il reperimento di risorse attraverso l’indebitamento.
La seconda fase della ricerca, ancora in corso, è funzionale a tale obiettivo e si basa sulla somministrazione di un questionario alle 120 imprese caratterizzate da maggiore competitività (“top champions”) e rappresentative dei diversi comparti. . L’identificazione di tali imprese si è basata sulla costruzione di un indice sintetico di competitività, che ponderasse crescita (misurata dal tasso di crescita medio dei ricavi nel periodo in esame), redditività (misurata da ROA ed EBITDA/Vendite) e posizione finanziaria netta (rapporto PFN/Vendite).
Il questionario, sottoposto ai top manager delle imprese, è volto ad analizzare le strategie e il posizionamento competitivo delle imprese attraverso la rilevazione non solo di dati quantitativi, ma anche di opinioni, attese, percezioni dei rispondenti.
«Oltre che nella ricerca di opportunità di sviluppo internazionale – sottolinea Daniele Cerrato, Docente di Economia Aziendale riguardo alle prime anticipazioni – le risposte strategiche alla crisi si sono concentrate principalmente nei seguenti ambiti: investimento nell’innovazione dei processi produttivi (93% dei rispondenti), sviluppo nuovi prodotti (78%).
Accanto all’innovazione di prodotto/processo, gli investimenti per sostenere/accrescere la qualità del prodotto e per aumentare la capacità produttiva dell’impresa sono indicati tra le priorità strategiche per il futuro, mentre si registra un minore interesse per iniziative di diversificazione rispetto al core business. Questo dato rappresenta un segnale di fiducia da parte degli imprenditori ed appare particolarmente incoraggiante per le prospettive del settore».
Sebbene frutto di un’analisi ancora parziale, queste prime evidenze empiriche suggeriscono una “sintesi” dei risultati dell’indagine in corso nei seguenti elementi: il settore alimentare conserva un ruolo centrale nel sistema industriale italiano, nonostante la crisi economica; la crescita aziendale è stata trainata negli ultimi anni soprattutto dai mercati esteri; “Innovazione di prodotto/processo” e “qualità” rappresentano due pilastri della competitività aziendale; resta forte il focus delle imprese sul core business.