Rapporto Censis, che cosa resta dell’Italia

Un’Italia nel limbo a mezze tite, senza progettazione per il futuro, con la cultura collettiva prigioniera della cronaca e del consenso d’opinione. Famiglie e imprese restano in un recinto securizzante, ma inerziale.

Così il Rapporto Censis, giunto alla 49esima edizione, dipinge l’Italia del 2015. Nell’indifferenza del dibattito socio-politico, si va costruendo, secondo l’istituto di ricerca, uno sviluppo fatto di basi storiche, capacità inventiva e naturalezza dei processi oggi vincenti.

Ne sono esempio i giovani che vanno a lavorare all’estero o tentano la strada delle start up, le famiglie che accrescono il proprio patrimonio e lo mettono a reddito (con l’enorme incremento, ad esempio, dei bed & breakfast), le imprese che investono in innovazione continuata e green economy, i territori che diventano hub di relazionalità (la Milano dell’Expo come le città e i borghi turistici), la silenziosa integrazione degli stranieri nella nostra quotidianità.

A ciò si accompagna anche un’evoluzione più strutturata, con il nuovo made in Italy che si va formando nell’intreccio tra successo gastronomico e filiera agroalimentare, nell’integrazione crescente tra agricoltura e turismo (con l’implicito ruolo del patrimonio paesaggistico e culturale), nel settore dei «macchinari che fanno macchinari» (la vera punta di diamante della manifattura italiana).

La crisi della rappresentanza sociale

Nelle fasi di sviluppo precedenti, ampiamente studiate dal Censis, la domanda di riconoscimento della società era rivolta al mondo della rappresentanza sociale, alla dialettica socio-politica e al potere statuale. Ma oggi sono tre chiamate in causa cui è difficile dare seguito, perché sono tre realtà in crisi profonda. E anche perché la società appare ormai poco propensa a esprimersi come soggetto di domanda.

Si esprime invece in quella dinamica spontanea descritta sopra, che però è considerata residuale: un «resto» rispetto ai grandi temi che occupano la comunicazione di massa.

Ma il «resto», che finora non è entrato nella cronaca e nel dibattito socio-politico, comincia ad affermare una sua autoconsistenza. Nei movimenti tettonici che ci portano avanti «vince il resto»: quel che non accede al proscenio e alle luci della visibilità. È proprio dal «grande resto» che può cominciare a partire la riappropriazione della nostra identità collettiva.

«Cosa resta oggi del grande processo di globalizzazione vista come occidentalizzazione del mondo? Il policentrismo di tanti diversi sviluppi e la crescita faticosa di una poliarchia», ha detto Giuseppe De Rita, presidente del Censis, illustrando il Rapporto annuale dell’istituto.

«Nella nostra storia, il resto del mito della grande industria e dei settori avanzati è stata l’economia sommersa e lo sviluppo del lavoro autonomo. Il resto del mito dell’organizzazione complessa e del fordismo è stata la piccola impresa e la professionalizzazione molecolare. Il resto della lotta di classe nella grande fabbrica è stata la lunga deriva della cetomedizzazione. Il resto dell’attenzione all’egemonia della classe dirigente è stata la fungaia dei soggetti intermedi e la cultura dell’accompagnamento. Il resto del primato della metropoli è stato il localismo dei distretti e dei borghi. Il resto della spensierata stagione del consumismo (del consumo come status e della ricercatezza dei consumi) è la medietà del consumatore sobrio. Il resto della lunga stagione del primato delle ideologie è oggi l’empirismo continuato della società che evolve. E i processi di sviluppo reale del Paese qui descritti sono il resto delle tante discussioni sulla guerra degli ultimi giorni».