Ristorazione fuori casa: i dati del rapporto 2019 curato da Fipe

Cambiano i ritmi di vita, i luoghi di consumo, gli stili alimentari, ma una cosa è certa: la passione degli italiani per il ristorante e la buona cucina non accenna a tramontare. Al contrario. Un quadro che emerge chiaramente dal rapporto 2019.

Il mondo della ristorazione– sottolinea infatti il presidente di Fipe, Lino Enrico Stoppani – è un grande asset della nostra economia e un patrimonio, anche culturale, del Paese. I dati parlano chiaro: con 46 miliardi di euro siamo la prima componente del valore aggiunto della filiera agroalimentare, continuiamo a far crescere l’occupazione e contribuiamo alla tenuta dei consumi alimentari: negli ultimi 10 anni, nonostante la crisi, gli italiani hanno speso sempre di più per mangiare fuori casa, riducendo al contrario la spesa in casa. Merito di un’offerta che cresce in segmentazione dei format commerciali, in qualità dell’offerta gastronomica e in professionalità. I milioni di turisti che arrivano in Italia mettono proprio bar e ristoranti tra le cose che maggiormente apprezzano del nostro Paese.”

Il rapporto

Dall’analisi in dettaglio del rapporto 2019, si scopre che ogni giorno circa cinque milioni di persone, il 10,8% degli italiani, fa colazione in uno dei 148mila bar della penisola. Altrettante sono le persone che ogni giorno pranzano fuori casa, mentre sono poco meno di 10 milioni (18,5%) gli italiani che cenano al ristorante almeno due volte a settimana.  Un vero e proprio esercito di persone che nel 2018 ha speso, tra bar e ristoranti, 84,3 miliardi di euro, l’1,7% in più in termini reali rispetto all’anno precedente e che nel 2019 ha fatto ancora meglio, arrivando complessivamente a spenderne 86 milioni.

La ciliegina sulla torta di un decennio che ha visto i consumi degli italiani spostarsi al di fuori delle mura domestiche: tra il 2008 e il 2018, infatti, l’incremento reale nel mondo della ristorazione è stato del 5,7%, pari a 4,9 miliardi di euro, a fronte di una riduzione di circa 8,6 miliardi di euro dei consumi alimentari in casa. Una cifra, quest’ultima, che nel 2019 è salita a 8,9 miliardi di euro. Una performance che consente al mercato italiano della ristorazione di diventare il terzo più grande in Europa, dopo quelli di Gran Bretagna e Spagna e che ha ricadute positive sull’intera economia italiana e in particolare sulla filiera agroalimentare. Ogni anno, infatti, la ristorazione acquista prodotti alimentari per un totale di 20 miliardi di euro, andando a creare un valore aggiunto superiore ai 46 miliardi, il 34% del valore complessivo dell’intera filiera agroalimentare.

Vince la tradizione

Ciò che attira in maniera sempre più marcata i consumatori all’interno dei ristoranti è la tradizione. Il 50% degli intervistati da Fipe, infatti, cerca e trova nei locali che frequenta un’ampia offerta di prodotti del territorio, preparati con ricette classiche ma non solo. Il 90,7% dei clienti confessa di essersi fatto tentare da piatti nuovi e mai provati, mentre il 60,5% ammette di andare al ristorante anche per affinare il proprio palato. Tutti, o quasi, concordano, però su un punto: è fondamentale sapere ciò che si mangia. Il 68,1% dei clienti quando entra al ristorante, per prima cosa si informa sulla provenienza geografica dei prodotti, il 58,5% sui valori nutrizionali dei piatti e il 54,5% sull’origine e la storia di una ricetta. L’altro elemento che incide sulla scelta di un locale è la sua politica “green”. Sette consumatori su dieci sostengono infatti che sia importante che i ristoranti operino in modo sostenibile dal punto di vista sociale e ambientale. Il che significa, per il 37,7% degli avventori, che portino avanti politiche contro lo spreco alimentare dotandosi di doggy bag o rimpiattini, per il 36,7% che utilizzino materie prime provenienti da allevameni sostenibili, mentre per il 33,3% che limitino l’uso della plastica. Solo meno di un italiano su tre rimane totalmente indifferente di fronte a questo tipo di politiche sostenibili.

Un Doc per battere i plagi

Contro l’Italian sounding è stato creato il marchio di riconoscimento “ospitalità italiana”, attraverso il quale il nostro Paese certifica che si tratta di ristoranti che utilizzano prodotti italiani e si ispirano ad autentiche ricette italiane con una forte enfasi sulle cucine del territorio. La presenza è diffusa ovunque, dall’Europa all’Oceania: il Paese con il maggior numero di ristoranti certificati sono gli Stati Uniti d’America e la prima città è New York. In totale, sugli oltre 60mila ristoranti “all’italiana” presenti nel mondo, solo 2.200 hanno ottenuto questo importante riconoscimento.

Il fronte occupazionale

Secondo l’ultimo censimento disponibile, sono 336mila le imprese della ristorazione attualmente attive. Sono 112.441 quelle gestite da donne che scelgono in un caso su due di aprire un ristorante. 56.606 imprese sono, invece, gestite da giovani under 35. Sono infine 45mila le imprese che hanno soci o titolari stranieri. Nel mondo della ristorazione l’occupazione rimane stabile rispetto allo scorso anno (1,2 milioni di dipendenti di cui il 52% donne) ma sul lungo periodo mostra un’impennata notevole, soprattutto rispetto agli altri settori dell’economia nazionale. Negli ultimi 10 anni fa, infatti, i posti di lavoro, misurati in unità di lavoro standard, in bar e ristoranti sono cresciuti del 20%, a fronte di un calo dell’occupazione totale del 3,4%.

Vecchi problemi, nuove criticità

Esistono alcune criticità strutturali nel mercato della ristorazione e alcuni fenomeni recenti. Da un lato il settore soffre ancora di un elevato tasso di mortalità imprenditoriale: dopo un anno chiude il 25% dei ristoranti; dopo 3 anni abbassa le serrande quasi un locale su due, mentre dopo 5 anni le chiusure interessano il 57% di bar e ristoranti. Un dato che fa il paio con la bassa produttività di questo settore: il valore aggiunto per unità di lavoro è di 38.700 euro, il 41% più basso rispetto al dato complessivo dell’intera economia. Nel corso degli ultimi 10 anni il valore aggiunto per ora lavorata è sceso di 9 punti percentuali. La novità risiede invece nelle piaghe dell‘abusivismo commerciale e della concorrenza sleale. Nei centri storici, nel corso degli ultimi 10 anni, si è impennato il numero di paninoteche, kebab e (finti) take away di ogni genere (+54,7%), mentre sono diminuiti i bar (-0,5%). Il pubblico esercizio deve fare i conti con una concorrenza ormai fuori controllo. Crescono soprattutto le attività senza spazi, senza personale, senza servizi soprattutto nei centri storici delle città più grandi.

Questo – continua il Presidente Stoppani – dipende da una molteplicità di fattori: i costi di locazione sono diventati insostenibili, il servizio richiede personale e il personale costa, gli oneri di gestione, a cominciare dalla Tari, sono sempre più pesanti. La scorciatoia e’ fatta da attività senza servizio, senza spazi e con personale ridotto all’osso, ed è favorita da politiche poco lungimiranti delle amministrazioni locali che consentono a tutti di fare tutto senza il rispetto del principio “stesso mercato, stesse regole” che per noi è alla base di una buona e sana concorrenza. La disparità di condizioni non genera soltanto concorrenza sleale, ma finisce per impoverire il mercato stesso, la sicurezza dei consumatori e la qualità delle nostre città”.