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Giorgetti a Fipe: presumibilmente si riaprirà a maggio

Due le questioni principali sul tavolo: riaperture e sostegni, questi i temi caldi del confronto avvenuto ieri (13 aprile) tra il ministro dello sviluppo economico Giancarlo Giorgetti e la Fipe.

Una data certa per riaprire le attività non è ancora possibile darla, tuttavia afferma il ministro “presumibilmente maggio sarà un mese di riaperture” coerentemente con il segnale del governo che ha già scelto “di riaprire le scuole”.

Ma quando si saprà qualcosa? 

“La decisione sulle riaperture sarà presa probabilmente la prossima settimana dal Consiglio dei ministri” – rassicura Giorgetti – “sebbene ci aspettassimo di più sul fronte del vaccini, il piano va avanti”.

Propositive le posizioni anche sul tema sostegni.

Il ministro ha indicato due strade: gli indennizzi basati sul fatturato, com’è accaduto per l’ultimo decreto, oppure prendere in considerazione il bilancio che “senz’altro fornisce indicazioni più precise sulle perdite reali subite” ma che prevede tempi più lunghi. Il punto di mediazione potrebbe essere, su questo la Fipe si è impegnata a presentare una proposta articolata in tempi brevi, un sistema di due acconti e di un saldo finale che terrebbe conto degli indicatori contenuti nel bilancio evitando sperequazioni tra le diverse attività.

Giorgetti ha infine accolto anche il suggerimento affinché un rappresentante della categoria possa partecipare alle riunioni del CTS.

Lockdown pasquale: l’osservatorio Tuttofood ai tempi di Covid 19

Pasqua? Quest’anno sarà in versione lockdown.

Analizzando e confrontando i dati di mercato, l’Osservatorio di TUTTOFOOD ha delineato gli scenari dal punto di vista sia socioeconomico, sia delle tendenze lifestyle e di consumo.  

Ma cosa sceglieranno i consumatori?

In molte Regioni ai ristoranti è consentito proseguire l’attività per la consegna a domicilio e gli italiani ne stanno approfittando. In un’indagine condotta dal Centro Studi FIPE, la Federazione Italiana dei Pubblici esercizi, il 40% dei ristoratori segnala una crescita della domanda di food delivery. E, anche se solo il 5,4% delle imprese della ristorazione tradizionale era già attrezzato, un ulteriore 10,4% si è subito attivato.

Tra i consumatori,  chi in precedenza non aveva mai utilizzato le consegne a domicilio ha cominciato a farlo (10%), mentre tra chi già le utilizzava, ma saltuariamente, il 53% ha fatto almeno 1-2 ordini dall’inizio delle misure di contenimento. I piatti più richiesti? Stravince la tradizione: il 68% ordina soprattutto pizze e il 26% preferisce piatti tipici della cucina italiana, ma il 22% va sul classico hamburger con patatine, magari per “cambiare un po’” rispetto alla cucina di casa.

Interessante il dato di chi dall’inizio dell’emergenza ha invece scelto di fare minor ricorso al food delivery: ben il 69% dichiara che è dovuto a un maggior desiderio di mettersi a cucinare in prima persona. Magari facendosi arrivare gli ingredienti a casa: per la settimana da lunedì 16 a domenica 22 marzo, il Barometro Nielsen ha registrato una crescita a tre cifre per le vendite online nei prodotti di largo consumo: +142,3%, in rialzo di ben 45 punti percentuali rispetto al trend della settimana precedente.

Che sia tramite e-commerce o facendo pazientemente la fila, in guanti e mascherina, per entrare al supermercato, i dati di vendita per merceologia sembrano confermare che molti italiani si siano scoperti chef autodidatti: sempre secondo rilevazioni Nelsen, nella settimana dal 9 al 15 marzo gli acquisti di farina sono aumentati del 185,3% rispetto alla stessa settimana dell’anno scorso. Numeri simili sono stati riscontrati anche dalle analisi di Altroconsumo che per le farine, dall’inizio dell’emergenza, ha visto un incremento medio del 106%, con un picco del 187% nella settimana del 22 marzo. Aumenti si sono registrati anche per preparati per torte e dessert, zucchero e per gli  ingredienti della pasticceria.

In quali tendenze si tradurranno a Pasqua questi comportamenti di consumo? Lo abbiamo chiesto a quattro tra i più noti chef associati APCI – Associazione Professionale Cuochi Italiani – in diverse Regioni italiane. Inventiva per recuperare gli ingredienti più comuni, ritorno alla tradizione del territorio e un tocco di salutismo sono le ricette più citate.

Per Luca Malcrida, originario della Valtellina ma attivo a Roma, dove lavora spesso come chef a domicilio oltre che tenendo corsi, la Pasqua in emergenza deve diventare un momento di riflessione anche in cucina. “Non serve correre a comprare ingredienti magari mai usati prima. Meglio imparare a usare le giacenze di casa. Pensiamo alle uova, un ingrediente facile da usare con cui si possono fare moltissime cose. Per esempio, un buon modo di celebrare la Pasqua in modo semplice ma diverso può essere recuperare la tradizione romana della colazione pasquale a base di uova sode, salumi e focaccia al pecorino. Un’altra proposta semplice e originale è reinterpretare la ‘corona pasquale’, una ciambella tipica del Centro-Sud, con frutta secca ed essiccata”.

E, pensando alle uova, non dobbiamo pensare solo al “monoprodotto” classico. Anche le uova negli ultimi anni hanno conosciuto un’evoluzione e un ampiamento di gamma, come spiega Federico Lionello, Direttore Commerciale e Marketing del Gruppo Eurovo, un leader internazionale in questo specifico mercato. “Per Pasqua abbiamo preparato le Naturelle De Luxe in Limited Edition – interviene – caratterizzate da uova con guscio naturalmente colorato: bianche, verdi-azzurre, rosa e chocolate. Provenienti da galline ornamentali di razza rustica pregiata, allevate in una filiera controllata e certificata con mangimi OGM free, sono uova biologiche e Antibiotic free 100% italiane. Si affiancano         alle Naturelle Edizione Pasquale, una confezione che vede un mix di uova naturali e uova dolci: a 8 uova di gallina da allevamento a terra si accostano infatti due uova di cioccolato al latte in una confezione in PET 100% riciclato”.

Anche per il giovane chef napoletano Luigi Barone il segreto è sfruttare le scorte che si hanno a disposizione. “Prima del blocco avevamo appena ricevuto una fornitura di piselli freschi: l’abbiamo utilizzata per diversi giorni, con ricette sempre diverse dai passati, alle zuppe, alle paste. In generale, è il momento di rivalutare la versatilità delle verdure fresche, che ci aiutano anche a mangiare più sano in un momento in cui siamo costretti a una vita sedentaria. Un altro piatto semplice da preparare ma che si presta a molte ricette gustose sono gli gnocchi, la nostra proposta sono degli gnocchetti al carciofo con salsina di formaggio. A Napoli il dolce di Pasqua è ovviamente la pastiera, che io ripropongo in una versione allo stesso tempo più tradizionale e più leggera, cuocendo il farro, anziché usare grano cotto pronto, e utilizzando ricotta di pecora”.

Stagionalità e biodiversità locale sono i punti chiave di Vincenzo Butticè, chef de Il Moro di Monza, che sintetizza il suo approccio nel motto “Non si cucina ciò che si ha, si cucina ciò che si è”. “In particolare, noi siamo in Brianza e facciamo riferimento ai prodotti tipici di questo territorio. Con uova e panna, anche vegetale, l’asparago rosa di Mezzago è perfetto per un flan leggero e salutistico: il colore rosa si deve al contenuto di ferro. Immancabile la patata di Oreno che si può sposare bene con i formaggi di Montevecchia per una pasta gratinata. Sincera, vera, ‘povera’ sono le parole d’ordine della cucina per la Pasqua di quest’anno”.

Secondo l’Executive Chef milanese Massimo Moroni, il segreto per creare “l’effetto ristorante” è mantenere la classica alternanza tra una portata di carne e una di pesce. “Il tocco diverso dal solito noi lo diamo con una tartare di ricciola con guacamole, un incontro insolito che valorizza entrambi i sapori. Essendo a Milano, poi, non possiamo rinunciare al risotto alla milanese, ma affiancandolo a uno sformato di asparagi, e reinterpretiamo il raviolo di magro con un ripieno a base di borragine, una pianta selvatica un tempo molto usata in cucina anche per le sue proprietà antinfiammatorie e protettive del sistema cardiovascolare. Il dolce, invece, non può che essere una colomba artigianale”. 

Colomba e uova di cioccolato

La colomba, e uova di cioccolato si confermano come gli irrinunciabili per concludere il pranzo di Pasqua.

Ma come dev’essere la colomba perfetta, artigianale e innovativa al contempo, secondo un esperto? “Zuccheri e grassi devono avere bilanciamenti differenti rispetto alle ricette storiche. Un attento pasticciere deve avere la sensibilità di mettere in gioco la storia dolciaria millenaria (della Sicilia, nel nostro caso), ma senza sconvolgere nulla, comprendendo le tendenze alimentari attuali e armonizzando le componenti in maniera più equilibrata, in vista del benessere fisico e alimentare”, dichiara Nicola Fiasconaro, maestro pasticciere dell’omonimo brand siciliano. E aggiunge: “Quest’anno abbiamo deciso di giocare con gli ingredienti della regina indiscussa della pasticceria siciliana, la cassata, riproposta come dolce da ricorrenza con una ricetta innovativa. Strati di colomba classica con canditi di arancia e mandorle di Sicilia il tutto farcito con crema di ricotta di pecora con una piccola percentuale di capra, per renderla più leggera”.

Quanto alle uova, le tendenze quest’anno sono due: grande attenzione alla presentazione, con uova di design o ispirate a tecniche artistiche – molto trendy lo stile dripping ispirato a Jackson Pollock, a base di gocce di cioccolato – e il prodotto “firmato” dai più noti maestri pasticceri o prodotti da grandi nomi storici della cioccolateria. Che gli italiani amino i prodotti da ricorrenza lo confermano anche i numeri: sono regolarmente uno dei best performer nelle vendite di alimentari confezionati nella distribuzione organizzata. Nei primi due mesi di quest’anno, per esempio, secondo le rilevazioni dell’analista di mercato IRI i prodotti da ricorrenza hanno totalizzato vendite per 108 milioni di euro con un incremento del 5,8% rispetto al primo bimestre del 2019. Per chi vive un lifestyle più urbano e dinamico e la colomba o l’uovo  preferisce quindi comprarli al supermercato, esistono molte opzioni di qualità che si possono individuare anche grazie ai comparatori pubblicati sui siti specializzati, come Gastronauta, Dolcesalato o Giallo Zafferano, o sui siti di molti quotidiani.

Una volta deciso il menu, per un pranzo di Pasqua a casa ma “come al ristorante” l’importante è anche creare l’atmosfera giusta: la permanenza al chiuso può comportare un impatto piscologico importante sulla nostra capacità di goderci il momento. L’edizione internazionale del prestigioso Architectural Digest suggerisce alcuni espedienti per dare ai nostri pranzi o cene in casa l’allure di una serata fuori: dai più ovvi, come tirar fuori dalla credenza il servizio buono, il tovagliato di Fiandra e l’argenteria della nonna, ai meno scontati come vestirsi per l’occasione come se si dovesse uscire o scegliere un diverso spazio della casa: ad esempio, il soggiorno se di solito si pranza al tavolo di cucina, o il terrazzo per chi ne ha uno e se il meteo lo permette. Per gli interior designer di AD, fondamentale anche curare le luci – quasi sempre le nostre sale da pranzo sono troppo illuminate da luce diretta per creare un’atmosfera – e togliere dall’ambiente gli oggetti inutili per concentrare l’attenzione dei commensali sulla mise en place e l’impiattamento che, naturalmente, dovranno essere impeccabili.      

Per ulteriori informazioni: www.tuttofood.it, @TuttoFoodMilano.

Buoni pasto: tassa occulta del 30%. L’allarme delle imprese di categoria

Buoni pasto: troppo cari per gli esercenti che devono accollarsi commissioni verso le società emettitrici e oneri finanziari. Morale: pagano una tassa occulta pari al 30%. La causa?

Le gare bandite da Consip per la fornitura del servizio alla pubblica amministrazione, che hanno ormai spinto le commissioni al di sopra del 20%.

Quindi?

Quindi, se non ci sarà un’inversione di rotta immediata, quasi tre milioni di dipendenti pubblici e privati potrebbero vedersi negata la possibilità di pagare il pranzo o la spesa con i ticket. Nel nostro Paese, inftti, sono circa 2,8 milioni i lavoratori  dotati di buoni pasto e il 64,7% di loro  li utilizza come prima forma di pagamento ogni volta che esce dall’ufficio.

Ecco l’allarme lanciato dai rappresentanti delle sei associazioni di categoria che rappresentano le imprese della distribuzione e della ristorazione del nostro Paese: Lino Enrico Stoppani, presidente Fipe- Confcommercio, Claudio Gradara, presidente Federdistribuzione, Luca Bernareggi, presidente ANCC Coop, Corrado Luca Bianca, Coordinatore Nazionale FIEPeT Confesercenti, Sergio Imolesi, segretario generale ANCD Conad e Donatella Prampolini, presidente FIDA-Confcommercio.

È evidente – sottolineano le associazioni – che lo Stato non può far pagare la propria spending review alle nostre imprese. Così facendo si mette a rischio un sistema che dà un servizio importante a 3 milioni di lavoratori ogni giorno e si mettono in ginocchio decine di migliaia di imprese, tra pubblici esercizi, piccola e grande distribuzione commerciale. Nessuno può dimenticare che il buono pasto è un servizio che già gode di agevolazioni importanti in termini di decontribuzione e defiscalizzazione ”.

Il tavolo, oltre a promuovere una campagna di comunicazione congiunta che interesserà tutti gli esercizi della ristorazione e della distribuzione commerciale, ha anche deciso di avviare un’azione di responsabilità nei confronti di Consip per aver ignorato i campanelli d’allarme in merito alla vicenda Qui!Group, azienda leader dei buoni pasto alla pubblica amministrazione che, dopo essere stata dichiarata fallita a settembre 2018, ha lasciato 325 milioni di euro di debiti, di cui circa 200 milioni nei confronti degli esercizi convenzionati.

La stazione appaltante

Consip, effettua le gare formalmente con il sistema dell’offerta maggiormente vantaggiosa ma, di fatto proprio per la natura del buono pasto, al massimo ribasso. Nel corso dell’ultima gara aggiudicata a fine 2018, i 15 lotti, dal valore complessivo di 1 miliardo di euro, sono stati assegnati con uno sconto medio del 20% e con picchi al di sopra del 22%. Uno schema identico a quello del 2016, quando il ribasso medio si è assestato attorno al 15%. Questo livello di sconti, una volta sdoganato dal pubblico, sta diventando di riferimento anche per le gare private.

Risultato: un esercente vende prodotti e servizi per valore di 8 euro ma ne incassa 6,18. Aggiungendo a queste commissioni altri oneri finanziari, su buoni pasto del valore di 10mila euro, gli esercizi si vedono decurtare 3mila euro.

Qui!Group

In seguito al fallimento della principale società fornitrice di buoni pasto alla pubblica amministrazione, la Qui!Group di Genova, migliaia di piccole e grandi aziende della ristorazione e della distribuzione commerciale si sono ritrovate con circa 200 milioni di euro di crediti che sarà molto difficile  riscuotere. I rimborsi previsti, trattandosi di creditori chirografari, difficilmente arriveranno a coprire il 10% del credito, praticamente il valore dell’iva che i titolari dei locali hanno già anticipato allo Stato. Eppure Consip era a conoscenza già agli inizi del 2017 delle difficoltà della società di rimborsare i buoni pasto. Per questo il tavolo delle associazioni  ha deciso di avviare un’azione di responsabilità nei confronti della Consip per omesso controllo.

Ristorazione fuori casa: i dati del rapporto 2019 curato da Fipe

Cambiano i ritmi di vita, i luoghi di consumo, gli stili alimentari, ma una cosa è certa: la passione degli italiani per il ristorante e la buona cucina non accenna a tramontare. Al contrario. Un quadro che emerge chiaramente dal rapporto 2019.

Il mondo della ristorazione– sottolinea infatti il presidente di Fipe, Lino Enrico Stoppani – è un grande asset della nostra economia e un patrimonio, anche culturale, del Paese. I dati parlano chiaro: con 46 miliardi di euro siamo la prima componente del valore aggiunto della filiera agroalimentare, continuiamo a far crescere l’occupazione e contribuiamo alla tenuta dei consumi alimentari: negli ultimi 10 anni, nonostante la crisi, gli italiani hanno speso sempre di più per mangiare fuori casa, riducendo al contrario la spesa in casa. Merito di un’offerta che cresce in segmentazione dei format commerciali, in qualità dell’offerta gastronomica e in professionalità. I milioni di turisti che arrivano in Italia mettono proprio bar e ristoranti tra le cose che maggiormente apprezzano del nostro Paese.”

Il rapporto

Dall’analisi in dettaglio del rapporto 2019, si scopre che ogni giorno circa cinque milioni di persone, il 10,8% degli italiani, fa colazione in uno dei 148mila bar della penisola. Altrettante sono le persone che ogni giorno pranzano fuori casa, mentre sono poco meno di 10 milioni (18,5%) gli italiani che cenano al ristorante almeno due volte a settimana.  Un vero e proprio esercito di persone che nel 2018 ha speso, tra bar e ristoranti, 84,3 miliardi di euro, l’1,7% in più in termini reali rispetto all’anno precedente e che nel 2019 ha fatto ancora meglio, arrivando complessivamente a spenderne 86 milioni.

La ciliegina sulla torta di un decennio che ha visto i consumi degli italiani spostarsi al di fuori delle mura domestiche: tra il 2008 e il 2018, infatti, l’incremento reale nel mondo della ristorazione è stato del 5,7%, pari a 4,9 miliardi di euro, a fronte di una riduzione di circa 8,6 miliardi di euro dei consumi alimentari in casa. Una cifra, quest’ultima, che nel 2019 è salita a 8,9 miliardi di euro. Una performance che consente al mercato italiano della ristorazione di diventare il terzo più grande in Europa, dopo quelli di Gran Bretagna e Spagna e che ha ricadute positive sull’intera economia italiana e in particolare sulla filiera agroalimentare. Ogni anno, infatti, la ristorazione acquista prodotti alimentari per un totale di 20 miliardi di euro, andando a creare un valore aggiunto superiore ai 46 miliardi, il 34% del valore complessivo dell’intera filiera agroalimentare.

Vince la tradizione

Ciò che attira in maniera sempre più marcata i consumatori all’interno dei ristoranti è la tradizione. Il 50% degli intervistati da Fipe, infatti, cerca e trova nei locali che frequenta un’ampia offerta di prodotti del territorio, preparati con ricette classiche ma non solo. Il 90,7% dei clienti confessa di essersi fatto tentare da piatti nuovi e mai provati, mentre il 60,5% ammette di andare al ristorante anche per affinare il proprio palato. Tutti, o quasi, concordano, però su un punto: è fondamentale sapere ciò che si mangia. Il 68,1% dei clienti quando entra al ristorante, per prima cosa si informa sulla provenienza geografica dei prodotti, il 58,5% sui valori nutrizionali dei piatti e il 54,5% sull’origine e la storia di una ricetta. L’altro elemento che incide sulla scelta di un locale è la sua politica “green”. Sette consumatori su dieci sostengono infatti che sia importante che i ristoranti operino in modo sostenibile dal punto di vista sociale e ambientale. Il che significa, per il 37,7% degli avventori, che portino avanti politiche contro lo spreco alimentare dotandosi di doggy bag o rimpiattini, per il 36,7% che utilizzino materie prime provenienti da allevameni sostenibili, mentre per il 33,3% che limitino l’uso della plastica. Solo meno di un italiano su tre rimane totalmente indifferente di fronte a questo tipo di politiche sostenibili.

Un Doc per battere i plagi

Contro l’Italian sounding è stato creato il marchio di riconoscimento “ospitalità italiana”, attraverso il quale il nostro Paese certifica che si tratta di ristoranti che utilizzano prodotti italiani e si ispirano ad autentiche ricette italiane con una forte enfasi sulle cucine del territorio. La presenza è diffusa ovunque, dall’Europa all’Oceania: il Paese con il maggior numero di ristoranti certificati sono gli Stati Uniti d’America e la prima città è New York. In totale, sugli oltre 60mila ristoranti “all’italiana” presenti nel mondo, solo 2.200 hanno ottenuto questo importante riconoscimento.

Il fronte occupazionale

Secondo l’ultimo censimento disponibile, sono 336mila le imprese della ristorazione attualmente attive. Sono 112.441 quelle gestite da donne che scelgono in un caso su due di aprire un ristorante. 56.606 imprese sono, invece, gestite da giovani under 35. Sono infine 45mila le imprese che hanno soci o titolari stranieri. Nel mondo della ristorazione l’occupazione rimane stabile rispetto allo scorso anno (1,2 milioni di dipendenti di cui il 52% donne) ma sul lungo periodo mostra un’impennata notevole, soprattutto rispetto agli altri settori dell’economia nazionale. Negli ultimi 10 anni fa, infatti, i posti di lavoro, misurati in unità di lavoro standard, in bar e ristoranti sono cresciuti del 20%, a fronte di un calo dell’occupazione totale del 3,4%.

Vecchi problemi, nuove criticità

Esistono alcune criticità strutturali nel mercato della ristorazione e alcuni fenomeni recenti. Da un lato il settore soffre ancora di un elevato tasso di mortalità imprenditoriale: dopo un anno chiude il 25% dei ristoranti; dopo 3 anni abbassa le serrande quasi un locale su due, mentre dopo 5 anni le chiusure interessano il 57% di bar e ristoranti. Un dato che fa il paio con la bassa produttività di questo settore: il valore aggiunto per unità di lavoro è di 38.700 euro, il 41% più basso rispetto al dato complessivo dell’intera economia. Nel corso degli ultimi 10 anni il valore aggiunto per ora lavorata è sceso di 9 punti percentuali. La novità risiede invece nelle piaghe dell‘abusivismo commerciale e della concorrenza sleale. Nei centri storici, nel corso degli ultimi 10 anni, si è impennato il numero di paninoteche, kebab e (finti) take away di ogni genere (+54,7%), mentre sono diminuiti i bar (-0,5%). Il pubblico esercizio deve fare i conti con una concorrenza ormai fuori controllo. Crescono soprattutto le attività senza spazi, senza personale, senza servizi soprattutto nei centri storici delle città più grandi.

Questo – continua il Presidente Stoppani – dipende da una molteplicità di fattori: i costi di locazione sono diventati insostenibili, il servizio richiede personale e il personale costa, gli oneri di gestione, a cominciare dalla Tari, sono sempre più pesanti. La scorciatoia e’ fatta da attività senza servizio, senza spazi e con personale ridotto all’osso, ed è favorita da politiche poco lungimiranti delle amministrazioni locali che consentono a tutti di fare tutto senza il rispetto del principio “stesso mercato, stesse regole” che per noi è alla base di una buona e sana concorrenza. La disparità di condizioni non genera soltanto concorrenza sleale, ma finisce per impoverire il mercato stesso, la sicurezza dei consumatori e la qualità delle nostre città”.

Vent’anni fa, la spesa era diversa: Fipe fotografa il nuovo rapporto degli italiani col cibo

Com’è cambiata la spesa degli italiani negli ultimi vent’anni, e i consumi alimentari in genere? Ce lo dice Fipe, la Federazione Italiana Pubblici Esercizi, attraverso l’indagine Gli italiani e il cibo presentata a Tuttofood. I cambiamenti sono tanti e sostanziali, con l’aumento dell’interesse verso la colazione e la perdita di centralità del pranzo, l’aumento netto dei consumi fuoricasa: oggi il 35% della spesa alimentare è indirizzata su bar e ristoranti. Nel carrello si riducono pane e cerali (-7,5% nel periodo 2000 – 2015) e la carne (-8,1%), ma anche i consumi di pasta e dessert scendono in casa, mentre resistono al ristorante. Un cambio di stili, di vita e di alimentazione, che ha come motore una maggiore attenzione alla salute e al benessere, che passa appunto per le scelte alimentari.

 

Vince solo la verdura: meno frutta, carne e carboidrati

Ma che mangiano oggi gli italiani? La risposta non è univoca perché esistono due grandi tendenze: una parte minoritaria di italiani che vive il rapporto con il cibo all’insegna del salutismo, e un’altra maggioritaria mangia con sempre minore attenzione al concetto tradizionale di cibo come fonte di benessere. Sul piano pratico esistono però tendenze chiare, con il calo della quota di popolazione che consuma quotidianamente carboidrati (dal 91,5% del 1995 all’80,9% del 2015) e proteine, e l’aumento di coloro che prediligono ortaggi (dal 41,8% del 1995 al 45,5% del 2015) e di chi presta attenzione al consumo di sale. Dall’altro lato cala la quota di popolazione che consuma la frutta almeno una volta al giorno (dall’82,2% del 1995 al 75,4% del 2015) e quella di chi utilizza olio di oliva e grassi vegetali per la cottura e soprattutto per il condimento a crudo.

Comportamenti opposti che Fipe rintraccia da una parte nella riduzione della spesa per pane e cereali (-7,5% a prezzi costanti nel periodo 2000 – 2015), per la carne, principalmente rossa (-8,1%), per vegetali (-11%) e frutta (-11,4%) e dall’altra nell’aumento del tasso di popolazione in sovrappeso o addirittura in condizioni di obesità, arrivate a 5 milioni di persone.

 

Colazione alla riscossa

Il diverso valore nella quantità di cibo acquistato e consumato riflette un mutamento negli stili alimentari: se nel 1995 il 76,6% della popolazione considerava il pranzo il pasto principale della giornata, nel 2015 la percentuale è del 67,2%. In diminuzione anche la percentuale di italiani che pranza a casa (dall’82,8% del 1995 al 73,4% del 2015). Di conseguenza cresce il valore della cena: il 23,2% del campione lo considera, incurante delle sirene dei nutrizionisti, il pasto principale della giornata, contro il 18,5% del 1995. Un fenomeno che purtroppo non interessa solo le fasce adulte della popolazione ma anche i bambini che assumono i modelli alimentari dei genitori. In questi ultimi vent’anni si registra anche qualche fenomeno positivo come l’aumento della popolazione che inizia la giornata con una colazione ben più sostanziosa di quanto si facesse in passato (dal 71,6% del 1995 all’81,2% del 2015). Fortemente ridimensionata è l’era del “caffè in piedi”: ora insieme a caffè e cappuccino si mangia anche qualcosa.

 

Nel mangiar fuori secondi solo alla Spagna

Una delle tendenze più nette però che evidenzia un netto mutamento degli stili di vita, di lavoro e di comportamento sociale è l’aumento dei consumi fuoricasa, e il conseguente calo dei consumi domestici. Anche se la forte “vocazione” alimentare dell’Italia non si discute: resiste il cosiddetto “modello mediterraneo”, con un peso percentuale dei consumi alimentari sul totale dei consumi che si attesta sul 14%. Per quanto riguarda il peso percentuale della ristorazione sul totale dei consumi, l’Italia con il 7,6% si pone sopra il valore dell’Eurozona (7,1%) al secondo posto dopo la Spagna (14,6%), battendo Francia, Germania e Regno Unito.

 

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