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Tredicesima: dei 44,3 miliardi di euro la metà va agli acquisti, ma cresce il risparmio

La tredicesima? Chi ce l’ha, la metterà (almeno in parte) sotto il materasso. Tra questa e la prossima settimana circa 34 milioni di persone nel nostro Paese riceveranno la sospirata tredicesima mensilità, per un valore complessivo di 44,2 miliardi, l’1,2% in più rispetto allo scorso anno. Buone notizie per i retailer che pensano a un’iniezione di denaro tradizonalmente destinata agli acquisti natalizi? Sì e no. “Solo” la metà del totale (22,4 miliardi, lo 0,2% in più rispetto allo scorso anno) sarà infatti quest’amno destinata agli acquisti, mentre cresce la quota che sarà destinata al risparmio (+5,8% sul 2017, circa 600 milioni in più) per un totale di circa 11 miliardi di euro. È quanto emerge dalle elaborazioni dell’Ufficio Economico Confesercenti sui dati di un sondaggio condotto con SWG.

Oltre 10,8 miliardi di euro, invece, saranno utilizzati per saldare conti in sospeso e mutuo: una cifra elevata (il 22% del totale), ma in diminuzione dell’1,1% rispetto al 2017. Tra le spese, faranno la parte del leone quelle per la casa e la famiglia: questa voce assorbirà il 32% del totale delle tredicesime, per un totale di 14,7 miliardi, circa 219 milioni di euro in più rispetto al 2017. Diminuisce, invece, la quota della mensilità destinata ai doni: quest’anno saranno circa 7,7 miliardi euro, con una flessione del -2,2% (-171 milioni).


I regali più gettonati sono libri (segnalati dal 41% degli intervistati), capi d’abbigliamento (38%), regali gastronomici (33%), vini (20%), accessori moda, giochi o videogiochi e prodotti tecnologici, tutti e tre al 19%. Più distanti nella classifica dei doni più acquistati l’arredamento/cose per la casa (indicati dal 14%), gli elettrodomestici (11%), seguiti da calzature (8%) e viaggi (4%).

Molto diversa, invece, la classifica dei regali che gli italiani vorrebbero trovare sotto il proprio albero. In cima alle preferenze, a grande distanza, ci sono i buoni acquisto, da spendere come e quando si vuole nei negozi di propria scelta e desiderati dal 20% degli intervistati. Seguono i libri (16%), i prodotti tecnologici e i regali enogastronomici (entrambi al 15%), poi capi d’abbigliamento (13%), profumi o cosmetici (8%), smartbox o simili (5%), arredamento/cose per la casa (4%) e infine gioielli e giochi (entrambi al 2% delle preferenze).

Confesercenti: nel 2018 crescita lenta, peggiore risultato dal 2014

Una crescita lenta ferma all’1% e che rischia di avere conseguenze negative sui consumi, infleunzata dal dimezzamento del potere d’acquisto e dal deterioramento della fiducia: questa la “lettura” di Confesercenti dell’anamento dei consumi nel 2018. Una frenata allarmante, la peggiore dal 2014. La crescita prevista per l’anno è inferiore all’1,4% auspicato dal Documento di Economia e Finanza e il risultato più fiacco dal +0,3% registrato nel 2014. E la debolezza di quest’anno proseguirebbe per tutto il prossimo biennio: la crescita dei consumi si dovrebbe confermare al +1% nel 2019 per poi frenare ancora a +0,7% nel 2020. In valori assoluti, si parla di 5 miliardi di euro in media di spesa all’anno in meno rispetto alle previsioni nel triennio 2018-2019-2020.

Il rallentamento dei consumi inciderà anche sul Pil: l’anno si dovrebbe chiudere con una variazione di +1,3% del prodotto interno lordo, due decimi di punto in meno dell’1,5% indicato nel DEF. E la debolezza proseguirebbe per tutto il prossimo biennio: la crescita dei consumi si dovrebbe confermare al +1% nel 2019 per poi frenare ancora a +0,7% nel 2020. La variazione del Pil, invece, dovrebbe rallentare ulteriormente sia nel 2019 (+1,2%) che nel 2020 (+1,1%). Le previsioni macroeconomiche sono state condotte da Cer per Confesercenti.

Tab. 1: Consumi famiglie e Pil, previsione variazioni 2018-2020. Fonte: modello econometrico Confesercenti Cer

Sono dunque confermate le maggiori difficoltà a superare la recessione registrate dal nostro Paese rispetto ai partner europei. A dicembre 2017, infatti, i consumi delle principali economie europee sono tutte al di sopra del 2007, ultimo anno prima della crisi: in Germania segnano il 10,9% in più, in Francia l’8,6% e nel Regno Unito il 5,5% in più. In Italia, invece, sono ancora al di sotto dei livelli del 2007 del 2,7%; pari a circa 26,3 miliardi di euro in meno. Un gap che, di questo passo, recupereremo solo nel 2021, ben 14 anni dopo la crisi.

 

Ipotesi aumento IVA 

Va sottolineato, inoltre, che queste stime sono state elaborate ipotizzando lo stop agli aumenti IVA previsti dalle clausole di salvaguardia. Se così non fosse, come tuttora iscritto nel bilancio ‘a legislazione vigente’, il quadro di previsione sarebbe decisamente peggiore: la variazione dei consumi si abbasserebbe allo 0,8% già nel 2019, per arrivare quasi allo stop (+0,3%) nel 2020. Anche la crescita del Pil si indebolirebbe, scendendo a +1,1% nel 2019 e inabissandosi sotto la soglia psicologica del +1% già nel 2020 (+0,8%).

Tab. 2: Consumi e Pil, previsione variazioni 2018-2020 in caso di applicazione aumenti IVA (clausole di salvaguardia)

A pesare sui consumi – e, di conseguenza, sulla crescita dell’intera economia – è il deciso indebolimento del potere d’acquisto, la cui crescita si è dimezzata passando dal +1,4% del 2015-2016 al +0,7% di quest’anno. Ma incide anche il deterioramento del clima di fiducia delle famiglie consumatrici, che rende improbabile un recupero della spesa nell’ultima parte dell’anno. Tra gennaio ed agosto del 2018, infatti, l’indice di fiducia delle famiglie è sceso dello 0,3%, contro la crescita del 2,6% registrata nello stesso periodo del 2017. Il calo di ottimismo degli italiani – che scoraggia le decisioni di spesa – è dovuto ad un quadro economico percepito come meno favorevole. Disaggregando le componenti relative al clima economico e al clima futuro, infatti, le contrazioni registrate dall’indice di fiducia nei primi 8 mesi di quest’anno sono ancora più accentuate (rispettivamente -4,5 e -1,6 punti).

“I consumi delle famiglie sono, purtroppo, il grande malato della nostra economia – commenta Patrizia De Luise, Presidente di Confesercenti -. Non ci siamo mai ripresi dalla caduta della grande recessione, e l’ulteriore rallentamento previsto per il 2018 non può che allarmare. E non solo i commercianti: senza una ripartenza decisa del mercato interno, infatti, il nostro Pil – che per il 60% è fatto proprio di consumi – è condannato ad avere un andamento asfittico, soprattutto in un contesto di riduzione del valore aggiunto delle esportazioni come quello attuale”.

 

Difficoltà per le piccole imprese

“Con queste prospettive economiche, essere e rimanere una piccola impresa in Italia è sempre più un’impresa”, conclude De Luise -. “Come se non bastasse un’economia in netta frenata, il sistema Paese italiano sembra quasi diventato strutturalmente anti-impresa. Basti pensare alla pressione fiscale sulle PMI, già oltre il 60%. Ma c’è anche l’eccesso di burocrazia, un macigno che pesa 22 miliardi di euro l’anno, e una grave situazione del credito: nonostante il successo nella riduzione delle sofferenze, a causa della stretta a livello europeo delle varie Basilea, il sistema bancario sta smettendo di erogare finanziamenti alle piccole imprese: solo nell’ultimo anno sono spariti 12 miliardi di prestiti vivi alle attività economiche. Poi c’è la Bolkestein, che sta distruggendo il valore delle imprese ambulanti e degli stabilimenti balneari. Elementi che, insieme, formano un vero e proprio percorso ad ostacoli, che sta tramutando il fare impresa in una sfida di sopravvivenza. Serve almeno una svolta netta sul piano fiscale, che ridia fiducia ed ossigeno alle famiglie. O i consumi ed il nostro Pil rimarranno al palo”.

Deregulation no grazie? Sei italiani su 10 bocciano le aperture nei giorni di festa

Porte aperte degli esercizi commerciali nei giorni di festa (e il primo maggio è una delle più controverse): sì o no? Come la pensano gli italiani? A questa domanda risponde un Sondaggio Confesercenti SWG sulle liberalizzazioni del commercio.  Dal quale emerge come lo shopping nei giorni di festa non convinca affatto gli italiani: il 59% si dice favorevole a introdurre una limitazione delle aperture delle attività commerciali almeno in occasione delle principali celebrazioni nazionali: Natale, Capodanno, Pasqua, 25 aprile e, appunto, 1^ maggio, giornata in cui solo 2 intervistati su 10 progettano di fare acquisti.

La liberalizzazione delle aperture delle attività commerciali, introdotta dal governo Monti a partire dall’1 gennaio 2012, prevede la possibilità di rimanere aperti sempre, anche a Pasqua e Natale. Obiettivo dichiarato del provvedimento, l’aumento delle occasioni d’acquisto per i consumatori e il conseguente impulso a consumi ed occupazioni.

Ad oggi, in media, un consumatore approfitta delle liberalizzazioni 10 giorni l’anno, ma sono 60 le giornate rese disponibili dalla deregulation, tra domeniche e feste comandate. Non solo: Lo spostamento dello shopping dai giorni feriali a quelli festivi non ha prodotto lo sperato aumento degli acquisti: nel 2017 le vendite del commercio al dettaglio sono ancora inferiori di oltre 5 miliardi di euro rispetto ai livelli del 2011, ultimo anno prima della liberalizzazione.

 

Gdo (e online) pigliatutto, soffrono gli indipendenti

Anche l’effetto sull’occupazione è stato nullo: se è vero che nella Gdo sono state assunte circa 30mila persone, il provvedimento è stata una catastrofe per i negozi indipendenti. Che, a partire dal fattore lavoro, non sono stati in grado di competere con le aperture 24 ore su 24, sette giorni su sette, praticate dalla grande distribuzione. E sono stati costretti a chiudere: secondo le stime Confesercenti, dal 2012 ad oggi l’aumento di competizione innescato dalla deregulation ha portato alla cessazione di almeno 90mila piccoli negozi.

La deregulation ha di fatto spostato ulteriori quote di mercato verso la grande distribuzione, l’unica in grado di stare aperta 365 giorni l’anno, a scapito dei piccoli esercizi, che dal 2011 hanno visto travasare circa 7 miliardi di euro di vendite nella Gdo. Il tutto in un contesto già messo sotto pressione dalla concorrenza del commercio online al retail tradizionale: tra il 2011 ed il 2017 il fatturato dell’e-commerce è infatti cresciuto di 3,7 miliardi. In media, i consumatori acquistano cinque volte l’anno via web.

 

La proposta di legge: aprire solo se necessario

Per riportare una situazione di equilibrio concorrenziale nella distribuzione commerciale, Confesercenti ha presentato nel 2013 una proposta di legge di iniziativa popolare per un regime di aperture in base alle necessità reali dei territori, riportando la decisione ai sindaci in accordo con le associazioni. È chiaro che lì dove c’è bisogno, come nelle mete turistiche, è necessario che le attività commerciali siano aperte. Ma dove non c’è bisogno, la deregulation si è trasformata in un obbligo competitivo che ha favorito i grandi e schiacciato lavoratori e piccoli imprenditori.

“La nostra è una proposta equilibrata – sottolinea Confesercenti – che ha già raccolto il favore di alcune forze politiche. Il testo è alla Camera e adesso, con il nuovo Parlamento, è tornato in cima alla lista delle leggi che aspettano il prossimo esecutivo: deve solo essere trasformato in legge”.

NOTA METODOLOGICA
Tema del sondaggio: soggetto realizzatore: SWG Spa Committente e acquirente: Confesercenti Nazionale
Data di esecuzione: 16-18 aprile 2018 Metodologia di rilevazione: sondaggio online CAWI su un campione casuale probabilistico stratificato e di tipo panel ruotato di 1000 soggetti maggiorenni, distribuito su tutto il territorio nazionale. Il campione intervistato online è estratto dal panel proprietario SWG. Tutti i parametri sono uniformati ai più recenti dati forniti dall’ISTAT. I dati sono stati ponderati al fine di garantire la rappresentatività rispetto ai parametri di sesso, età e macro area di residenza. Margine d’errore massimo: ± 3,0%

Saldi invernali al via, un business complessivo, stabile, da 5,2 miliardi di euro

Foto Daniel von Appen / Unsplash.

Sono già iniziati nelle piccole Valle d’Aosta e Basilicata, mentre nel resto d’Italia bisognerà aspettare domani, 5 gennaio, e in Sicilia addirittura il giorno dell’Epifania. Poi si chiuderanno quasi ovunque a fine febbraio o ai primi di marzo, ma a quel punto i giochi saranno fatti da tempo. Sono i saldi invernali, primo grande appuntamento commerciale del 2018, a cui come ogni anno gli Italiani arrivano con i portafogli vuoti dopo le feste natalizie, ma comunque con la voglia di fare qualche affare.

 

Quest’anno budget medio di 331 euro per 15,6 milioni di famiglie

Gli esperti prevedono che la spesa sarà più o meno quella dell’anno scorso. In base a uno studio di Confcommercio il business complessivo sarà di 5,2 miliardi di euro, e saranno 15,6 milioni le famiglie che approfitteranno delle svendite di fine stagione. Il budget a persona sarà di 143 euro per abbigliamento, calzature e accessori, e di 331 euro per ogni famiglia. Più o meno uguali le previsioni di Confesercenti, secondo cui – la fonte è una ricerca commissionata a Swg e condotta su 600 commercianti e 1500 consumatori – l’investimento sui saldi sarà di 150 euro a persona. Più o meno un italiano su due (il 47%, mentre il 41% deciderà all’ultimo momento a seconda delle occasioni) sarà interessato e i commerciati coinvolti saranno 280mila (circa un terzo delle 800mila attività commerciali italiane), con uno sconto medio tra il 30 e il 40%. Sempre secondo l’indagine di Confesercenti-Swg gli italiani andranno in cerca soprattutto di scarpe (28%), prodotti di maglieria (22%) e pantaloni (14%), mentre solo il 7% punta ad acquistare i capi spalla (cappotti e giacconi), un tempo tradizionale bene da svendita a causa dell’alto costo.

«Dopo un Natale ancora sospeso tra una crisi che sembra volgere al termine ed una ripresa ancora debole almeno nel fashion retail – nota Renato Borghi, presidente di Federazione Moda Italia e vicepresidente di Confcommercio – la buona notizia è l’incremento di due punti della fiducia dei consumatori, tornato ai livelli del gennaio 2016. Un ingrediente, questo, imprescindibile, oltre al potere di acquisto degli Italiani, per sostenere i consumi in questo periodo dei saldi di fine stagione, che per meteo e calendario è appena iniziata. La spesa per gli acquisti in saldo per valore, secondo le nostre stime, sarà leggermente inferiore a quella dell’anno scorso, ma in linea con il momento. Il vero vantaggio sarà per i consumatori non vedere i prezzi dei negozi, dal primo gennaio, con l’Iva al 25%. Il Governo ha fatto bene ad ascoltarci, sterilizzando le clausole di salvaguardia, ma se vogliamo veramente uscire dal tunnel, occorre un maggior sforzo, coraggio e determinazione per ridurre la pressione fiscale, ancora troppo elevata per imprese e famiglie».

 

Il decalogo per minimizzare i “pacchi”

Naturalmente la ricerca dell’affare comporta anche qualche rischio. Per questo come ogni anno le associazioni di categoria diffondono una sorta di decalogo per minimizzare il pericolo di una fregatura. Bisogna essenzialmente tenere a mente che – come fa notare Confcommercio – il commerciante non è tenuto a cambiare il capo, salvo qualora ciò non sia espressamente specificato e salvo casi di merce danneggiata o non conforme, a patto che si resti entro i due mesi dall’acquisto; che non c’è obbligo di prova dei capi; che il commerciante non è tenuto ad accettare le carte di credito, se non espressamente comunicato; che è obbligatorio da parte del commerciante indicare prezzo pieno, prezzo finale e ammontare percentuale dello sconto.

Infine va ricordato che anche i negozi online hanno i loro saldi. Amazon farà sconti sull’abbigliamento fino al 50% per cento fino al 28 febbraio, lo stesso farà Zalando e Asos, che arriverà fino a “tagli” sull’etichetta del 70%. Molti negozi online arricchiscono di prodotti la sezione outlet, dedicata agli articoli in svendita, mentre OVS propone in rete tutta la collezione con sconti fino al 70%. Per i negozi online valgono naturalmente le stesse regole dei saldi nei negozi fisici.

Aperture festive nel commercio il 62% degli italiani dice no, la proposta di Confesercenti

Negozi aperti 24 ore su 24, 7 giorni su 7? Non è una necessità impellente, quanto meno per il 62% degli italiani che secondo un’indagine Confesercenti-SWG è favorevole alla regolamentazione nei giorni di festa comandata. Il commercio, insomma, non è considerato dalla maggioranza come un servizio essenziale al pari di quelli forniti da ospedali, polizia e mezzi di trasporto. 

Un giudizio che secondo l’indagine è molto influenzato dalla consapevolezza che la deregulation, introdotta dal Governo Monti nel 2012 con la possibilità di rimanere aperti sempre, anche a Pasqua e Natale, sta schiacciando i negozi. Il 71% degli intervistati, infatti, segnala che negli ultimi due anni, nel proprio quartiere o città, hanno chiuso negozi di cui erano clienti abituali, mentre il 66% ha visto crescere il numero di locali sfitti o che hanno cambiato tipologia di attività, passando dal commercio alla ristorazione o ai servizi.

La posizione dei consumatori sulla deregulation trova evidenti assonanze con quella espressa dai commercianti. Che, però, vivono con ancora maggiore preoccupazione gli effetti della liberalizzazione, che ha portato le attività commerciali, in media, ad essere aperte 30 giorni di più all’anno. Il 61%, infatti, ritiene che il regime di apertura continua abbia danneggiato la propria attività, contro appena un 12% che dichiara effetti positivi.

 

La proposta di Confesercenti

12 chiusure festive e domenicali obbligatorie durante l’anno, con la possibilità da parte dei sindaci di raddoppiarle o annullarle a seconda delle esigenze del territorio: è questa la proposta che riscuote il favore quasi unanime dei commercianti: tra gli intervistati si è detto favorevole l’87%, contro un 4% di contrari e un 9% di incerti.  “Un esito motivato dal desiderio degli imprenditori di limitare la distorsione della concorrenza a favore della Gdo – si legge in una nota -, ma che nasce anche dalla considerazione che la debolezza del mercato interno rende insostenibile l’eccesso di deregulation“. Infatti, interrogati sul futuro della propria attività, la maggioranza degli imprenditori – il 52% – vede il maggior fattore di rischio nella situazione economica del Paese, mentre Gdo e centri commerciali sono indicati da un terzo degli intervistati e la concorrenza dell’online solo dal 15%.

«La nostra proposta – spiega il Presidente di Confesercenti Massimo Vivoli – prevede di passare dalla deregulation totale ad un minimo di regolamentazione, ragionevole e assolutamente compatibile con i principi e le prassi prevalenti in Europa in materia di libertà di concorrenza. Monti aveva promesso che con questa liberalizzazione sarebbe aumentato il Pil, sarebbe aumentata l’occupazione, si sarebbe stimolata una maggior concorrenza. Tutte e tre queste cose sono risultate non vere. Gli unici effetti certi rilevati con certezza sono stati la compressione dei diritti dei piccoli imprenditori e lo spostamento di quote di mercato – il 3%, pari a 7 miliardi di fatturato – dai negozi tradizionali alla grande distribuzione. È chiaro che noi non chiediamo di stare chiusi sempre, ma di restare aperti solo quando e dove necessario, come ad esempio nelle località turistiche, per predisporre un programma di aperture attento alle esigenze dei consumatori ma anche di chi lavora e di quel modello distributivo italiano che è, storicamente, fatto di piccole e medie imprese».

L’indagine è stata condotta su un campione di 1300  consumatori e 600 imprenditori della distribuzione relativamente al tema della deregulation del commercio.

 

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