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Export agroalimentare italiano a un passo dai 70 miliardi di euro

Il settore agroalimentare italiano resta competitivo sullo scacchiere internazionale, con numeri in crescita anche nel 2025 che dovrebbe chiudersi con un export superiore ai 70 miliardi di euro, soglia mai raggiunta finora. Ma ha un problema, reso ancora più di attualità dal protezionismo trumpiano: la sostanziale dipendenza da pochi grandi mercati. L’Italia è oggi il nono esportatore mondiale per valore (67,2 miliardi di euro nel 2024) e secondo Paese per crescita nell’ultimo quinquennio, con un aumento del 55%. Una crescita diffusa su quasi tutti i mercati, con risultati particolarmente rilevanti in Polonia (+112%), Spagna (+74%) e Stati Uniti (+69%). Ma la concentrazione geografica è forte: i primi cinque mercati di destinazione — Germania, USA, Francia, UK e Spagna — rappresentano ancora il 50% dell’export complessivo. Riuscire a diversificare sarà fondamentale in una fase caratterizzata da molteplici fattori di incertezza e complessità, in cui gli equilibri commerciali globali si stanno rivelando sempre più fragili.
Le stime del 2025 sono comunque positive: secondo uno studio Nomisma, i dati gennaio-settembre mostrano una crescita per l’export agroalimentare italiano del +5,7% rispetto allo stesso periodo del 2024, segnale che il comparto dovrebbe superare per la prima volta la soglia dei 70 miliardi di euro. Un record – se così sarà – trainato soprattutto dai mercati dell’Unione Europea (+9%), con ottime performance in Polonia (+17,3%), Romania (+11,1%), Repubblica Ceca (+9,1%) e Spagna (+14,5%). Meno brillante la crescita extra UE (+4%), frenata dai cali registrati negli Stati Uniti (-1,1%), in Russia (-8%) e in Giappone (-13%).

PESA LA SVALUTAZIONE DEL DOLLARO
Il calo dell’export agroalimentare negli USA è legato principalmente alla svalutazione del dollaro (oltre -10% da inizio anno) e all’incertezza generata dalle politiche daziarie dell’Amministrazione Trump, che hanno provocato un andamento altalenante: una forte crescita nei primi tre mesi dell’anno dovuto all’effetto scorte e un crollo fino al -22% in agosto, con l’introduzione del dazio aggiuntivo del 15% su alcuni dei nostri prodotti.
Nonostante ciò, gli Stati Uniti restano un mercato strategico e difficilmente sostituibile per il food & beverage italiano. Con un Pil pro capite prossimo ai 90.000 dollari e una spesa alimentare annua di oltre 4.500 dollari a persona, gli USA importano 211 miliardi di dollari di prodotti agroalimentari, con una crescita del 50% negli ultimi 5 anni. Gli acquisti di prodotti agroalimentari italiani sono aumentati del 66% tra il 2019 e il 2024 e oggi l’Italia è il terzo fornitore con una quota di quasi il 4%, dopo Canada e Messico che congiuntamente pesano per oltre il 40% sull’import agroalimentare statunitense.

IL DIFFERENZIALE DI PREZZO NEGLI USA
La rilevanza del mercato Usa per l’export italiano è stata analizzata da Nomisma attraverso il confronto incrociato – per singolo prodotto – tra la crescita nell’export a volume degli ultimi 5 anni, il differenziale esistente tra il prezzo medio all’export negli USA rispetto alla media mondiale e il peso assunto dal mercato statunitense sull’intera categoria. Dall’analisi è emerso come per due categorie di prodotti in particolare, ovvero i derivati della carne e la cioccolata, il differenziale di prezzo sia superiore al 40% così come la crescita nei volumi esportati risulti maggiore del 50%.
Per olio d’oliva, vini fermi e frizzanti imbottigliati, liquori e aceti l’incidenza del mercato USA è superiore al 25% del nostro export a livello mondiale, con un differenziale di prezzo intorno al 30%, a dimostrazione di quanto il mercato americano risulti “attrattivo” e profittevole per le imprese italiane.

DIVERSIFICARE È UNA PRIORITÀ
Per ridurre i rischi e rafforzarne la crescita futura, diventa quindi fondamentale ampliare la presenza dell’agroalimentare Made in Italy in altri contesti. “Per quanto il mercato statunitense sia insostituibile per il nostro export agroalimentare – premette Denis Pantini, Responsabile Agroalimentare Nomisma – vi sono paesi che nell’ultimo decennio hanno incrementato le importazioni di nostri prodotti food & beverage a tassi medi annui superiori al 12%, in particolare Messico, Polonia, Romania, Corea del Sud ma anche Australia e Brasile, dove i nostri prodotti possono fare leva, oltre che sull’elevata qualità, su asset di sviluppo come la presenza di una nutrita comunità di origine italiana ma anche di ristoranti di cucina italiana, oggi ad un passo dal diventare ufficialmente patrimonio culturale immateriale dell’umanità da parte dell’Unesco. In un contesto economico sempre più instabile, l’agroalimentare italiano conferma la propria forza e la capacità di espandersi oltre confine, ma la sfida per i prossimi anni sarà diversificare, innovare e cogliere le nuove opportunità offerte dai mercati esteri”.
In questo contesto, un ruolo decisivo potrà essere svolto dai nuovi accordi di libero scambio. L’intesa UE–Mercosur, che coinvolge 260 milioni di persone e oltre 3.000 miliardi di dollari di Pil, secondo Nomisma rappresenta un’opportunità per le aziende italiane, considerando che il nostro export agroalimentare verso quest’area già oggi vale 440 milioni di euro (+68% negli ultimi cinque anni). Ulteriori prospettive arrivano dalla chiusura del negoziato con l’Indonesia, mercato da 287 milioni di abitanti, dove l’export italiano ha già raggiunto i 90 milioni di euro, con una crescita del +58% dal 2019.

IL FATTURATO CRESCE PIÙ DELLA MARGINALITÀ
Altro aspetto interessante – messo in luce da Crif, che con Nomisma ha realizzato la piattaforma Agrifood Monitor – è l’andamento di alcuni fondamentali indicatori finanziari con riguardo all’industria alimentare italiana. Il fatturato del comparto mostra tassi di crescita superiori rispetto alla mediana italiana. Sul fronte della marginalità, anche per effetto dell’inflazione sulla componente di energia e materie prime, il progresso rispetto al pre-Covid è risultato meno marcato nel confronto con il dato nazionale.
Dal punto di vista finanziario, invece, il comparto ha solo parzialmente ampliato la propria flessibilità finanziaria, a dispetto di quanto avvenuto in modo più marcato in altri settori. Ciononostante, il debito finanziario continua a risultare sostenibile, con un rapporto debito finanziario lordo su Ebitda mediamente pari a 2,5x e un adeguato livello di copertura degli oneri finanziari prossimo a 8x, pur in presenza dell’incremento del tasso di interesse a partire dal secondo semestre 2022.

TASSO DI DEFAULT IN CALO
Le analisi prodotte da Crif Ratings segnalano che a fine 2024 il tasso di default delle società di capitali operanti nel settore alimentare ha registrato una riduzione di circa 25 punti base rispetto al 2023, a fronte di un lieve aumento di 15 punti base per l’intero universo delle società di capitali italiane. Sebbene tale tasso di default risulti leggermente superiore alla media dell’economia italiana, per quasi tutti i comparti del settore alimentare si è mantenuto su livelli inferiori rispetto a quelli osservati nel periodo pre-Covid.
Relativamente ai pagamenti commerciali, infine, le performance risultano molto eterogenee tra i diversi canali di sbocco anche se, mediamente, tutti mostrano percentuali di ritardi gravi superiori alla media nazionale, seppur senza segni preoccupanti di aumento negli ultimi semestri.
Pur in un contesto di incertezza, il settore alimentare italiano sta dimostrando una sostanziale stabilità dal punto di vista creditizio – commenta Simone Mirani, Managing Director di Crif Ratings –. L’attuale tasso di default delle società di capitali operanti nel settore si mantiene infatti nell’ordine del 3%, di poco sopra la media italiana e con dinamiche sostanzialmente omogenee nei diversi comparti. Tuttavia, la capacità di dotarsi e mantenere un’adeguata flessibilità finanziaria risulta un elemento chiave per affrontare con sufficienti margini di manovra il volatile contesto geopolitico e macroeconomico, ivi incluso l’impatto moderatamente negativo dei dazi USA”.

Overstock e inflazione fanno calare l’export di vino italiano negli States (-11,4%)

Sebbene in leggero calo rispetto agli anni precedenti, nel 2023 gli Stati Uniti hanno confermato il primato nella classifica mondiale dei consumi assoluti di vino, con un dato complessivo superiore ai 30 milioni di ettolitri. Il Paese rappresenta anche il principale importatore mondiale, con un valore di acquisti di vino dall’estero superiore ai 6 miliardi di euro, per quanto nel 2023 evidenzi una riduzione di oltre l’11% rispetto all’anno precedente. I dati emergono dal Report che Nomisma Wine Monitor dedica al Nord America analizzando le performance del vino italiano negli Stati Uniti e in Canada.

La Francia si conferma il primo partner commerciale degli Stati Uniti, con oltre il 37% della quota di mercato, cui segue l’Italia, il cui valore di esportazioni nel 2023 è sceso al di sotto dei 2 miliardi di euro (-11,4% a valore rispetto al 2022). Il nostro Paese mantiene comunque una quota di mercato superiore al 30%. Nel complesso tutti i primi 5 Paesi partner commerciali degli USA cedono sul versante del valore delle esportazioni; nonostante ciò, Francia e Italia consolidano le prime due posizioni in termini di quote di mercato.

“Nel 2023, sia negli USA che in Canada, si assiste a una tendenza opposta all’anno precedente, con un calo delle importazioni di vino derivante da molteplici fattori: da un eccesso di acquisti sopra la media nel 2022 da parte di importatori che ha generato un overstock, alla stretta monetaria della FED che ha ridotto la capacità di spesa dei consumatori, fino ad una maggiore attenzione a tutto ciò che può essere considerato healthy” segnala Denis Pantini, Responsabile di Nomisma Wine Monitor.

Considerando il vino imbottigliato – ad esclusione dello spumante – nel 2023 le importazioni negli USA diminuiscono sia a valore sia a volume, dopo un 2022 particolarmente brillante soprattutto sul fronte del valore. Francia e Italia si spartiscono quasi equamente i 2/3 della quota di mercato, seguite da Nuova Zelanda, Spagna e Australia. In Canada l’import del vino imbottigliato segue la tendenza generale del totale del vino, con un calo leggermente più deciso a valore (-15,2%). In questo segmento, la Francia raggiunge la prima posizione nella classifica dei partner commerciali, scalzando gli Stati Uniti: i due Paesi si spartiscono quasi il 50% della quota di mercato complessiva, con l’Italia staccata di poco.

Sul fronte della categoria Sparkling si registrano marcate contrazioni sia a volume che a valore. In questo contesto, l’Italia è il Paese che performa meno peggio tra i top 5 partner degli Stati Uniti, consolidando il secondo posto in termini di quote di mercato (con il 36,4% del totale), alle spalle della Francia, che ha invece visto diminuire il valore delle esportazioni negli USA di un quinto rispetto al 2022. In Canada, invece, il segmento sparkling non riesce a confermare gli incrementi di mercato registrati nel 2022, con riduzioni nelle importazioni a valore e a volume.

Nel 2023 regge il valore (+2,4%) delle importazioni di grandi formati, nicchia del mercato statunitense, e lo stesso accade in quello canadese, che fa segnare un +8,2% dell’import a volume di vino in contenitori tra 2 e 10 litri. In merito all’import di vino sfuso, negli USA si registrano forti cali sia a valore sia a volume. In questo scenario non positivo migliora leggermente l’Italia, che raggiunge una quota di mercato pari al 6%. Anche in Canada le importazioni di questa tipologia di vino diminuiscono a valore, pur rimanendo stabili nei volumi. Qui perde terreno l’Italia, andandosi ad affiancare alla Francia al quarto posto tra i partner commerciali, a seguito di riduzioni superiori al 30% sia a valore che a volume.

In ultimo, la generale negatività registrata nel 2023 influenza anche le esportazioni di vini DOP italiani negli USA, che calano del 4,8% a valore e di oltre il 10% a volume (cumulato gennaio-novembre 2023 vs 2022). Nonostante una leggera flessione, il prosecco rimane il primo vino italiano esportato. Trend positivi di crescita sono riscontrabili anche nei vini bianchi del Trentino Alto-Adige e del Friuli Venezia Giulia, così come nei bianchi siciliani. Le performance peggiori sono invece quelle registrate dai vini frizzanti (e, tra questi, dal lambrusco). Sul fronte canadese, le esportazioni dei vini Dop registrano una contrazione sia a valore che a volume, generata in particolare dal crollo dei rossi veneti che perdono quasi il 30% nel valore dell’export. I rossi Dop della Toscana, invece, rimangono al primo posto della classifica tra i vini a denominazione più venduti nel Paese, seguiti dal prosecco.

Crescono produzione ed export della mozzarella di bufala Dop

La mozzarella di bufala campana è il formaggio Dop che ha fatto registrare la crescita di produzione più alta tra il 2016 e il 2022, mettendo a segno un aumento del 26%, a fronte di una crescita media del 10% della produzione certificata dei formaggi Dop. Nove italiani su dieci hanno consumato mozzarella di bufala nell’ultimo anno, il 25% almeno una volta a settimana e il 20% è pronto a farlo anche a colazione.

A volare nel 2022 è anche l’export, con un aumento a volume del 9% sul 2021 tra i principali produttori di bufala campana. Il fatturato alla produzione della filiera ha raggiunto i 530 milioni di euro ma lo sviluppo del comparto è messo a rischio da tre fattori esplosi nel 2022: aumento dell’inflazione (+17% per formaggi e latticini), incremento dei costi di produzione e perdita del potere di acquisto del consumatore, che hanno già portato a un impoverimento della filiera. Anche per il 2023 in cima alle preoccupazioni del comparto c’è proprio il calo della redditività.

I dati vengono messi a fuoco dal primo osservatorio economico sulla filiera della mozzarella di bufala campana Dop, realizzato in partnership con UniCredit e Nomisma, presentato ieri a Milano nella Tree House di UniCredit.

Nel 2022 sono stati prodotti 55 milioni e 814 mila chili di mozzarella Dop, con una crescita del 3,8% sull’anno precedente. Aumenta anche la quantità di latte idoneo alla Dop, passando da 295.434 tonnellate del 2021 a 305.829 del 2022. Inoltre negli ultimi dieci anni, dal 2012 al 2022, si è ampliato pure il patrimonio di bufale da latte allevate nell’area Dop, passando da 321.433 a 374.297 capi.

È il Nord Ovest dell’Italia il territorio dove si acquista più mozzarella Dop (il 34,9%), mentre all’estero la Francia si conferma il primo Paese tra i mozzarella-lovers, assorbendo da sola il 33% dell’export. Tra i mercati più promettenti per i prossimi anni spicca, a detta dei produttori, il continente asiatico con Emirati Arabi, Giappone, Cina e Corea del Sud nella top ten degli scenari futuri.

Nomisma ha tracciato anche l’identikit del consumatore della bufala campana Dop: è maschio, appartiene alle generazioni X (41-55 anni) e millennials (26-40 anni), è un imprenditore con figli con titolo di studio e reddito alti, abita in Centro Italia e conosce il valore aggiunto del marchio Dop.

“Come emerso dalla survey sul consumatore, in uno scenario economico incerto, le famiglie italiane sono pronte a rendere più leggero il carrello della spesa, ma la mozzarella di bufala campana Dop figura in fondo alla lista dei cibi eventualmente da tagliare e lo farebbe solamente il 10% dei consumatori”, ha sottolineato Denis Pantini, responsabile Agroalimentare di Nomisma, che ha illustrato i dati.

“In questi primi mesi, con il Governo Meloni – ha dichiarato il ministro Francesco Lollobrigidaabbiamo lavorato per rendere centrale la nostra battaglia contro l’italian sounding. Dobbiamo difenderci da chi tenta di vendere prodotti che nulla c’entrano con il nostro sistema di produzione e di trasformazione. Il nostro impegno per proteggere la qualità delle produzioni italiane è massimo, perché abbiamo un patrimonio unico e non delocalizzabile. In questo senso, è anche attraverso il monitoraggio delle filiere che possiamo garantire alle persone di trovare del buon cibo. In legge di bilancio, poi, abbiamo inserito misure che favoriscono l’innovazione, fattore necessario anche per contrastare quelle patologie che aggrediscono la zootecnia e l’agroalimentare in tutte le sue filiere”.

“I numeri della mozzarella Dop, seppure incoraggianti, vanno letti in una congiuntura davvero complessa, che ci preoccupa anche in questo 2023”, ha sottolineato il presidente del Consorzio di Tutela, Domenico Raimondo. “Siamo convinti che le eccellenze agroalimentari del Paese vadano interpretate e analizzate come motore economico. Per diffondere una sempre maggiore consapevolezza di questo ruolo chiave, abbiamo dato vita all’Osservatorio, che è improntato alla valorizzazione del Made in Italy di qualità. La circostanza che questo progetto parta dal Sud è per tutti noi senza dubbio un valore aggiunto”.

“Le imprese del comparto mostrano una buona tenuta nonostante il periodo complesso come quello attuale, ma per rafforzarne la competitività è importante pensare a nuovi modelli imprenditoriali costruiti su strategie di medio e lungo periodo come il sostegno alla filiera, la diversificazione dei canali di vendita e delle fonti finanziamento – ha infine aggiunto Annalisa Areni, Head of Client Strategies di UniCredit Italia. Le aziende della filiera hanno all’orizzonte importanti opportunità legate sia al PNRR, che è una occasione da cogliere per favorire una vera transizione sostenibile del sistema produttivo, sia al nuovo Piano Stretegico della PAC 2023-2027. Anche per questo come UniCredit abbiamo aderito con convinzione all’invito del Consorzio di Tutela a collaborare per la creazione di un osservatorio nazionale che possa far emergere il potenziale di crescita di questa filiera che rappresenta la prima Dop del Mezzogiorno, una vera e propria eccellenza sempre più apprezzata anche all’estero”.

Vino, calo di vendita nella Gdo, rallenta anche l’e-commerce

Dopo la galoppata del 2020, le vendite di vino in Italia nel canale off-trade (Iper, Super, Piccole superfici a libero servizio, Discount, Cash&Carry ed E-commerce dei siti generalisti) chiudono l’anno appena trascorso tirando un po’ il fiato. Secondo il Report Nomisma Wine Monitor realizzato in collaborazione con NielsenIQ, il consuntivo 2021 mostra una riduzione a volume dell’1,2% rispetto all’anno precedente a fronte però di una crescita nei valori del 5%. Messi a confronto con il 2019 – e quindi prima dello scoppio della pandemia – gli stessi dati segnalano comunque un aumento a volume del 5% e di oltre il 13% a valori, a testimonianza di una premiumisation dei consumi di vino che va avanti da diversi anni.

“Questo spostamento degli acquisti in Gdo verso vini di fascia di prezzo più elevata si verifica sia all’interno della stessa categoria che tramite uno spostamento dei consumi tra tipologie differenti e a maggior valore unitario” sottolinea Denis Pantini, Responsabile Agroalimentare e Wine Monitor di Nomisma. Basti infatti pensare che le vendite a volume di spumanti e Champagne crescono a doppia cifra percentuale (+23%) mentre i vini fermi chiudono il 2021 in calo del 4,5% a volume ma con un +0,3% a valore. “Il riposizionamento qualitativo dei consumi dei vini fermi si desume soprattutto dalle vendite a valore in Iper e Super dove crescono i vini a denominazione Dop – +5% a valore -a fronte di un calo di quelli generici (-10%)” aggiunge Pantini.

Spostando l’analisi ai diversi format distributivi, Iper+Super+Piccole superfici a libero servizio (che pesano per il 64% dei volumi dell’intero canale off-trade) accusano una riduzione a volume di quasi il 2% a fronte però di un incremento a valore del 5,2%. Sono le bollicine a spingere le vendite, con gli spumanti Metodo Classico a registrare le dinamiche più rilevanti, con una crescita a valore del +26%, seguiti dagli Charmat secchi (+19%), dallo Champagne (+16%) e dagli Charmat dolci (+12%). Sul fronte dei vini fermi e frizzanti, le vendite nel medesimo format risultano in calo a valore per i frizzanti (-4,3%) mentre aumentano nel caso dei fermi (+1,8%).

In merito agli altri format, si segnala una diminuzione delle vendite sia a valori che a volumi per il Discount (rispettivamente -2% e -4%), mentre al contrario il Cash&Carry mette a segno una crescita di quasi il 20% nelle vendite a valori a fronte di un +15% nei volumi, a dimostrazione della ripresa dei consumi avvenuta – seppur a singhiozzo -in bar e ristoranti nel 2021.

Infine, l’e-commerce. Dopo l’esplosione delle vendite avvenute nel 2020 anche a seguito dei lockdown e delle limitazioni e chiusure nell’Horeca, il 2021 si è chiuso con un’ulteriore progressione degli acquisti di vino da parte degli italiani nei siti generalisti (catene retail e Amazon): +22% a valore e +19% a volume rispetto all’anno precedente. Occorre tuttavia segnalare come l’ultimo trimestre 2021 ha visto ridursi le vendite in e-commerce – rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente- del 13% a volume, anche se questa riduzione è soprattutto legata al “boom” di acquisti on-line che si era manifestato nel 2020 a causa delle chiusure dei ristoranti e della conseguente “costrizione” imposta agli italiani di festeggiare Natale e Capodanno tra le mura domestiche.

Dazi USA: i prodotti europei più colpiti. La stima di Nomisma

Dopo il pronunciamento da parte del WTO, le economie eropee hanno lanciato il loro allarme: il verdetto dell’organizzazione mondiale per il commercio, infatti, autorizza gli USA ad applicare dazi sulle importazioni EU, pari a circa 7,5 miliardi.

Ma in che misura sono coinvolti i paesi europei?

Per rispondere alla domanda, Nomisma Agroalimentare attraverso la ricostruzione dei valori di import al 2018 di tutti i singoli prodotti agroalimentari elencati (113) nella lista emanata dall’amministrazione americana (USTR) suddivisi tra Paesi interessati, ha individuato per i principali paesi Ue i settori che potrebbero essere maggiormente colpiti da questa nuova imposizione tariffaria.

Naturalmente fino al 18 ottobre, c’è sempre la speranza che la diplomazia intervenga prima che i dazi vengano confermati.

Partiamo dall’Italia: su un totale di import agroalimentare negli USA di origine italiana che nel 2018 è stato di 5,48 miliardi di dollari, l’ammontare che viene interessato dai nuovi dazi è di circa 482 milioni di dollari, vale a dire il 9%.

Il problema è che la gran parte di tale montante (quasi il 50%) riguarda i formaggi – in particolare Dop, come Parmigiano Reggiano, Grana Padano e Pecorino Romano. Vino, olio d’oliva e pasta non sono stati inseriti nella “black list” mentre il secondo prodotto più colpito sono i liquori, per i quali il dazio del 25% andrebbe ad interessare un valore di quasi 167 milioni di dollari.

I dazi Usa sui nostri formaggi Dop potrebbero avere impatti molto significativi su tutta la filiera lattiero-casearia collegata, alla luce dei forti legami che queste produzioni certificate hanno con il sistema degli allevamenti, sia a livello nazionale che territoriale: basti pensare al Pecorino Romano, prodotto per oltre il 90% in Sardegna che sostanzialmente dipende dal mercato degli Stati Uniti dove esporta oltre il 60% della propria produzione o al Grana Padano e al Parmigiano Reggiano che congiuntamente valorizzano il 40% di tutto il latte vaccino prodotto in Italia” evidenzia Denis Pantini, Direttore dell’Area Agroalimentare di Nomisma.

Nel caso della Francia, il dazio andrebbe a colpire principalmente il settore dei vini fermi su un valore di 1,3 miliardi di dollari (vale a dire il 20% dell’import agroalimentare di origine francese). In questo caso, Trump ha risparmiato sia lo Champagne che i formaggi transalpini mentre ha “bastonato”, al di fuori dell’agroalimentare, le esportazioni dei grandi aerei commerciali (10% di dazio su 3,5 miliardi di dollari di import), “casus belli” della disputa in corso tra le due sponde dell’Atlantico.

Per la Spagna, il valore dei propri prodotti inseriti nella lista incide per ben il 35% sul totale delle importazioni agroalimentari spagnole negli USA, con olio d’oliva e vino più penalizzati.

In merito al Regno Unito, la quasi totalità dei propri prodotti esportati negli Usa soggetti a nuovi dazi attiene agli spirits e, in particolare al whisky anche se nella lista viene specificato che l’import di questo prodotto sarà “tassato” solo in quota parte e non su tutto l’ammontare. Va comunque segnalato che, nel 2018, l’import americano di Scotch Whisky è stato di ben 1,6 miliardi di dollari che, unito agli altri prodotti di origine britannica inseriti nella lista, conducono ad una potenziale incidenza delle esportazioni soggette a nuovi dazi di oltre il 60% sul totale degli scambi agroalimentari.

Notizie più consolanti, infine, per la Germaniaper cui il valore dell’import soggetto a dazio è il più basso dei cinque top exporter considerati: v24 milioni di dollari, cioè il 19% del totale degli scambi agroalimentari verso gli Usa. Anche in questo caso, gli spirits rappresentano i prodotti più colpiti.

 

 

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