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Tassi bassi e volatilità, si ritorna al mattone

È stata presentata oggi a Torino l’Indagine sul risparmio e sulle scelte finanziarie degli italiani 2016: ‘Tassi bassi e volatilità, si ritorna al mattone’, un progetto del Centro Einaudi e di Intesa Sanpaolo, basato su interviste effettuate da Doxa fra gennaio e febbraio 2016 a 1.011 famiglie detentrici di conto corrente bancario e/o postale; all’interno della famiglia è stato intervistato il principale decisore in merito a risparmio e investimento, ossia la persona più informata e interessata circa gli argomenti trattati nel questionario (nel 77 per cento dei casi, il capofamiglia). Il campione selezionato è rappresentativo per classi d’età, professioni, titoli di studio e zone geografiche. L’Indagine, che permette confronti temporali dal 1983 a oggi, affronta ogni anno un tema monografico: nel 2016 l’attenzione si è concentrata sulle scelte di investimento in condizione di tassi di interesse bassi o nulli. È stato realizzato un campionamento addizionale di 312 interviste su un target di piccoli investitori fra i 29 e 55 anni, poi elaborato mettendo insieme gli intervistati del sovracampionamento con quelli del campione ‘famiglie’ appartenenti a questo stesso target (255), per un totale di 567 capifamiglia, che sono stati sondati sulla reazione al contesto di ‘interessi zero’ e sull’appetibilità dell’investimento immobiliare.
I risultati sono stati analizzati e discussi da Salvatore Carrubba, Presidente del Centro Einaudi, Gregorio De Felice, Chief Economist di Intesa Sanpaolo e dall’economista Giuseppe Russo, curatore del Rapporto. Le conclusioni sono state affidate a Gian Maria Gros-Pietro, presidente di Intesa Sanpaolo.

Di seguito la sintesi della ricerca:

Famiglie: ripresa lenta, ma aspettative in miglioramento. La crisi appare ormai alle spalle, ma presso le famiglie è diffusa la percezione che la perdita di reddito disponibile non sia stata completamente recuperata: per conseguenza, le spese nel 2015-2016 hanno continuato a essere improntate alla sobrietà. È però importante sottolineare che se la quota delle famiglie del campione che dichiarano un reddito insufficiente si è stabilizzata nel 2016 intorno al 17 per cento senza ridursi, è invece sulle aspettative che si registra il vero miglioramento. Fino al 2015, il 50 per cento degli intervistati giudicava probabile un peggioramento imminente delle proprie condizioni economiche. Nel 2016 le proporzioni sono opposte: il 60 per cento giudica infatti imminente un miglioramento. Non solo: sempre nel 2016 una quota tra il 20 e il 22 per cento del campione pensa non solo di mantenere, ma di aumentare le spese per i figli e di espandere quelle per la salute e per l’acquisto dei beni durevoli, rinviato negli anni passati.

L’evoluzione demografica dell’ultimo decennio stabilizza il risparmio ai livelli del 2012. La crisi economica ha accelerato l’impatto dell’invecchiamento della popolazione sulla distribuzione del campione per condizione lavorativa: in otto anni, la quota dei pensionati sul campione è aumentata di oltre 10 punti percentuali, con una paritetica riduzione sia dei lavoratori indipendenti che dei dipendenti. Tenendo conto della riduzione, con l’avanzare dell’età, della capacità di risparmiare, il cambiamento demografico impatta negativamente sul risparmio. Quando la crisi iniziò, la numerosa generazione dei baby boomer era in attività, oltre che al culmine di carriere che avevano visto crescere costantemente il reddito. Dopo sette anni, la stessa generazione ha cominciato a lasciare il lavoro, qualche volta con pensioni inferiori alle aspettative; in qualche caso ha perduto l’occupazione senza trovarne un’altra equivalente. Le generazioni di rincalzo, ossia le coorti che avrebbero dovuto entrare nel mondo del lavoro, hanno avuto meno occasioni. Pertanto, nel 2016 si è stabilizzata l’incidenza dei risparmiatori (40 per cento) sul campione, mentre si è lievemente ridotta la quota di reddito risparmiata (9,6 per cento): entrambe le percentuali confermano, nella media campionaria, i livelli sui quali giacevano dal 2012. Lo ‘smottamento economico’ della classe media (ossia della parte centrale della distribuzione del reddito, del risparmio e della ricchezza) che era stato messo in luce nell’Indagine 2015, è un fenomeno strutturale che influenza la parte centrale di tutte le distribuzioni, e quindi incide sia sulla velocità media di ripresa, sia sulla quota media di risparmiatori, sia sul reddito destinato al risparmio, benché in condizioni congiunturali migliorate.

Si risparmia per far fronte alle incertezze. Il risparmio per i figli supera sempre quello per la casa. Le aspettative pensionistiche continuano a ridimensionarsi, ma si risparmia troppo poco per la vecchiaia. La mite ripresa, unita alla volatilità dei mercati finanziari e alla esiguità dei rendimenti, sono alla base della crescente motivazione ‘precauzionale’ del risparmio (58,3 per cento, in aumento di 10 punti). Aumenta un po’ (da 8 a 8,5 per cento) il risparmio per la casa, ma si conferma il superamento del risparmio fatto per i figli (17,1 per cento) rispetto a quello accantonato per il mattone. Il rapporto tra le due motivazioni era invertito prima della crisi, quando il risparmio per la casa precedeva quello per i figli.

Il risparmio previdenziale è ancora insufficiente. È ancora piuttosto bassa, in relazione ai bisogni potenziali, l‘intenzione di risparmiare per la vecchiaia (14,1 per cento). Ciò accade nonostante sia diffusa una corretta percezione della riduzione delle prestazioni pensionistiche future rispetto a quelle godute dalle generazioni precedenti: il saldo tra l’attesa di un reddito sufficiente o insufficiente al momento di andare in pensione scende infatti dal 13 al 6,7 per cento (era pari al 29,8 per cento prima della crisi). Solo l’11 per cento del campione dichiara di avere sottoscritto qualche forma di previdenza integrativa, relativa al II o al III pilastro previdenziale. La percentuale è in particolare piuttosto bassa tra coloro che si trovano all’inizio della carriera contributiva.

La difesa del capitale è sempre la priorità. Nonostante si sia ridotta la preoccupazione di perdere il capitale – segnalata indirettamente dal fatto che la quota di intervistati non interessati all’economia (53,5 per cento) sorpassi nuovamente quella degli interessati (46,5 per cento) – quando investono i capifamiglia riferiscono come priorità assoluta delle scelte la ‘sicurezza’ di non perdere il capitale (58,3 per cento nel 2016, 52 per cento nel 2015 e appena il 23,8 per cento nel 2011). Solo a seguire vengono il rendimento (15 per cento), la liquidità (14 per cento), nonché l’apprezzamento del capitale nel lungo termine (7 per cento).

Il risparmio gestito si fa avanti, sottraendo spazi agli investimenti diretti, sui quali è sempre più complicato assumere decisioni. Il tradizionale investimento con il quale gli italiani hanno difeso i risparmi, traendo peraltro buoni rendimenti, è il titolo obbligazionario, con i titoli di Stato in cima alle preferenze. Tuttavia, da metà del 2015 le condizioni sono cambiate. Con l’obiettivo di contrastare la deflazione, la BCE acquista obbligazioni con operazioni di mercato: ne deriva che questi titoli aumentano di prezzo, mentre scende il loro rendimento. Tale manovra è favorevole ai possessori di obbligazioni comprate in precedenza, ma ha ridotto a circa l’1 per cento o meno ancora il rendimento medio dei rinnovi e dei nuovi acquisti di titoli di Stato. È comprensibile, pertanto, la riduzione del possesso di questi strumenti, che passa dal 21,7 per cento del campione nel 2012 al 14 per cento nella rilevazione dei primi mesi del 2016. A fronte della riduzione dei possessori di obbligazioni, l’Indagine del 2016 segnala un aumento delle preferenze per gli strumenti del risparmio gestito. Nel corso del 2015 i patrimoni complessivamente gestiti passano da 1,59 miliardi di euro a 1,83 miliardi (Assogestioni). Il 24 per cento degli intervistati dichiara di seguire questa opzione per ‘poter affidare i propri risparmi a esperti e non pensarci più, semplificandosi la vita’; per il 21,9 per cento degli investitori, con il risparmio gestito si possono avere rendimenti migliori rispetto al ‘fai da te’. Si riduce nel tempo il fenomeno del via-vai dagli investimenti gestiti, che diventano veri compagni di viaggio di lungo termine. L’incrocio tra la priorità della sicurezza e l’estrema volatilità dei mercati azionari, che in ultima analisi non crescono più e sono privi di una direzione dalla fine del 2014, ha accentuato la disaffezione verso il mercato azionario da parte del campione. Solo il 5,3 per cento dichiara di aver comprato e/o venduto azioni negli ultimi cinque anni, una quota che è in declino costante dal 2003, quando era del 31,9 per cento.

I tassi a zero guidano la preferenza per la liquidità, ma la loro persistenza potrebbe preludere a cambiamenti delle preferenze degli investimenti, sacrificando la liquidità ma non la sicurezza. Poiché i rendimenti delle attività meno liquide sono quasi a zero, la quota di patrimonio detenuto in forma liquida sul conto corrente bancario è alta. Quasi un intervistato su 5 del campione generale (18,4%) mantiene liquide tutte le proprie disponibilità, il 9,1% più della metà e un altro 9% oltre il 30%.
La persistenza dei tassi a zero potrebbe tuttavia preludere proprio al sacrificio della liquidità nella ricerca di investimenti alternativi, come quelli immobiliari.

Tassi bassi e volatilità, si ritorna al mattone.

Un extra sondaggio di 567 piccoli investitori sugli impieghi del denaro quando i tassi sono a zero. Innanzitutto, le condizioni di tassi di interesse nulli appaiono singolari per i piccoli risparmiatori, perché si verificano per la prima volta dal 1959: non c’è quindi memoria né esperienza di questo tipo di mercato. In secondo luogo, la guidance della BCE prevede che il contenimento dei rendimenti durerà fino a quando sarà necessario contrastare la deflazione. In terzo luogo, i tassi a zero e minimi riguardano sia i rendimenti degli attivi finanziari (come obbligazioni e depositi), sia il costo del capitale dei passivi finanziari (come gli interessi sui mutui e sui prestiti in generale). A partire da queste considerazioni, nel 2016 l’Indagine è stata arricchita da un supplemento di campionamento su 567 risparmiatori fra i 29 e i 55 anni che detenessero anche qualche forma di investimento. Attraverso la Doxa, è stato sottoposto loro un diverso questionario, volto a sondare i comportamenti di investimento nella persistenza del clima di deflazione e di interessi nulli o minimali, con particolare riguardo alla propensione al passaggio dagli investimenti finanziari a quelli reali, come le case.

Con i tassi zero, case e depositi liquidi polarizzano gli investimenti. Il campione ha fornito indicazioni chiare. Posti di fronte al caso degli interessi a zero (o quasi) per più anni, gli intervistati hanno risposto con intenzioni di comportamento polarizzate, in quanto concentrate essenzialmente su due scelte: la scelta della liquidità (che riguarderebbe il 32 per cento degli investitori) e la scelta dell’investimento immobiliare (il 29 per cento considererebbe l’acquisto di una casa per sé e il 20 per cento l’acquisto di una casa da dare in affitto). I primi sarebbero mossi dall’intenzione di non perdere né guadagnare denaro con investimenti più rischiosi e dall’aspettativa che i tassi a zero prima o poi finiranno, e quello sarebbe il momento giusto per riprendere a investire. I secondi, invece, manifesterebbero la propria preferenza per un potenziale acquisto immobiliare, mossi però non solo da variabili economiche, ma anche da bisogni rimasti irrisolti o semplicemente dall’ambizione, sempre viva negli italiani, di una casa migliore di quella che si possiede. A differenziare i due gruppi di investitori, ai poli opposti delle possibili scelte (totale liquidità e totale illiquidità), sono prevalentemente l’aspetto del reddito e il possesso di risparmi accantonati superiori a un anno intero di redditi netti. Questi ultimi sono fattori che aumentano la propensione all’investimento reale.

Le scelte più rischiose e alternative sono marginali. Solo una parte ridotta del campione di piccoli investitori, l’8 per cento, reagirebbe ai tassi a zero aumentando l’esposizione rischiosa, ossia comprando azioni, cambi e derivati. Si tratta di un atteggiamento coerente con la teoria economica: infatti, il cambiamento delle combinazioni di rischio e rendimento possibili sul mercato e, in particolare, l’abbassamento dei rendimenti su tutto lo spettro dei rischi non cambia la disponibilità a perdere parte del denaro investito, poiché questa variabile non dipende dal mercato, bensì dal reddito, dal patrimonio e dalla psicologia del singolo investitore. Cambiare ‘habitat’ di rischio solo perché cambiano le condizioni di mercato può facilmente rivelarsi una mossa scorretta, ex post. Infine, il 12 per cento acquisterebbe oro e preziosi e il 4 per cento comprerebbe opere d’arte. La ricerca di rendimenti alternativi in queste classi di investimento è minimale e mossa da contesti economici e comportamentali diversi. Chi si rivolge all’oro evidenzia un fondo, anche se non ben espresso, di paura e sfiducia generale nei mercati finanziari (‘dopo gli interessi a zero, chissà cosa potrà accadere?’). Tra l’altro, questo mood tende a riaffiorare in tutte le classi di risparmiatori, perché alcuni indizi rivelano che, mentre le persone percepiscono il calo dei prezzi (a eccezione dei servizi sanitari e di poche altre cose, come le bollette domestiche), è altresì diffusa la sensazione che i prezzi, quando salgono, lo facciano più di quanto viene misurato dalle statistiche ufficiali. Chi si rivolge all’arte (4 per cento) ha in genere un patrimonio complesso e ben diversificato e coglie l’occasione dei rendimenti a zero per acquistare un’opera d’arte essenzialmente perché il costo opportunità si è momentaneamente ridotto.

Le case: il mercato che gli italiani conoscono meglio. I piccoli investitori si rivolgono alle case anche perché questo è il mercato dei beni di investimento che essi direttamente conoscono meglio, e al quale probabilmente sono più interessati. L’informazione è pur sempre un elemento che mitiga il rischio degli investimenti, visto che rende più consapevoli le scelte in proposito. Ben il 46 per cento degli intervistati dichiara di conoscere il mercato delle case e di informarsi regolarmente sui suoi prezzi. Dietro al mercato immobiliare si collocano, distanziati, il mercato obbligazionario (che è seguito dal 33 per cento del campione), poi la Borsa (24 per cento) e il mercato dell’oro (19 per cento).

La ricerca delle case corrisponde anche a una ricerca di rendimenti. Tornando alla propensione all’acquisto di immobili, chi vi si vorrebbe avvicinare (e non ha ancora deciso) ha un profilo chiaro. In generale, ha da parte investimenti liquidi o liquidabili pari a più di un anno del suo reddito (48 per cento). Ha realizzato, inoltre, che il mercato dei beni d’uso quotidiano è deflattivo, concorrendo a schiacciare i rendimenti di lungo termine del risparmio investito in forme finanziarie. Ciò però non è compatibile con l’aspirazione a ottenere dai propri investimenti, in media, un profitto medio annuo del 2,6 per cento nei prossimi cinque anni. Ecco dunque che tra le motivazioni per cui ‘acquistare un immobile potrebbe essere vantaggioso’ primeggiano considerazioni economiche, ossia la convinzione di investire in un ‘bene di riferimento’, che conserva il suo valore nel tempo (25 per cento), seguito dalla possibilità di ‘approfittare del momento di prezzi bassi’ (17 per cento) e dal fatto che il reddito dell’immobile, ossia l’affitto incassato o risparmiato, è superiore a quanto può offrire la banca o un’obbligazione (13 per cento). Il 19 per cento, inoltre, pensa che i prezzi delle case aumenteranno nei prossimi anni e il 14 per cento mira, così facendo, ad approfittare di buone e singolari condizioni sui mutui.

Gli acquirenti potenziali di una nuova casa sono tra l’11 e il 19 per cento del campione.
Le variabili economiche non esauriscono le ragioni per investire in un immobile. Chi ne sta considerando l’acquisto ha spesso l’ambizione di una casa migliore (43 per cento) o il bisogno effettivo di un’abitazione più grande (29 per cento). Gli acquirenti potenziali nei prossimi tre anni (che sono compresi tra l’11 e il 19 per cento del campione) userebbero prevalentemente la nuova casa per sé, considerandola come un bene da godere e magari da tramandare ai figli. Una quota fino all’8 per cento del campione potrebbe cambiare casa e prenderla in affitto, anche se i giudizi positivi sugli affitti sono un terzo del totale, dunque inferiori ai giudizi negativi. Cosa trattiene gli acquirenti? Per il momento gioca da freno la debolezza convalescente del mercato secondario, ossia il timore o di non riuscire a liquidare l’attuale propria casa o di ricavarne un prezzo insufficiente per fare il salto di qualità. In altri termini, mano a mano che il mercato immobiliare sarà più liquido e si accorceranno i tempi di vendita delle case usate, la domanda potenziale di nuove case si trasformerà in domanda effettiva.

Una seconda casa in vista per il 9 per cento del sovracampionamento. La ripresa in corso del mercato delle abitazioni è reale, ma si sviluppa a ritmo ridotto. Anche per le seconde case il clima starebbe cambiando. Le intenzioni di acquisto nei prossimi tre anni riguardano il 9 per cento degli investitori, consapevoli che la seconda casa non è però quasi mai un buon investimento. Prova ne sia che il 74 per cento di essi ha un’opinione positiva del possesso della seconda casa, ma solo il 22 per cento, ossia meno di uno su tre, la considera vantaggiosa in termini economici.

Investire in case da dare in affitto conviene, ma non troppo. Le case, che la deflazione fa tornare al centro dell’ambizione di una quota significativa di piccoli investitori, sono non solo quelle da abitare, ma anche quelle da dare in affitto. Con la discesa a zero degli interessi, il reddito degli affitti torna competitivo. La quota di investitori propensi a comprare una casa da locare (20 per cento) è inferiore a quella degli investitori propensi a comprare una casa da abitare (29 per cento), ma rappresenta pur sempre un quinto del campione, ossia una quota maggiore di quella degli attuali possessori di obbligazioni. Gli ostacoli alla messa in pratica di quest’ultima idea non mancano e riguardano quasi sempre la selezione degli inquilini, che è ovviamente un’incognita. Secondariamente, vi è la questione fiscale. Le case da locare sono per definizione ‘seconde case’ e ne seguono in larga parte i destini fiscali, dall’imposta di registro piena, all’IMU, alla non deducibilità delle spese di ristrutturazione.

Il ‘fisco sotto l’albero’: il 41 per cento dei piccoli investitori è congelato dalle condizioni fiscali.
Il 59 per cento del campione, se potesse chiedere qualcosa al fisco, propenderebbe per un riequilibrio delle imposte tra quelle sulla casa e quelle gravanti sulle altre forme di patrimonio. Questa propensione, maggioritaria, non è però necessariamente collegata a imminenti operazioni immobiliari e risponde più a una domanda di equità fiscale rispetto alla tassazione del patrimonio. V’è da ricordare che il Governo è già venuto incontro a queste istanze alleggerendo la tassazione per quanto riguarda la prima casa. Sono però da osservare e sottolineare le istanze del restante 41 per cento del campione. Queste istanze, infatti, preluderebbero a operazioni immobiliari e danno un’idea della domanda potenziale ‘congelata’ nel settore delle abitazioni. Il 14 per cento del campione vorrebbe trovare sotto l’albero un abbassamento dell’imposta di registro per case da dare in affitto; il 13 per cento vorrebbe un credito di imposta per vendere e riacquistare una casa, prima o seconda, nel corso dello stesso anno; il 9 per cento vorrebbe dedurre il mutuo sulla seconda casa da dare in affitto; il 6 per cento vorrebbe dedurre il mutuo su una seconda casa da tenere per sé. La propensione all’acquisto di case potrebbe essere decisamente più alta di quella dichiarata (tra l’11 e il 19 per cento), se si alleggerisse il peso fiscale sull’investimento immobiliare”.

(Fonte: www.group.intesasanpaolo.com, “Presentata oggi a Torino da IntesaSanpaolo e dal Centro studi Einaudi l’indagine sul risparmio e sulle scelte finanziarie degli italiani 2016”, 21 luglio 2016).

Mutui spinti dai tassi ai minimi

“I bassissimi livelli dei tassi di interesse rappresentano oggi un forte incentivo per la domanda di credito e spingono il mercato dei mutui che, grazie anche alle migliori prospettive del mercato immobiliare, conferma i segnali di ripresa, con incremento su base annua del totale dei mutui dell’1,5%. A maggio 2016, i tassi di interesse sui prestiti per acquisto di abitazione si sono in Italia ulteriormente ridotti. Il tasso medio sulle nuove operazioni, che sintetizza l’andamento dei tassi fissi e variabili ed è influenzato anche dalla variazione della composizione fra le erogazioni in base alla tipologia di mutuo, è risultato pari al 2,25% toccando il nuovo minimo storico (2,29% il mese precedente; 5,72% a fine 2007). Il livello storicamente basso dei tassi sta spingendo le famiglie a cogliere le opportunità presenti sul mercato e spostarsi verso il tasso fisso: a maggio 2016, la percentuale di nuovi mutui erogati a tasso fisso ha raggiunto infatti un livello pari al 61%. Due anni fa invece, erano i mutui a tasso variabile che predominavano (con una quota sul totale del 79%). Inoltre, secondo i dati più recenti del ‘Sondaggio congiunturale sul mercato delle abitazioni in Italia’ relativo al primo trimestre 2016, un’indagine condotta congiuntamente dalla Banca d’Italia, dall’Agenzia delle Entrate e da Tecnoborsa, la quota di acquisti finanziati con mutuo ipotecario è salita, nel primo trimestre del 2016, al 73,8% dal 68,5 dell’ultimo trimestre del 2015 (minimo storico di 55,0 nel secondo trimestre del 2013) Infine, il rapporto tra prestito e valore dell’immobile (Loan to Value) che dal 64,7 del quarto trimestre del 2015 è salito al 69,3% (minimo storico di 55,8 nel secondo trimestre del 2013)”.

(Fonte: www.abi.it, “Casa: tassi minimi spingono domanda mutui a tasso fisso”, 16 luglio 2016).

Per un inquadramento generale dello stato dell’arte in materia di credito rimandiamo al “Rapporto mensile ABI  – Luglio 2016 (principali evidenze)”, disponibile on line (www.abi.it/DOC_Info/Comunicati-stampa/Rapporto_mensile_luglio_2016.pdf).

Produzione nelle costruzioni in calo

“A maggio 2016, dopo il significativo aumento congiunturale registrato il mese precedente, l’indice destagionalizzato della produzione nelle costruzioni mostra una diminuzione del 3,6% rispetto ad aprile, mentre gli indici di costo del settore segnano un aumento dello 0,1% per il fabbricato residenziale, dello 0,5% per il tronco stradale con tratto in galleria e dello 0,6% per il tronco stradale senza tratto in galleria.

Nella media del trimestre marzo-maggio 2016 l’indice destagionalizzato della produzione nelle costruzioni è diminuito dello 0,9% rispetto ai tre mesi precedenti, confermando un quadro evolutivo settoriale ancora fragile e caratterizzato da una notevole variabilità.

Su base annua, a maggio 2016 l’indice della produzione nelle costruzioni corretto per gli effetti di calendario diminuisce del 2,6% (i giorni lavorativi sono stati 22 contro i 20 di maggio 2015). Sempre su base annua, l’indice grezzo della produzione nelle costruzioni aumenta del 4,4%.

L’indice del costo di costruzione di un fabbricato residenziale cresce su base annua dello 0,7%, mentre diminuiscono, rispettivamente dello 0,6% e dello 0,8%, gli indici del costo di costruzione di un tronco stradale con tratto in galleria e quello senza tratto in galleria.

A maggio 2016, alla variazione tendenziale dell’indice di costo del fabbricato residenziale contribuiscono l’aumento del gruppo di costo Manodopera (+0,9 punti percentuali) e la diminuzione di quello Materiali (-0,2 punti percentuali).

Il contributo maggiore alla diminuzione tendenziale degli indici dei costi di costruzione dei tronchi stradali deriva, sia per quello con tratto in galleria sia per quello senza galleria, dal calo dei costi dei materiali (rispettivamente -1,0 e -1,2 punti percentuali)”.

(Fonte: www.istat.it, “Produzione nelle costruzioni e costi di costruzione”, 19 luglio 2016).

JLL Italia supporta Wagamama

“A fine 2015 il Team Retail Agency di JLL Italia ha ricevuto da Wagamama, storico marchio inglese di ristorazione in stile giapponese-fusion, un incarico in esclusiva per la ricerca e selezione di un partner per l’ingresso nel mercato italiano.

L’accordo di partnership è stato appena siglato con Percassi Food&Beverage, la holding del Gruppo Percassi attiva nel mondo della ristorazione. Il primo ristorante verrà aperto a Milano e, a seguire, altri locali saranno aperti in tutta Italia. Attualmente Wagamama possiede oltre 150 ristoranti che offrono una cucina fresca e di qualità in 17 paesi diversi.

Brian Johnston, Managing Director di Wagamama International, ha dichiarato: ‘L’Italia è stata selezionata in quanto ritenuta mercato molto importante per il nostro brand e siamo lieti di lavorare insieme al Gruppo Percassi su questo stimolante progetto. La collaborazione tra Wagamama e il team di JLL Italia è stata estremamente positiva durante tutta la durata del processo’.

Monica Cannalire, Head of Retail Agency di JLL Italia, ha commentato: ‘Siamo onorati di aver supportato Wagamama in questo progetto in Italia, un mercato vivace per il retail dedicato alla ristorazione; i nostri consumatori sono pronti – ora più che mai – ad accogliere un brand iconico della cucina fusion come Wagamama e crediamo che questa forte partnership contribuirà a farne un successo ancora maggiore’”.

(Fonte: JLL)

Indicatori dei permessi di costruire

“Nel secondo semestre del 2015 gli indicatori dei permessi di costruire mostrano tendenze diverse tra le due principali componenti: l’edilizia residenziale presenta una contrazione rispetto allo stesso periodo del 2014 (-14,5% le abitazioni e -12,3% la superficie utile abitabile); al contrario, l’edilizia non residenziale registra invece un rilevante aumento del 21,7%.

Il numero di abitazioni dei nuovi fabbricati residenziali risulta in calo nel terzo trimestre 2015, con una variazione tendenziale del -10,4%. Tale contrazione aumenta nel quarto trimestre attestandosi a -18,3%. Stessa dinamica segue anche la superficie utile nel confronto con gli analoghi trimestri del 2014: -8,2% nel terzo trimestre 2015 e -16,2% nel quarto.

Proseguendo la tendenza positiva iniziata nel secondo trimestre 2015, anche nel terzo e quarto trimestre l’edilizia non residenziale continua a crescere con variazioni tendenziali a due cifre: +20,5% nel terzo trimestre e +22,8% nel quarto”.

(Fonte: www.istat.it, “Indicatori dei permessi di costruire”, 15 luglio 2016).

La bolla immobiliare inglese

“La bolla immobiliare inglese sta scoppiando. A Londra i primi effetti si stanno già facendo sentire ed è molto probabile che nelle prossime settimane e nei prossimi mesi il prezzo degli immobili, commerciali e residenziali, subirà un tracollo, che può essere anche nell’ordine del 20 per cento, stando alle stime prudenziali di diversi analisti. Un problema solo inglese? Non proprio, perché con la grande interconnessione finanziaria che c’è fra le banche britanniche e quelle del resto del mondo il virus è destinato a propagarsi anche nel Vecchio Continente. E di conseguenza anche in Italia, dove già adesso le banche sono in grande sofferenza, strette fra il bisogno di nuovi capitali e l’esigenza di liberarsi del fardello dei crediti di difficile recupero. Insomma, potenzialmente ci sono tutti gli ingredienti per un’estate caldissima per gli istituti di credito italiani. Motivo per cui la trattativa fra Bruxelles e Roma per sbloccare un intervento statale a tutela delle nostre banche diventa sempre più urgente.

Ma cosa sta succedendo a Londra? E quali sono i primi segnali dello scoppio della bolla? Ad oggi sei importanti fondi immobiliari che operano in Inghilterra hanno annunciato il blocco dei rimborsi agli investitori che hanno chiesto il riscatto delle proprie quote. Fra questi sei ci sono i quattro pilastri del mercato immobiliare: M&G, Henderson, Standard Life e Aviva. Come funzionano e cosa fanno questi fondi? Essenzialmente raccolgono sul mercato – tramite strumenti finanziari elaborati, sia di capitale che di debito – fondi per comprare i grossi centri commerciali e i palazzi pieni di uffici di cui è stracolma la City.

Gestendo queste enormi proprietà, remunerano gli investitori, poggiando la propria solidità sul valore degli immobili stessi. Ora, dopo la Brexit, tanti investitori, sia istituzionali che singoli risparmiatori, stanno chiedendo di rientrare sulla base della comprensibile paura che tutta una serie di aziende e società con base a Londra possano abbandonare gli uffici. I fondi però non si trovano nella situazione di poter affrontare queste richieste: in altre parole hanno problemi di liquidità. E lo avranno per parecchi mesi se non anni, visto che per soddisfare queste richieste devono mettere sul mercato gli immobili di proprietà. Ovviamente la messa sul mercato di un grosso stock di case e uffici farà scendere, e di molto, i prezzi, facendo così scoppiare la bolla, cresciuta negli ultimi anni a dismisura grazie agli investimenti immobiliari a Londra fatti da russi, arabi e magnati asiatici.

Il grande rischio però non sta tanto nello scoppio della bolla in sé, ma nel modo in cui si può propagare al settore finanziario e di conseguenza sui mutui e i prestiti concessi a famiglie e imprese, inglesi e non. Intanto bisogna considerare che ben 4 dei fondi immobiliari in difficoltà fanno capo a compagnie assicurative di prim’ordine nel regno Unito: Prudential, Aviva, Standard Life e Canada life. Gli amministratori delegati iniziano ad avere paura di una fuga degli investitori, tanto che già si stanno attrezzando per tenerseli stretti. Un solo esempio: Mark Wilson, Ceo di Aviva, ha promesso ai propri azionisti di portare l’utile per azione al 50 per cento. Ma non è solo il settore assicurativo ad essere sotto pressione.

Stando alle opinioni raccolte fra gli operatori di mercato che lavorano sulla piazza londinese, c’è inevitabilmente una correlazione fra i fondi immobiliari e le banche. Istituti come Barclays, Deutsche Bank e la stessa Unicredit hanno un’esposizione nei confronti dei property funds. Quindi una forte svalutazione di quest’ultimi può portare a una contestuale perdita di valore per gli attivi delle banche. Senza considerare che se cade il mercato immobiliare, cade anche il valore delle garanzie che le famiglie di solito danno per l’accensione di mutui. In altri termini, si può instaurare un circolo vizioso micidiale sia per le banche che per i clienti. Il più classici degli effetti domino, un po’ sullo stile di quello che è successo con la crisi dei mutui subprime del terribile biennio 2007-2008.

Quanto lo scoppio della bolla immobiliare inglese sia pericoloso per l’Europa, e in ultima analisi per l’Italia, è la domanda che si stanno facendo in queste ore nelle sedi operative delle banche d’affari londinesi. Molto dipenderà da quanto sarà grande il crollo dei prezzi delle case e da quanto saranno nei fatti esposte le banche europee. Da una parte, c’è l’ottimismo dovuto al fatto che rispetto alla crisi americana di nove anni fa ci sono in giro pochissimi strumenti tossici come le famose Cdo e Abs, che fecero da propagatori esponenziali dello scoppio della bolla. Dall’altra parte però c’è il fatto che un’eventuale ulteriore perdita di valore degli attivi delle banche europee si andrebbe pericolosamente ad aggiungere alle difficoltà che già adesso mettono sotto pressione i bilanci degli istituti, come la questione derivati per Deutsche Bank o la questione crediti inesigibili per Mps. Insomma, sembra abbastanza inevitabile che un’onda si abbatterà presto sulle banche europee, e italiane. Se sarà un flutto sopportabile o uno tsunami, è tutto da vedere”.

(Fonte: www.huffingtonpost.it, Gianni Del Vecchio, Editor in Chief, Huffington Post Italy, “Scoppia la bolla immobiliare a Londra, l’effetto si sentirà a Roma”, 7 luglio 2016).

Spesa media mensile familiare

“Nel 2015, la spesa media mensile familiare in valori correnti è pari a 2.499,37 euro (+0,4% rispetto al 2014, +1,1% nei confronti del 2013), mostrando timidi segnali di ripresa in un quadro macroeconomico caratterizzato dal lieve aumento, per il terzo anno consecutivo, del reddito disponibile delle famiglie, dalla stabilità della loro propensione al risparmio e dal primo anno di ripresa del Pil dopo tre di recessione.

Un quadro analogo si registra anche in termini reali se si considera che l’inflazione è stata prossima allo zero sia nel 2014 sia nel 2015 (rispettivamente +0,2% e +0,1%).

Al netto del costo (stimato mediante i cosiddetti affitti figurativi) che le famiglie dovrebbero sostenere per prendere in affitto un’unità abitativa con caratteristiche identiche a quella in cui vivono e di cui sono proprietarie, usufruttuarie o che hanno in uso gratuito, la spesa media familiare è pari, nel 2015, a 1.910,34 euro, in aumento dello 0,7% rispetto al 2014 e dell’1,9% rispetto al 2013.

Il livello medio della spesa alimentare è pari a 441,50 euro al mese (436,06 euro nel 2014, +1,2%). Si arresta la diminuzione della spesa per carni, in atto fin dal 2011, attestandosi a 98,25 euro mensili. La spesa per frutta aumenta del 4,5% rispetto al 2014 (da 38,71 a 40,45 euro mensili), quella per acque minerali, bevande analcoliche, succhi di frutta e verdura del 4,2% (da 19,66 a 20,48 euro).

È sostanzialmente stabile la spesa per beni e servizi non alimentari (2.057,87 euro in media al mese). Per il terzo anno consecutivo si riducono le spese per comunicazioni (-4,2%), anche per l’ulteriore diminuzione dei prezzi. Aumentano le spese per servizi ricettivi e di ristorazione (+11%, da 110,26 a 122,39 euro, dopo due anni di calo), e le spese per beni e servizi ricreativi, spettacoli e cultura (+4,1%, 126,41 euro).

Permangono le differenze strutturali sul territorio, legate ai livelli di reddito, ai prezzi e ai comportamenti di spesa, con i valori del Nord più elevati di quelli del Centro e, soprattutto, di Sud e Isole. La Lombardia e il Trentino-Alto Adige sono le regioni con la spesa media più elevata (rispettivamente 3.030,64 e 3.022,16 euro). La Calabria è invece la regione con la spesa minore, 1.729,20 euro mensili, inferiore del 42,9% rispetto ai valori più elevati.

Nelle città metropolitane la spesa media mensile è di 2.630,73 euro, nei comuni periferici delle aree metropolitane e nei comuni sopra i 50mila abitanti è di 2539,47 euro e negli altri comuni fino a 50mila abitanti è di 2.436,38 euro. Nelle città metropolitane si destinano quote di spesa più elevate all’abitazione e ai servizi ricettivi e di ristorazione.

Le famiglie di soli stranieri spendono in media 1.532,66 euro al mese, circa 1.000 euro in meno di quanto spendono le famiglie di soli italiani (anche se queste ultime hanno in genere dimensioni più contenute). Più della metà della spesa delle famiglie di soli stranieri (54,1%) è destinata a prodotti alimentari e bevande analcoliche e ad abitazione, acqua, elettricità, gas e combustibili (al netto degli affitti figurativi); questa quota è del 29,1% per le famiglie di soli italiani.

La spesa media mensile è molto eterogenea al variare del titolo di studio: ammonta a 3.383,05 euro per le famiglie con persona di riferimento laureata o con titolo di studio superiore alla laurea, circa il doppio rispetto a quella delle famiglie la cui persona di riferimento ha la licenza elementare o nessun titolo di studio.

Tra le famiglie di occupati dipendenti la spesa media mensile è pari a 2.321,50 euro se la persona di riferimento è operaio e assimilato, sale a 3.124,56 euro se è dirigente, quadro o impiegato. Tra gli occupati indipendenti, la spesa media mensile è di 3.585,20 per imprenditori e liberi professionisti e di 2.733,88 euro per gli altri lavoratori indipendenti”. (Fonte: www.istat.it, “Spese per consumi delle famiglie”, 7 luglio 2016).

Circa l’anno in corso, ricordiamo che mentre “prosegue la fase di crescita moderata dell’economia italiana”, “segnali meno favorevoli provengono dai consumi, dal clima di fiducia delle famiglie e dalle imprese dei servizi. In questo quadro, l’indicatore composito anticipatore dell’economia italiana ha segnato un’ulteriore discesa, prospettando un rallentamento nel ritmo di crescita dell’attività economica nel breve termine”. (Fonte: www.istat.it, “Nota mensile sull’andamento dell’economia italiana”, 5 luglio 2016).

Ance: prospettive incerte

Il 2015 è stato l’ottavo anno di una crisi che ha dimezzato i livelli produttivi dei principali comparti e indebolito gravemente il tessuto industriale del settore; il 2016 e il 2017 si presentano ancora carichi di incertezza per le potenzialità di ripresa e per il rischio del perdurare di una crisi senza precedenti, stando all’“Osservatorio congiunturale sull’industria delle costruzioni” di Ance. Lo studio è stato illustrato ieri a Roma dal Presidente Claudio De Albertis, dal Vicepresidente Rudy Girardi e dal Responsabile del Centro Studi, Flavio Monosilio. Alla conferenza stampa sono intervenuti anche analisti dell’economia e del settore: Lorenzo Bellicini del Cresme, Luca Dondi di Nomisma, Luca Paolazzi del Centro Studi di Confindustria e Francesco Zollino di Banca d’Italia. Quanto all’anno in corso, estrapoliamo alcuni passaggi salienti: “Con riferimento al settore delle costruzioni, l’aspettativa di ripresa motivata dal cambio di segno di alcuni indicatori e dalla fiducia in un effettivo rilancio degli investimenti pubblici in infrastrutture, emersa a fine 2015, non ha trovato piena conferma nella prima parte dell’anno in corso. L’Ance, in ragione di tale aspettativa di miglioramento, nell’Osservatorio congiunturale sul settore delle costruzioni di dicembre scorso, aveva formulato una previsione di crescita degli investimenti in costruzioni nel 2016 dell’1,0% in termini reali, dopo otto anni di crisi ininterrotta che ha ridotto il livello degli investimenti in costruzioni del 34,9%. L’inversione di segno era guidata principalmente da una stima di crescita dei livelli di attività del comparto dei lavori pubblici dell’ordine del 6% in quantità rispetto all’anno precedente. Tale previsione, elaborata tenendo conto delle potenzialità derivanti dalla cancellazione del patto di stabilità interno e dall’applicazione della clausola di flessibilità per gli investimenti pubblici (0,3% del Pil, pari circa 5 miliardi di euro), oggi non sembra più raggiungibile. La nuova stima ridimensiona a +0,4% in termini reali (+1,4% in valori correnti) la crescita in opere pubbliche. In questo contesto lo scenario formulato dall’Ance per l’anno in corso è di un aumento tendenziale degli investimenti in costruzioni dello 0,3% in termini reali (+1,3% in valori correnti). Si tratta di un aumento trascurabile, del tutto insufficiente a creare condizioni di effettiva ripresa per un settore stremato da una crisi senza fine”. (Fonte: Ance, “Osservatorio congiunturale sull’industria delle costruzioni”, a cura della Direzione Affari Economici e Centro Studi, Luglio 2016).

D2U per Gruppo Publicis

“Un luogo che regala serenità, creatività e benessere: questi i punti di forza della nuova sede degli uffici del Gruppo Publicis presso l’edificio all’angolo di viale Jenner e via Bernina, recentemente riqualificato dallo studio milanese D2U – Design to Users. Il progetto di rinnovamento è stato infatti sviluppato ed eseguito dall’Arch. Jacopo della Fontana socio fondatore insieme a Corrado Caruso di D2U, con l’obiettivo di trasformare un immobile in disuso da molti anni in un complesso di uffici di nuova generazione.

‘Trasformare un immobile triste e vuoto in un campus accogliente e creativo è stata una grande sfida’ dichiara Jacopo della Fontana ‘vinta con la visione e la determinazione di tutti i protagonisti.’

Questa vision ha dato origine a un luogo di lavoro in grado di infondere energia e di dare ispirazione: una location in cui la gente trascorre molto tempo e rimane volentieri.

‘Il nostro lavoro è quello di creare, produrre e vendere idee.’ sostiene Giorgio Brenna Presidente e AD di Leo Burnett Group Italia ‘Ecco perché abbiamo voluto una location di lavoro che sapesse infondere energia e dare ispirazione alle nostre persone, ai nostri creativi, per metterli nelle condizioni di avere le idee migliori per i clienti.’

La rivisitazione dell’idea di ufficio ha avuto un riscontro positivo tra chi vive il Campus quotidianamente, come si evince dalle parole di Daniela Canegallo, CEO di MSLGROUP Italia, che racconta ‘Talvolta la forma è sostanza: è il caso del nostro nuovo campus. Uno spazio che ci ha consentito un modo diverso di lavorare, abbattendo i silos e facilitando una libera circolazione delle idee ed una contaminazione molto interessante delle diverse discipline.’

Anche José M. Vuolo, Head of Design di Leo Burnett, riconosce il valore delle nuove facilities e delle opportunità che i nuovi spazi conferiscono: ‘Questo lavoro si è sempre basato su un’unità inscindibile: la coppia creativa composta da Art e Copy. Da quando esiste la pubblicità l’intimità della coppia è sempre stata un elemento inviolabile, addirittura sacro! Per questo quando ho visto il progetto di un openspace, sono trasalito. In realtà da quando siamo qui, nessuno si è mai posto il problema, perché abbiamo trovato le soluzioni naturalmente, adattandoci alle opportunità del nuovo ambiente’.

All’interno del lotto si trova una grande corte privata di 5.000 mq, del tutto inusuale in una città come Milano. Questa ha ispirato cliente, architetto e consulente immobiliare a concepire la trasformazione dell’edificio per farne un nuovo organismo capace di ospitare il ‘Polo Creativo’ destinato alla coabitazione dei diversi Brand del Gruppo Publicis, per il quale lavorano oltre 600 persone.

Le facciate del palazzo sono state trasformate per dare loro un’immagine più interessante e contemporanea grazie alle pellicole serigrafate colorate che danno un effetto altamente cromatico e dinamico. Lo spazio esterno è diventato un giardino con il déhors della caffetteria e un campo da basket-calcetto, che offre anche la possibilità di camminare o fare meeting più gradevoli tra le grandi magnolie o dedicarsi qualche momento di svago nell’orto.

Negli 11.000 mq di uffici del palazzo sono ospitate le principali agenzie del Gruppo – Leo Burnett, Saatchi & Saatchi, Publicis e MSL – e le altre società, per un totale di circa una decina di Brand. Per garantire autonomia d’immagine sono stati realizzati tre ingressi distinti, ciascuno dotato di ampia visibilità dall’esterno e caratterizzato da un proprio look&feel all’interno. La maggior parte del piano terra funge da spazio di supporto per tutte le agenzie: vi trovano posto il lounge-bar-ristorante, un grande teatro da un centinaio di posti, numerose sale riunioni e un asilo nido. Al piano inferiore è stata creata una palestra ben attrezzata, mentre sull’ampio terrazzo c’è spazio per ulteriori aree per riunioni informali.

L’allestimento del layout degli spazi di lavoro ai piani superiori ha seguito un’impostazione comune con diverse varianti estetiche. Nel complesso l’articolazione degli spazi garantisce sia la possibilità di socializzazione e di confronto creativo che la necessaria privacy e la connotazione propria di ogni società del gruppo.

Tra i partner che hanno reso possibile la realizzazione del ‘Creative Campus’ ringraziamo il general contractor Mangiavacchi Pedercini e citiamo: Arper, Arteco, Avery Danninson Italia, B&B Italia, Brama, Caimi, Cardex, Castellotti, Dieffebi, Emmegi, Falegnameria F.lli Casali, Grandimpianti Ali, Greenwood & Woodn, HW Style, Interface, Laminam, Regent, Sitland, Servizi Tecnologici Bergamo, Tagliabue Sistemi, Trilux, Universal Selecta”.

Questo il testo del comunicato stampa diffuso in occasione della presentazione del 6 luglio.

Crescita moderata, consumi invariati

“Prosegue la fase di crescita moderata dell’economia italiana sostenuta dal miglioramento dei ritmi produttivi dell’attività manifatturiera e dai primi segnali di ripresa delle costruzioni, in presenza di un recupero della redditività delle imprese e di un aumento dell’occupazione. Segnali meno favorevoli provengono dai consumi, dal clima di fiducia delle famiglie e dalle imprese dei servizi. In questo quadro, l’indicatore composito anticipatore dell’economia italiana ha segnato un’ulteriore discesa, prospettando un rallentamento nel ritmo di crescita dell’attività economica nel breve termine”. (Fonte: www.istat.it, “Nota mensile sull’andamento dell’economia italiana”, 5 luglio 2016).

Il pdf è disponibile on line. Evidenziamo, en passant, che “Il reddito disponibile delle famiglie consumatrici è aumentato dello 0,8% rispetto al trimestre precedente, mentre i consumi sono rimasti invariati. Di conseguenza, la propensione al risparmio delle Famiglie consumatrici è risultata pari all’8,8%, in aumento di 0,8 punti percentuali rispetto al trimestre precedente. Poiché il deflatore implicito dei consumi delle famiglie è sceso in termini congiunturali dello 0,3%, il potere d’acquisto delle famiglie è aumentato dell’1,1%”. (Fonte: www.istat.it, “Conto trimestrale delle Amministrazioni pubbliche, reddito e risparmio delle famiglie e profitti delle società”, 30 giugno 2016).

Consumi e indicatori di fiducia sono quindi sotto pressione, in attesa del dispiegarsi di ulteriori fattori endogeni ed esogeni (a partire dalle conseguenze della Brexit).

In margine, per quanto attiene al circuito dei centri commerciali, dopo un aumento delle vendite del 3,2% nel 2015 (esclusi gli ipermercati), nel primo trimestre 2016 la crescita è stata dell’1,8%, secondo quanto recentemente dichiarato dal Presidente del CNCC Massimo Moretti.

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