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Export agroalimentare italiano a un passo dai 70 miliardi di euro

Il settore agroalimentare italiano resta competitivo sullo scacchiere internazionale, con numeri in crescita anche nel 2025 che dovrebbe chiudersi con un export superiore ai 70 miliardi di euro, soglia mai raggiunta finora. Ma ha un problema, reso ancora più di attualità dal protezionismo trumpiano: la sostanziale dipendenza da pochi grandi mercati. L’Italia è oggi il nono esportatore mondiale per valore (67,2 miliardi di euro nel 2024) e secondo Paese per crescita nell’ultimo quinquennio, con un aumento del 55%. Una crescita diffusa su quasi tutti i mercati, con risultati particolarmente rilevanti in Polonia (+112%), Spagna (+74%) e Stati Uniti (+69%). Ma la concentrazione geografica è forte: i primi cinque mercati di destinazione — Germania, USA, Francia, UK e Spagna — rappresentano ancora il 50% dell’export complessivo. Riuscire a diversificare sarà fondamentale in una fase caratterizzata da molteplici fattori di incertezza e complessità, in cui gli equilibri commerciali globali si stanno rivelando sempre più fragili.
Le stime del 2025 sono comunque positive: secondo uno studio Nomisma, i dati gennaio-settembre mostrano una crescita per l’export agroalimentare italiano del +5,7% rispetto allo stesso periodo del 2024, segnale che il comparto dovrebbe superare per la prima volta la soglia dei 70 miliardi di euro. Un record – se così sarà – trainato soprattutto dai mercati dell’Unione Europea (+9%), con ottime performance in Polonia (+17,3%), Romania (+11,1%), Repubblica Ceca (+9,1%) e Spagna (+14,5%). Meno brillante la crescita extra UE (+4%), frenata dai cali registrati negli Stati Uniti (-1,1%), in Russia (-8%) e in Giappone (-13%).

PESA LA SVALUTAZIONE DEL DOLLARO
Il calo dell’export agroalimentare negli USA è legato principalmente alla svalutazione del dollaro (oltre -10% da inizio anno) e all’incertezza generata dalle politiche daziarie dell’Amministrazione Trump, che hanno provocato un andamento altalenante: una forte crescita nei primi tre mesi dell’anno dovuto all’effetto scorte e un crollo fino al -22% in agosto, con l’introduzione del dazio aggiuntivo del 15% su alcuni dei nostri prodotti.
Nonostante ciò, gli Stati Uniti restano un mercato strategico e difficilmente sostituibile per il food & beverage italiano. Con un Pil pro capite prossimo ai 90.000 dollari e una spesa alimentare annua di oltre 4.500 dollari a persona, gli USA importano 211 miliardi di dollari di prodotti agroalimentari, con una crescita del 50% negli ultimi 5 anni. Gli acquisti di prodotti agroalimentari italiani sono aumentati del 66% tra il 2019 e il 2024 e oggi l’Italia è il terzo fornitore con una quota di quasi il 4%, dopo Canada e Messico che congiuntamente pesano per oltre il 40% sull’import agroalimentare statunitense.

IL DIFFERENZIALE DI PREZZO NEGLI USA
La rilevanza del mercato Usa per l’export italiano è stata analizzata da Nomisma attraverso il confronto incrociato – per singolo prodotto – tra la crescita nell’export a volume degli ultimi 5 anni, il differenziale esistente tra il prezzo medio all’export negli USA rispetto alla media mondiale e il peso assunto dal mercato statunitense sull’intera categoria. Dall’analisi è emerso come per due categorie di prodotti in particolare, ovvero i derivati della carne e la cioccolata, il differenziale di prezzo sia superiore al 40% così come la crescita nei volumi esportati risulti maggiore del 50%.
Per olio d’oliva, vini fermi e frizzanti imbottigliati, liquori e aceti l’incidenza del mercato USA è superiore al 25% del nostro export a livello mondiale, con un differenziale di prezzo intorno al 30%, a dimostrazione di quanto il mercato americano risulti “attrattivo” e profittevole per le imprese italiane.

DIVERSIFICARE È UNA PRIORITÀ
Per ridurre i rischi e rafforzarne la crescita futura, diventa quindi fondamentale ampliare la presenza dell’agroalimentare Made in Italy in altri contesti. “Per quanto il mercato statunitense sia insostituibile per il nostro export agroalimentare – premette Denis Pantini, Responsabile Agroalimentare Nomisma – vi sono paesi che nell’ultimo decennio hanno incrementato le importazioni di nostri prodotti food & beverage a tassi medi annui superiori al 12%, in particolare Messico, Polonia, Romania, Corea del Sud ma anche Australia e Brasile, dove i nostri prodotti possono fare leva, oltre che sull’elevata qualità, su asset di sviluppo come la presenza di una nutrita comunità di origine italiana ma anche di ristoranti di cucina italiana, oggi ad un passo dal diventare ufficialmente patrimonio culturale immateriale dell’umanità da parte dell’Unesco. In un contesto economico sempre più instabile, l’agroalimentare italiano conferma la propria forza e la capacità di espandersi oltre confine, ma la sfida per i prossimi anni sarà diversificare, innovare e cogliere le nuove opportunità offerte dai mercati esteri”.
In questo contesto, un ruolo decisivo potrà essere svolto dai nuovi accordi di libero scambio. L’intesa UE–Mercosur, che coinvolge 260 milioni di persone e oltre 3.000 miliardi di dollari di Pil, secondo Nomisma rappresenta un’opportunità per le aziende italiane, considerando che il nostro export agroalimentare verso quest’area già oggi vale 440 milioni di euro (+68% negli ultimi cinque anni). Ulteriori prospettive arrivano dalla chiusura del negoziato con l’Indonesia, mercato da 287 milioni di abitanti, dove l’export italiano ha già raggiunto i 90 milioni di euro, con una crescita del +58% dal 2019.

IL FATTURATO CRESCE PIÙ DELLA MARGINALITÀ
Altro aspetto interessante – messo in luce da Crif, che con Nomisma ha realizzato la piattaforma Agrifood Monitor – è l’andamento di alcuni fondamentali indicatori finanziari con riguardo all’industria alimentare italiana. Il fatturato del comparto mostra tassi di crescita superiori rispetto alla mediana italiana. Sul fronte della marginalità, anche per effetto dell’inflazione sulla componente di energia e materie prime, il progresso rispetto al pre-Covid è risultato meno marcato nel confronto con il dato nazionale.
Dal punto di vista finanziario, invece, il comparto ha solo parzialmente ampliato la propria flessibilità finanziaria, a dispetto di quanto avvenuto in modo più marcato in altri settori. Ciononostante, il debito finanziario continua a risultare sostenibile, con un rapporto debito finanziario lordo su Ebitda mediamente pari a 2,5x e un adeguato livello di copertura degli oneri finanziari prossimo a 8x, pur in presenza dell’incremento del tasso di interesse a partire dal secondo semestre 2022.

TASSO DI DEFAULT IN CALO
Le analisi prodotte da Crif Ratings segnalano che a fine 2024 il tasso di default delle società di capitali operanti nel settore alimentare ha registrato una riduzione di circa 25 punti base rispetto al 2023, a fronte di un lieve aumento di 15 punti base per l’intero universo delle società di capitali italiane. Sebbene tale tasso di default risulti leggermente superiore alla media dell’economia italiana, per quasi tutti i comparti del settore alimentare si è mantenuto su livelli inferiori rispetto a quelli osservati nel periodo pre-Covid.
Relativamente ai pagamenti commerciali, infine, le performance risultano molto eterogenee tra i diversi canali di sbocco anche se, mediamente, tutti mostrano percentuali di ritardi gravi superiori alla media nazionale, seppur senza segni preoccupanti di aumento negli ultimi semestri.
Pur in un contesto di incertezza, il settore alimentare italiano sta dimostrando una sostanziale stabilità dal punto di vista creditizio – commenta Simone Mirani, Managing Director di Crif Ratings –. L’attuale tasso di default delle società di capitali operanti nel settore si mantiene infatti nell’ordine del 3%, di poco sopra la media italiana e con dinamiche sostanzialmente omogenee nei diversi comparti. Tuttavia, la capacità di dotarsi e mantenere un’adeguata flessibilità finanziaria risulta un elemento chiave per affrontare con sufficienti margini di manovra il volatile contesto geopolitico e macroeconomico, ivi incluso l’impatto moderatamente negativo dei dazi USA”.

Aziende alimentari, tassi di default in crescita per rincari energia e materie prime

Le aziende del settore alimentare mostrano un significativo incremento del tasso di default che a fine 2022 si attesta attorno al 4%. A reggere meglio è il comparto agricolo sebbene con tassi superiori al 2%. In generale, l’esame degli andamenti delle aziende nel 2021 e 2022 mette in evidenza come il contesto macroeconomico di instabilità abbia influenzato le performance del settore agricolo e parallelamente anche di quello alimentare, sebbene in modo differente. Sono queste alcune delle evidenze principali dello studio realizzato da CRIF Ratings, agenzia di rating del credito del gruppo CRIF. L’analisi è stata condotta su un campione di circa 11.000 aziende italiane, selezionate sulla base dei Codici Ateco 2007. Se da un lato nell’agroalimentare è stato registrato un deciso aumento dei fatturati, con una crescita generale del valore generato, dall’altro si è verificato un significativo incremento della rischiosità con i default che a livello nazionale sono aumentati di almeno 1 punto percentuale.

“Questo peggioramento così marcato del food & beverage è il riflesso della forte esposizione del comparto all’aumento dei prezzi delle materie prime e dell’energia, mentre risultano più in linea con le evidenze nazionali i tassi di default nel settore agricolo. La crescita record dei fatturati è riconducibile prevalentemente alla spinta dell’inflazione, che ha portato le imprese dell’agroalimentare a rialzare i prezzi dei propri prodotti a listino. Nel 2023, crediamo che i fatturati continueranno a progredire per effetto dell’inflazione, ma allo stesso tempo i margini operativi resteranno sotto pressione”, spiega Luca D’Amico, Amministratore Delegato di CRIF Ratings.

Nel complesso, allargando lo sguardo e guardando anche ad altri settori, entrambi comparti agricolo e alimentare, si collocano all’interno del ‘corridoio’ rappresentato dal cosiddetto “leisure” (che comprende ristorazione, viaggi e turismo, lotterie, attività ricreative, sportive e di intrattenimento), che segna i risultati più critici in assoluto, e dal comparto farmaceutico che segna invece i risultati migliori. In ogni caso, l’agroalimentare è comunque sopra la media italiana.

Bilanci e indebitamento delle imprese: aumenta il rischio
Andando a guardare l’indebitamento da parte delle imprese, emerge ancora più chiaramente l’immagine di un comparto posizionato su livelli di rischio superiori rispetto alla media nazionale. Nelle imprese agricole vediamo infatti un debito finanziario lordo quasi 7 volte superiore al margine operativo lordo, in media, un rapporto che scende a 4 nell’alimentare, ma che resta comunque sopra la media nazionale. A causa della pandemia le aziende dal 2020 hanno fatto maggiore ricorso al credito, accumulando una massa di debiti, che ha portato a un marcato squilibrio tra il debito e il margine operativo lordo. Il riassesto, con il ritorno ai livelli pre-Covid, viene rallentato attualmente da un contesto macroeconomico ancora instabile.

Allo stesso tempo, l’autofinanziamento delle imprese attraverso la gestione operativa risale a rilento, con un andamento molto più basso rispetto alla media italiana, andando a scapito della sostenibilità economica degli impegni contratti. Il settore alimentare infatti segna in media un margine operativo lordo che è circa 10 volte gli oneri finanziari, un rapporto che scende a 8 circa per l’agricoltura, quando la media nazionale è superiore alle 15 volte. Inoltre, attualmente la politica monetaria espansiva non gioca a favore e il contesto di rialzo, che continuerà del 2023, potrebbe mettere sotto pressione i settori e le imprese strutturalmente più fragili.

Invece, per quanto riguarda il rapporto tra cassa e debito finanziario, la liquidità aveva mostrato un miglioramento favorito dagli interventi governativi. Però, l’avvio dei rimborsi delle quote capitale porterà ad intaccare i livelli di liquidità delle imprese, con effetti maggiori in situazioni di sovra-indebitamento. Per l’alimentare, infatti, la cassa equivale all’80% circa del debito finanziario a breve, quota che nell’agricoltura scende al 60%, mentre la media nazionale si attesta sul 140%.

ESG, investimenti e le prossime sfide del comparto
Guardando ai prossimi passi del settore agroalimentare e agli investimenti, c’è molta strada da fare sulla digitalizzazione dei processi, sulla tracciabilità delle filiere, nonché sull’ottimizzazione delle risorse idriche ed energetiche, così come su tutti quei fattori che vanno a comporre gli indici ESG (Environmental, Social, Governance). Secondo quanto rilevato da Crif Ratings, infatti, il 95% delle aziende ha dei punteggi ESG negativi o pessimi. Le aziende agricole, oltre ad essere le più esposte ai rischi fisici e di transizione, sono anche caratterizzate da ampi margini di miglioramento sulle tematiche sociali (“S”: Social), con riferimento al forte precariato, stagionalità degli impieghi e, talvolta, dalla limitata attenzione a welfare/diritti umani. Sul piano della gestione di impresa invece (“G”: Governance), emerge come la maggior parte sono aziende per lo più a conduzione familiare, destrutturate, con poca trasparenza ed equità interna.

È un settore che può presentare esempi molto virtuosi, come le aziende che applicano circular economy e progetti di rigenerazione della biodiversità, sebbene questi aspetti difficilmente riescano ad emergere perché si tratta ancora di una casistica limitata. Sul piano dell’impatto ambientale (“E”:Environmental), le filiere agroalimentari nel loro complesso sono responsabili di una quantità molto consistente di emissioni di CO2. Proprio una delle sfide chiave è quella della protezione delle risorse naturali con la conservazione dell’ambiente, evitare il deterioramento dei terreni, limitare il contenimento dell’inquinamento delle fonti idriche, e contrastare la distruzione di ecosistemi.

Previsioni 2023 su agroalimentare e altri settori
L’andamento economico atteso, per quanto riguarda i settori manifattura, trasporti, agroalimentare e costruzioni, segna un pieno recupero del fatturato post pandemia. Nell’attuale contesto, il fatturato continuerà a crescere per l’effetto dell’inflazione ma, allo stesso tempo, i margini operativi resteranno sotto pressione a causa degli elevati costi energetici e le oscillazioni del prezzo delle materie prime. L’effetto sul settore delle Utilities si diversificherà in base al posizionamento nella filiera dell’energia, con forte effetto inflattivo generato sui ricavi, ma potrebbe provocare degli impatti negativi in termini di redditività, specie per attività di vendita e re-selling. Il settore terziario è invece previsto in forte recupero rispetto al 2019, anche perché meno esposto al tema dei costi fissi e materie prime.

Ortofrutta: consumi (e prezzi) in crescita, durante la pandemia

I comportamenti di consumo dell’ortofrutta nel corso del lockdown sono cambiati. E gli effetti si sentiranno anche durante la Fase 2.

Ecco quanto emerge dal focus sui consumi domestici di ortofrutta dell’osservatorio “THE WORLD AFTER LOCKDOWN” di Nomisma e CRIF.

La forzata permanenza degli italiani fra le mura domestiche nelle lunghe settimane del lockdown ha spinto il consumo di frutta e verdura fresca e trasformata. Un italiano su due ha infatti modificato gli acquisti in questo periodo, con un forte aumento delle quantità consumate (circa un italiano su tre) – mentre sul fronte opposto solo il 15% dichiara di aver diminuito i consumi.

Le dinamiche dei consumi di ortofrutta riflettono quanto accade all’intero paniere alimentare, in aumento per il 23% delle famiglie, mentre si assiste ad un calo diffuso per le spese rimandabili quali abbigliamento (38% delle famiglie ha ridotto gli acquisti) e arredamento (35%).

L’incomprimibilità della spesa domestica per alimentare e bevande è un evidente effetto dell’incremento del numero di pasti at home, collegati alla pressoché totale chiusura del canale away from home e all’adozione dello smart-working. Per gli stessi motivi, oltre che per una generale ricerca per prodotti naturali e salutistici, le vendite di ortofrutta nella distribuzione modera hanno registrato un grande balzo durante il lockdown (+15,8% a valore la variazione 17/feb-26/apr 2020 rispetto allo stesso periodo 2019 – fonte Nielsen – la crescita 2020 nel periodo pre-Covid era stata invece del 3,3%).

La crescita è stata sostenuta soprattutto dalla frutta (+20,4% a valore) rispetto alla verdura (+13,4%). Un driver importante sono stati i valori salutistici associati al consumo di frutta – in particolare di quella ricca di vitamina C, come le arance e kiwi, ma anche delle mele, categorie che più di altre hanno dato impulso agli acquisti.

Tuttavia, se da un lato l’incremento a valore della spesa riflette i maggiori acquisti in quantità e la ridefinizione del mix dei prodotti ortofrutticoli infilati nel carrello, dall’altro indica l’effetto di un incremento dei prezzi, percepito da ben il 69% dei responsabili acquisti delle famiglie.

Fonte: Osservatorio Nomisma The World After LOCKDOWN

Il canale on line

La percezione della crescita dei prezzi riflette anche la rimodulazione degli acquisti per canale. La spesa è cresciuta in tutti i punti vendita, ma durante il lockdown gli italiani hanno fatto maggior ricorso rispetto al pre-Covid ai negozi di vicinato e ai piccoli supermercati di prossimità. I comportamenti adottati per evitare il rischio di contagio in caso di assembramenti (limitazioni nel movimento e impossibilità di spostamenti in comuni diversi, predilezione di punti vendita meno affollati, pianificazione della spesa, ecc.) hanno portato non solo ad un diradamento della frequenza della spesa, ma anche alla preferenza di punti vendita prossimi alle abitazioni, soprattutto in quelli che hanno introdotto servizi quali click & collect, ordini telefonici, via WhatsApp o tramite sito internet (il 16% delle famiglie ha fruito del food delivery).

L’esigenza per la componente di servizio ha superato in molti casi la più “consolidata” preferenza di selezione diretta dell’ortofrutta.

E sulla scia di questo comportamento si è anche affermato l’acquisto di frutta e verdura on line. Una famiglia su 4 infatti ha acquistato ortofrutta tramite i siti web delle insegne della distribuzione organizzata, con una domanda potenziale ancora maggiore e non soddisfatta a causa di una forte intensità delle richieste (durante il lockdown il 16% ha provato a piazzare un ordine senza successo). Per l’ortofrutta il canale on line non si esaurisce con la GDO: un ulteriore 15% ha fatto un acquisto nei siti di produttori/mercati agricoli on line.

Queste tendenze, embrionali prima del lockdown, potrebbero diventare abitudini consolidate nel post-lockdown.

IV gamma e time-saver: i freschi sono più forti

Frutta e verdure fresche sono state le protagoniste sulla tavola degli italiani nelle settimane trascorse in casa. Complice il maggiore tempo a disposizione e una rinnovata attenzione alla buona cucina, i maggiori acquisti hanno riguardato queste referenze, cui si sono affiancati anche i surgelati (presenti durante il lockdown in almeno una occasione nel carrello degli acquisti del 90% degli italiani – +30% a valore nelle vendite della GDO nel mese di marzo), che grazie alla lunga conservazione hanno consentito di garantire la necessità di fare “scorta”.

All’opposto, i prodotti time-saver e ready to eat, come gli ortaggi confezionati e già pronti all’uso in cucina e le zuppe e minestre pronte da scaldare, hanno avuto una lieve battuta d’arresto. Nelle prossime settimane è atteso un riequilibrio, ma fintanto che le misure di salvaguardia della salute degli italiani saranno alte (prosecuzione della chiusura delle scuole, uso diffuso dello smart-working, ecc.) e alcune attività procederanno a ritmo ridotto, gli effetti sulla composizione del paniere di spesa dell’ortofrutta continueranno a farsi sentire.

Le nuove priorità

Che eredità ha lasciato il lockdown agli italiani?

Il maggiore interesse per la salute e il benessere, unito al forte interesse per l’italianità che riflette sia sicurezza che forte senso di solidarietà verso il nostro paese, saranno i principali attributi che guideranno le scelte dell’ortofrutta nei prossimi 6 mesi.

Fonte: Osservatorio Nomisma The World After LOCKDOWN

L’origine 100% italiana del prodotto sarà l’elemento chiave delle scelte degli italiani: il 60% dei responsabili acquisti dichiara, infatti, che questo criterio – già rilevante in passato – sarà ancora più centrale; a conferma è elevata anche l’importanza attribuita ai prodotti a km zero o del territorio (45%). Grande interesse si concentra anche nella ricerca di adeguate garanzie relativamente al controllo ed alla rintracciabilità lungo la filiera (45%). Tra gli altri valori determinanti i prodotti biologici (34%) e salutistici (32%), con un occhio anche alla sostenibilità, grazie alle confezioni in materiali riciclabili o comunque ecosostenibili (30%).

I consumatori di frutta e verdura, infine, faranno anche molta attenzione alla convenienza e al prezzo (42%), visto lo scenario di difficile congiuntura economica, che determinerà sempre più un forte ridimensionamento dei redditi e quindi della capacità di spesa degli italiani.

Modalità della ricerca

L’osservatorio “THE WORLD AFTER LOCKDOWN” di Nomisma e CRIF,  analizza l’impatto della pandemia COVID-19 sulle vite dei cittadini, grazie al coinvolgimento di un campione di 1.000 italiani responsabili degli acquisti (18-65 anni).

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