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Dazi sul food: chi rischia di più in una guerra commerciale con gli Usa

È allarme rosso per l’agroalimentare italiano. La guerra commerciale, che potrebbe aprirsi con l’entrata in vigore il 2 aprile dei dazi voluti dal Presidente degli Usa Donald Trump, mette in pericolo l’export di tanti prodotti tricolori. A fare l’elenco dei più esposti è un’analisi di Cia-Agricoltori Italiani, realizzata sulla base dei dati di Nomisma e dell’Ufficio studi confederale. Qualche nome? Chianti e Amarone, Barbera, Friulano e Ribolla, Pecorino Romano, Prosecco e persino sidro di mele, mentre Sardegna e Toscana sono le regioni che potenzialmente potrebbero patire i danni maggiori. “Serve un’azione diplomatica forte per trovare una soluzione e non compromettere i traguardi raggiunti finora – dichiara Cristiano Fini, Presidente nazionale di Cia –. L’export agroalimentare negli Usa è cresciuto del 158% in dieci anni e oggi gli Stati Uniti rappresentano il secondo mercato di riferimento mondiale per cibo e vino Made in Italy, con 7,8 miliardi di euro messi a segno nel 2024. L’Italia può e deve essere capofila in Europa nell’apertura di un negoziato con Trump, visto che abbiamo anche più da perdere. Gli Usa, infatti, valgono quasi il 12% di tutto il nostro export agroalimentare globale, mettendoci in testa alla classifica dei Paesi Ue, molto prima di Germania (2,5%), Spagna (4,7%) e Francia (6,7%)”.

I PRODOTTI AGROALIMENTARI PIÙ ESPOSTI SUL MERCATO AMERICANO
Guardando ai prodotti Made in Italy che trovano negli Stati Uniti il principale sbocco, in termini di incidenza percentuale sulle vendite oltrefrontiera, al primo posto si colloca il sidro, una nicchia di eccellenza che destina il 72% del suo export al mercato americano (per un valore di circa 109 milioni di euro nel 2024), seguito dal Pecorino Romano (prodotto al 90% in Sardegna), il cui export negli Usa vale il 57% di quello complessivo (quasi 151 milioni di euro). Due produzioni molto ricercate dall’industria a stelle e strisce, con “l’Apple Cider” tra le bevande più popolari tra i millenial e il nostro formaggio di pecora utilizzato soprattutto per insaporire le patatine in busta. Ma con i dazi al 25%, avverte Cia, il florido settore americano di chips e snack (2,5 miliardi) potrebbe sostituire il Pecorino nostrano con altri prodotti caseari più convenienti. L’arrivo di nuove tariffe rischia dunque di tagliare di netto il loro mercato, con quote difficilmente rimpiazzabili in altre aree geografiche.
Discorso a parte sul vino italiano, per il quale gli Usa sono la prima piazza mondiale con circa 1,9 miliardi di euro fatturati nel 2024, ma con “esposizioni” più forti di altre a seconda delle bottiglie. Secondo l’analisi di Cia, a dipendere maggiormente dagli Stati Uniti per il proprio export sono infatti i vini bianchi Dop del Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia, con una quota del 48% e un valore esportato di 138 milioni di euro nel 2024; i vini rossi toscani Dop (40%, 290 milioni), i vini rossi piemontesi Dop (31%, 121 milioni) e il Prosecco Dop (27%, 491 milioni). Grandi numeri che i dazi possono scombinare, fa notare Cia, lasciando strada libera ai competitor di aggredire una fetta di mercato molto appetibile: dal Malbec argentino, allo Shiraz australiano, fino al Merlot cileno. Anche per l’olio d’oliva italiano gli Stati Uniti hanno un peso significativo, pari al 32% del proprio export (937 milioni di euro nel 2024), ma meno sostituibile nella spesa degli americani, e così a scendere per i liquori (26%, 143 milioni). Meno esposti al mercato Usa risultano invece Parmigiano Reggiano e Grana Padano, per una quota che pesa per il 17% del valore dell’export congiunto di questi due formaggi (253 milioni), così come pasta e prodotti da forno (13%, 1,1 miliardi).

DANNI MAGGIORI PER LE REGIONI DEL CENTRO-SUD
Se dai singoli prodotti o categorie di prodotti si passa all’export agroalimentare delle regioni, si scopre dai dati Cia che quella più esposta ai nuovi dazi risulta essere la Sardegna (dove si produce oltre il 90% del Pecorino Romano Dop) il cui export agroalimentare finisce per il 49% negli Stati Uniti (e, giocoforza, ci finisce anche il 74% dell’export dei prodotti lattiero-caseari isolani). Al secondo posto per maggior “esposizione” negli Usa figura la Toscana (28% del proprio export agroalimentare, con l’olio in pole position con il 42% e i vini con il 33% delle relative esportazioni). Ma negli Stati Uniti finisce anche il 58% dell’export di olio del Lazio, così come il 28% delle esportazioni di pasta e prodotti da forno abruzzesi e il 26% di quelle di vini campani. Insomma, considerando le diverse aree del Belpaese, sono le esportazioni agroalimentari del Centro e Sud Italia a “rischiare” di più con l’applicazione dei dazi di Trump, anche alla luce di relazioni consolidatesi negli anni con questo importante mercato spesso grazie alla domanda generata dalle comunità di italiani residenti negli Stati Uniti.

Allarme Cia, la peste mette a rischio il comparto suinicolo italiano

Con oltre due milioni di cinghiali che scorrazzano su tutto il territorio nazionale e operazioni di contenimento che procedono a rilento, si fatica ad arginare la peste suina africana: a lanciare l’allarme è Cia-Agricoltori Italiani, rilevando che in pochi giorni sono saliti a 6 i focolai di PSA negli stabilimenti nazionali e hanno coinvolto Emilia-Romagna, Piemonte e Lombardia, regione che da sola conta più del 50% degli allevamenti suinicoli totali.

“Siamo molto preoccupati perché lo scenario si è notevolmente complicato ed è successo ciò che era prevedibile, vista l’eccessiva presenza dei cinghiali soprattutto nelle zone coinvolte. Ora chiediamo celerità nelle risposte” dichiara il Presidente di Cia, Cristiano Fini.

Il comparto suinicolo è già in forte sofferenza e adesso bisognerà prevedere risorse importanti per consentire tenuta e ripresa delle aziende. “Gli indennizzi sono fermi allo scorso novembre -continua Fini- ed è sempre più necessario supportare quelle imprese che continuano a lavorare con enormi difficoltà a causa delle misure sanitarie imposte. Servono subito ristori per coprire tutti i danni indiretti subiti con il blocco sanitario delle movimentazioni e anche con il deprezzamento dei capi. In più, occorrono ulteriori risorse per le misure di prevenzione, che ad oggi sono risultate insufficienti, oltre a un maggiore coordinamento e uniformità nella strategia di controllo della PSA. Il problema è nazionale e auspichiamo, quindi, che il direttore generale della Sanità Animale, Giovanni Filippini, che subentra al commissario Vincenzo Caputo dopo le recenti dimissioni, agisca con urgenza attraverso misure straordinarie, superando i vincoli burocratici e accelerando gli abbattimenti per fermare i contagi. Non si può più aspettare, l’allerta è massima per gli allevatori. La peste suina rischia davvero di mettere ko un settore chiave del Made in Italy agroalimentare, che genera oltre 13 miliardi tra produzione e industria” conclude Fini.

Dop e Igp a +6%: per Cia e Italia Olivicola servono valorizzazione e promozione

Le Dop e le Igp italiane rappresentano un volano importante per la crescita competitiva dell’agroalimentare nazionale e per il rilancio del turismo enogastronomico lungo lo Stivale: questo il messaggio portato a Cibus da Cia-Agricoltori Italiani e Italia Olivicola che hanno inaugurato la fiera di Parma con una retrospettiva sul settore e le opportunità da capitalizzare. Per entrambe le organizzazioni è giunto il momento di tracciare, fattivamente, la strada sul fronte della valorizzazione e della promozione, partendo da un vero patto tra agricoltori e cittadini.

Nel focus c’è il primato italiano nel comparto, una leadership per numero di produzioni certificate, 855 tra cibo e vino, e un fatturato di 20 miliardi, rispetto ai 3.500 prodotti registrati Ue per un giro d’affari di 80 miliardi. Ma non basta, Cia e Italia Olivicola guardano ai quasi 9 miliardi di euro di valore all’origine del comparto cibo Dop e Igp, per un fatturato al consumo finale superiore ai 17 miliardi di euro, pari a una crescita del 6%. Inoltre il valore aggiunto su cui lavorare sta anche nel 76% degli italiani che acquista prodotti alimentari certificati almeno una volta al mese, come in quel 45% di cittadini che non riconosce l’origine in uno specifico territorio. La conquistata riforma del Regolamento Ue sulle Indicazioni geografiche rappresenta un importante passo in avanti nella salvaguardia e nella promozione dei prodotti Dop e Igp. Ora, per essere davvero efficace nella sua attenzione alla qualità e all’innovazione rispetto a trasparenza e a sostenibilità, deve saper puntare sulla centralità del rapporto tra produttori e consumatori. Il richiamo di Cia e Italia Olivicola è a quell’alleanza stabile in grado di accrescere il peso decisionale dei due anelli della filiera agroalimentare.

I formaggi della Dop economy rappresentano la prima categoria del cibo per fatturato, con 5,227 miliardi di euro di valore alla produzione e una crescita dell’11,6% rispetto all’anno precedente. Al consumo i formaggi tutelati dal bollino Ue hanno raggiunto quota 8,6 miliardi di euro, il 7,6% in più rispetto all’anno precedente. Il comparto conta 24.484 operatori, 56 sono le Ig. Oggi l’olio da olive Dop e Igp italiano vale 85 milioni, con una riduzione del 4,0%, la produzione certificata è pari a 13 mila tonnellate, con un aumento del 3,6%. Il valore al consumo è diminuito del 5,7%, ed è pari a 142 milioni di euro, mentre il valore all’export è di 62 milioni, inferiore del 0,3% rispetto al precedente rapporto. Gli operatori della filiera sono in totale 23.418 e 50 sono i prodotti tutelati dalle indicazioni geografiche. Ortofrutticoli e cereali hanno raggiunto quota 391 milioni in valore (-0,7%) e la produzione certificata si attesta sui 578 mila tonnellate (+4,9%). Il valore al consumo è cresciuto del 14,5% attestandosi su 1.122 milioni di euro. L’export ha raggiunto quota 162 milioni (+8,2%). Gli operatori della filiera sono 21.258, 125 i prodotti Dop e Igp.

“Dop e Igp costituiscono un significativo elemento di valorizzazione dei sistemi produttivi e dei territori. Sono uno strumento per la tutela dell’ambiente, degli ecosistemi e della biodiversità, intervengono a salvaguardia di un patrimonio di saperi e tradizioni che il turismo enogastronomico, sostenuto dalla riforma Ue sulle Ig, può riposizionare a vantaggio del tessuto socioeconomico di tante zone rurali come dello sviluppo competitivo e sostenibile del settore produttivo” ha detto il Presidente Nazionale di Cia, Cristiano Fini.

“Le denominazioni di origine nel mondo dell’olio extravergine di oliva sono il futuro e oggi rappresentano solo il 4% del mercato, ma è significativo che la quantità certificata cresca di anno in anno, sfiorando i 14 mila quintali. Purtroppo, troppo spesso, sono state utilizzate dalla Gdo e dell’industria olearia come grimaldello per conquistare spazi a scaffale, più che nuovi consumatori. I 22 mila olivicoltori che certificano meritano rispetto e uno sbocco commerciale di successo, un’adeguata valorizzazione per la qualità e la tipicità degli oli Dop/Igp e non speculazioni al ribasso” ha aggiunto il Presidente di Italia Olivicola, Gennaro Sicolo.

L’Italia dice no alla carne creata in laboratorio

La carne sintetica non corrisponde alla nostra idea di cibo che, invece, è radicata nella valorizzazione delle produzioni agricole e zootecniche Made in Italy, simbolo di alta qualità e identificative dei territori e delle tradizioni nazionali: è questo l’approccio con cui Cia-Agricoltori Italiani accoglie lo schema di Ddl approvato dal Consiglio dei Ministri.

Da parte di Cia c’è ancora un “no” convinto sul tema, in primis rispetto alla carne in vitro, che mette in pericolo le eccellenze agrozootecniche italiane, fondamentali per la salvaguardia di biodiversità, razze autoctone e interi ecosistemi naturali, per fare spazio a prodotti artificiali che possono avere un impatto pesante sull’ambiente, senza garantire particolari benefici a salute e benessere dei cittadini.

Attualmente, come da report Nomisma per Cia, il mercato mondiale di carne sintetica ha già registrato investimenti da capogiro pari a 1,3 miliardi, con le aziende di riferimento a livello mondiale, tra laboratori e start up, passate da 13 a 117 dal 2016 al 2022 e la produzione globale di carne in vitro che si prospetta al 2030 in aumento fino a 2,1 milioni di tonnellate. Stando allo scenario globale, per Cia serve mettere un freno a decisioni all’interno dell’Europa che possano rivelarsi sconsiderate e non basate su studi scientifici. 

“C’è il rischio concreto che l’agricoltura venga ridimensionata e con ovvie conseguenze soprattutto sulle aree interne, custodi uniche delle tipicità agroalimentari regionali, fonte principale di economia per le comunità locali e motivo di sopravvivenza di interi territori, sempre più soggetti al progressivo abbandono” commenta Cristiano Fini, Presidente nazionale di Cia. “Senza contare che occorre mantenere alta l’attenzione contro falsi sostituti di una corretta alimentazione e della dieta mediterranea il cui valore è certificato e riconosciuto nel mondo” 

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