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Vino, Uiv: pasticcio normativo mette in stallo i dealcolati

Un mercato depresso dall’incertezza”. È la denuncia dei principali produttori di vino No-Lo e dei fornitori di tecnologie e macchinari per la dealcolazione italiani intervenuti a Vinitaly 2025 al convegno “Tecnologia 0.0: produzione e innovazione a confronto”, organizzato da Unione italiana vini (Uiv) in collaborazione con Veronafiere. A inibire la produzione, oltre all’ambiguità delle disposizioni relative l’obbligo di separazione degli spazi che dovrebbe risolversi a breve, il pasticcio normativo che lascia il comparto in balia dell’incertezza sull’applicazione delle accise in attesa del decreto interministeriale, previsto a partire dal 1° gennaio 2026. “Stiamo parlando dell’atterraggio su Marte mentre in Italia non abbiamo ancora il binocolo per vedere la luna”, ha dichiarato Martin Foradori, Ceo di Tenuta J. Hofstätter, una posizione condivisa non solo dagli altri produttori intervenuti alla tavola rotonda, ma anche dai fornitori di macchinari e tecnologie per il processo di dealcolazione. “In Italia c’è molto fermento ma abbiamo solo iniziato a vendere impianti – ha commentato Albano Vason, Direttore Generale di VasonGroup –, all’estero è più facile. Stiamo lavorando molto bene in Spagna e ora si è aperto il mercato anche in Argentina”. “Ci sono sicuramente aziende italiane interessate, ma stiamo aspettando che sia pronta la normativa”, ha confermato Massimo Pivetta, Sales Director Wine di Omnia Technologies. Per Pierluigi Guarise, Ceo di Collis Wine Group, “Ci viene detto di andare per tentativi e questo comporta un rischio anche reputazionale, ci crederemo veramente nel momento in cui verrà fatta chiarezza su tutta la normativa, dalla produzione all’etichettatura”. Non mancano le conseguenze sul fronte dei costi: “Andare a dealcolare all’estero mina la nostra competitività sul mercato”, ha dichiarato Claudio Galosi del Gruppo Argea.

Rimane all’estero la produzione anche di Mionetto, che, come dichiarato dal Consigliere Delegato e Direttore Tecnico, Alessio Del Savio, sta lavorando con vini a base Glera per “accorciare sempre di più le distanze con il Prosecco, strizzando l’occhio alla denominazione”. E proprio sulla qualità del prodotto vino si gioca la partita che vedrà i No-Lo distanziarsi dal segmento dei drink a bassa gradazione. “Dobbiamo uscire dal mondo delle bevande dove siamo relegati in una competizione a perdere con le multinazionali – ha detto Fedele Angelillo, Ceo di Mack & Schuhle Italia –. Per fare questo dobbiamo continuare ad insistere sulla qualità, anche a partire dalla vigna”. “Sul fronte della qualità abbiamo già fatto passi da gigante – ha concluso Marzia Varvaglione, Presidente del Ceev e di Agivi –. I vini No-Lo sono proposte non solo complementari ma che ci consentono di differenziare il rischio in un contesto estremamente volatile dei consumi. Ora, come produttori e imprenditori, dobbiamo capire come tutelare questi vini e come inquadrarli in modo che siano facilmente e chiaramente riconoscibili anche per i consumatori”.

Secondo l’analisi dell’Osservatorio del Vino Uiv-Vinitaly presentata a Vinitaly, il mercato italiano dei vini No-Lo (no e low alcohol) vale oggi solo lo 0,1% sul totale delle vendite di vino, per un controvalore di 3,3 milioni di dollari che – secondo le stime Iwsr – dovrebbe raggiungere i 15 milioni nei prossimi 4 anni, con un Cagr atteso del 47,1%.

Bevande a basso tasso alcolico, mercato in espansione ma serve normativa UE

Negli ultimi anni è aumentata in molti Paesi del mondo l’offerta di bevande senza alcol o con ridotto tenore alcolico, vendute e pubblicizzate come in grado di replicare l’esperienza di consumo di birra, vino e superalcolici, per chi non può o non vuole bere la versione alcolica “classica”. Mentre il mercato delle birre analcoliche o a bassa gradazione è già piuttosto consolidato nella maggior parte degli Stati UE, quello degli altri prodotti “low/no alcohol” è solo agli inizi del suo sviluppo.

Tra i paesi UE che trainano il mercato vi sono Francia, Spagna, Germania e Belgio (in totale, 84% del mercato UE per i superalcolici e 91% del mercato UE dei vini aromatizzati “low/no”), mentre fuori dall’UE mercati vivaci sono soprattutto quello australiano e quello USA, con un valore stimato rispettivamente di circa 2 miliardi e 1 miliardo di euro ciascuno. Se la birra è di gran lunga il prodotto più venduto, in alcuni Paesi sta avanzando anche il consumo di vini dealcolizzati e versioni a gradazione ridotta dei distillati più diffusi. Ciò è vero, ad esempio, in Francia – dove il vino a basso tenore di alcol ha raggiunto nel 2021 un valore di mercato stimato a 166 milioni di euro – e nel Regno Unito, primo mercato per le alternative “low/no alcohol” ai superalcolici, con vendite per 98 milioni di euro. Se in valore assoluto questo segmento rappresenta ancora una nicchia di mercato, in genere contribuendo a meno dell’1% del rispettivo mercato di riferimento (anche qui, con l’eccezione della birra), è notevole la crescita rilevata negli ultimi anni per questa tipologia di prodotti (+18% CAGR a valore 2019-2021 per distillati e liquori “low/no”), in un quadro di generale stabilizzazione o riduzione dei consumi di bevande alcoliche.

E in Italia?
In Italia il mercato delle alternative “low/no alcohol” sta muovendo i primi passi e pare meno sviluppato rispetto ad altri Paesi, in cui è già piuttosto comune trovare vini dealcolizzati o alternative analcoliche al gin tra gli scaffali dei supermercati. Lo studio Areté destinato alla DG Agri della Commissione UE stima in circa 8 milioni di euro il mercato italiano delle bevande “low/no” alternative ai superalcolici nel 2021 (lo 0,1% del totale della categoria), a fronte dei 78 milioni di euro del mercato francese. Cifre ancora più ridotte per i vini aromatizzati, rappresentati principalmente dalle alternative al vermouth, con vendite stimate in meno di un milione di euro. Se la cava un po’ meglio il vino (parzialmente) dealcolizzato, con un mercato nazionale stimato di circa 30 milioni di euro, nettamente in rincorsa rispetto a Francia (166 milioni) e Germania (69 milioni).

I dati Euromonitor International analizzati da Areté per lo studio fanno però intravedere previsioni di forte crescita nei prossimi anni (+23% di tasso di crescita medio annuo 2021-2026 per i superalcolici “low/no”), in linea con le aspettative di molti operatori, che vedono in questo mercato un grande potenziale per raggiungere nuove categorie di consumatori (si pensi ad esempio a chi non beve alcolici per motivi religiosi) ed allinearsi a trend di consumo ormai consolidati (quali la preferenza per prodotti più salutari).

Il punto di vista dei consumatori
Mentre la birra analcolica o a bassa gradazione è ormai familiare alla maggior parte dei consumatori, nei confronti delle versioni “low/no alcohol” di altri alcolici quali il vino o i distillati, lo scetticismo era prevalente fino a poco tempo fa, anche a causa della bassa qualità percepita di queste bevande. Questa iniziale diffidenza pare però aver stimolato gli investimenti da parte dei produttori verso un miglioramento della qualità organolettica tramite lo sviluppo di nuove tecniche produttive dirette ad aumentare la somiglianza di queste bevande alle controparti alcoliche. Di conseguenza, il 59% dei consumatori dell’UE dichiara attualmente un atteggiamento generalmente positivo, di curiosità, nei confronti di queste bevande in quasi tutti i principali mercati europei, mentre solo il 6% ha riferito una reazione negativa.

Insieme ai benefici per la salute (ai primi posti per il 31% dei rispondenti), la qualità del prodotto è considerato l’aspetto più importante, nonché il principale obiettivo degli investimenti e della ricerca dei produttori. Una bassa qualità percepita e la marcata differenza di sapore rispetto alla corrispondente bevanda alcolica, sono citate come fattori atti a scoraggiare il consumo per il 25%-30% dei consumatori interpellati (in media). Gli under 35, in particolare, paiono più attenti a stili di vita sani e sono generalmente più inclini a provare prodotti nuovi (per esempio versioni “low/no” dei distillati o dei vini aromatizzati) discostandosi dalla tradizione, mentre tra i consumatori più adulti la birra analcolica/ a bassa gradazione è il prodotto che suscita maggior interesse.

La normativa
Uno degli aspetti critici, con impatti anche sugli andamenti di mercato, è la normativa. Ad oggi non esiste una definizione legale di “bevanda alcolica” nella legislazione alimentare dell’UE e il quadro normativo per i prodotti di questa categoria può variare in modo significativo da un Paese all’altro e tra prodotti diversi, così come la possibilità di commercializzare versioni alcohol free o a ridotta gradazione alcolica. Queste differenze diventano particolarmente evidenti soprattutto in tema di etichettatura e di denominazioni di vendita autorizzate: mentre la possibilità di produrre (e commercializzare come tali) vini dealcolizzati è stata introdotta dalla più recente riforma PAC del 2021, ad oggi è vietato etichettare come gin, vodka o whiskey bevande che ne imitano il sapore ma che hanno un tenore alcolico ridotto. Grande attenzione viene data nello studio proprio al tema dell’etichettatura, sul quale sarà necessario lavorare per garantire maggior chiarezza a consumatori e operatori, senza trascurare le istanze di chi vuole tutelare le produzioni tradizionali di bevande alcoliche, per le quali l’Europa è celebre in tutto il mondo.

“Guardando all’UE nel suo complesso – spiega Enrica Gentile, Project Manager per il progetto UE svolto da Areté, il mercato delle bevande “low/no alcohol” diverse dalla birra è ancora in una fase iniziale di sviluppo in tutti i Paesi membri, e le relative dinamiche sono ancora in grande evoluzione, ma le attese per i prossimi anni sono di crescite complessive a due cifre, in particolare per vino e alcolici. In questo contesto, sono di grande importanza l’innovazione tecnologica e di prodotto, ma anche la possibilità di avere un quadro normativo chiaro, a beneficio di consumatori e operatori”.

L’etichettatura di queste bevande pare essere lo snodo centrale della discussione, tema sul quale l’Unione Europea può avere diversi strumenti di intervento, ad esempio fornendo regole comuni per l’uso di locuzioni quali “analcolico” o “a bassa gradazione” nella comunicazione di prodotto e cercando (assieme ai diversi portatori di interessi) soluzioni efficaci per descrivere queste bevande.

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