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Alimentazione e salute, gli italiani cercano lumi sul web, le aziende latitano

È sempre più il web il consigliere, confidente ed oracolo al quale rivolgersi prima di effettuare un qualsiasi acquisto, e questo è vero anche per i consumi alimentari. Lo stabilisce Bem Research in un’analisi sulle ricerche ottenuta analizzano Google, il motore di ricerca più utilizzato. Perché analizzando ciò che le persone cercano, si possono cogliere bisogni e necessità dei consumatori italiani. Magari non sempre espresse nel punto vendita.
Dalle ricerche fatte dagli internauti sul tema dell’alimentazione emerge un Paese in cambiamento, con le esigenze che evolvono in base alle diverse fasi della vita e alla maggiore diffusione di alcuni temi connessi con il cibo, tra cui anche le mode. Posto che l’alimentazione e la passione per la cucina è uno dei tratti che ha contraddistinto l’Italia degli ultimi 50 anni, vedere come le nuove generazioni italiani si interfacciano con i prodotti alimentari può fornire anche uno spaccato dell’attuale società.

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Alimentazione, la ricerca è “targhetizzata” e spazia in positivo e in negativo
Un primo elemento che emerge dall’analisi sulle tendenze di ricerca sul web è che argomenti d’interesse simili possono esprimere bisogni diversi. Questo è per esempio il caso delle ricerche relative alle parole chiave “alimentazione” e “alimenti”. Generalmente orientate a trovare informazioni utili, in primo luogo, al proprio benessere fisico. A seconda della fase di vita che si sta attraversando, o dei bisogni più avvertiti al momento, la ricerca si amplia poi di argomenti più specifici, come ad esempio “alimentazione quando si allatta”, “alimentazione quando si va in palestra”, “alimentazione quando si ha colite”, ecc…

Gli argomenti più cercati sul web
Fonte: Google Trends

1. Dieta
2. Calorie
3. Glutine
4. Colesterolo
5. Integratori
6. Valori nutrizionali
7. Yogurt
8. Proteine
9. Peso ideale
10. Celiachia
11. Tonno
12. Trigliceridi
13. Carboidrati
14. Grassi

Alimentazione, dunque, va a braccetto con tematiche quali dieta, calorie, glutine, colesterolo e integratori.
Questo è vero non solo in positivo però, con la ricerca di alimenti “buoni” (tipo lo yogurt) o miracolosi “superfoods” (una moda che però forse da noi non ha ancora preso così piede come nei Paesi anglosassoni), ma anche in negativo, con la ricerca di maggiori informazioni su prodotti alimentari “a rischio” per problematiche salutari ma anche etiche (forse in quest senso va interpretata la presenza di tonno, specie a rischio per la pesca intensiva). In questa categoria vanno inserite le ricerche di prodotti alimentari senza olio di palma. Il termine “olio di palma” infatti, inizia a far parlare di sé in modo evidente solo alcuni anni fa (intorno al 2011, anche se in alcuni forum ad esempio di mamme se ne parlava già da molto prima) e ad oggi è sempre più frequente trovare prodotti alimentari che sul proprio packaging esplicitino il “senza olio di palma” in modo chiaro ed evidente. Ivi compersi prodotti che non hanno mai utilizzato questo tipo di grasso vegetale.
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Nuovi stili di vita, frenetici e veloci ma anche gourmand
La passione per la cucina e per le ricette in generale è una caratteristica che accomuna un grande fetta di italiani. Sono innumerevoli i siti web, blog e applicazioni mobile dedicati alle ricette, segno del forte interesse sul tema, confermato anche dall’attenzione che i molti programmi televisivi dedicati alla cucina riscontrano presso il grande pubblico.
Analizzando la tipologia di ricerche correlate a “ricette”, si riscontra qualcosa di più dei semplici gusti degli italiani. Il cambiamento dello stile di vita influenza anche il rapporto con il cibo, tant’è che rispetto a pochi anni fa sono aumentate notevolmente le ricerche relative a “ricette veloci”, ad evidenziare, da un lato, come la vita frenetica abbia riflessi anche in cucina e, dall’altro, come in ogni caso non si voglia rinunciare a mangiare qualcosa di buono nel poco tempo che oramai si ha a disposizione.
Insieme alle ricerche di “ricette veloci” e sue correlate (per esempio, per citarne solo alcune più indicative e stagionali, “ricette veloci pasta”, “ricette facili e veloci”, “ricette light veloci”, “ricette veloci estive”, “ricette veloci per cena”) è in aumento anche l’interesse per un’altra modalità di cucinare in modo rapido, che implica un ulteriore uso della tecnologia rispetto alla sola consultazione del web. La diffusione dei robot da cucina, di cui il Bimby, prodotto dalla tedesca Vorwerk, è al momento lo strumento più conosciuto e apprezzato dai consumatori italiani, ha indotto molti a cercare online il termine “ricette bimby”.

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Opportunità per lo più sprecate: la Case history olio d’oliva

Il web insomma offre opportunità per il settore agroalimentare superiori a quelle di altri settori. Ma non sempre le aziende dell’agroalimentare e della distribuzione moderna sono pronte a coglierle.  Se in alcuni comparti produttivi è spesso necessario un forte sforzo di creatività per attirare l’interesse dei consumatori, per chi si occupa di cibo sono innumerevoli le possibilità “naturali” di fornire informazioni originali e accattivanti con sforzi sufficientemente contenuti.

Bem Reserch prende ad esempio i produttori di olio d’oliva, uno dei prodotti di punta del settore agroalimentare italiano. Quali informazioni potrebbe mettere a disposizione del consumatore un sito web di un’azienda? Numerosissime, dalle caratteristiche organolettiche, al tipo di consumo in base alle diverse esigenze e bisogni, alle ricette che valorizzino l’olio d’oliva. Ciò permetterebbe di attirare visitatori e potenziali acquirenti, sia dall’Italia che dal resto del mondo.

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Amazon e Alibaba, il rischio di lasciare i Big Data in mano ai big…

Interessanti in questo senso sono le recenti iniziative volte a favorire il commercio online dei prodotti tipici italiani da parte dei “re” dei marketplace digitali, Amazon e Alibaba. L’americana Amazon, con la sua vetrina sui prodotti italiani, e la cinese Alibaba, con il recente accordo sottoscritto con il Ministero delle Politiche Agricole nato sia per contrastare la contraffazione sia per promuovere il Made in Italy sulla piattaforma cinese che conta oltre quasi mezzo miliardo di consumatori, sono iniziative che dovrebbero indurre in qualche ulteriore riflessione. “Se da un lato queste piattaforme offrono grandi vantaggi, come quello di potersi interfacciare con milioni e milioni di potenziali acquirenti senza l’incombenza di gestire una logistica a livello planetario, dall’altro gli operatori italiani vedono sottrarsi un importante valore della compravendita – spegano da Bem Research – . Non ci riferiamo soltanto alle commissioni di vendita, alcune volte non proprio trascurabili, ma ancor più alla raccolta delle informazioni sui consumatori. I dati su chi ha acquistato sono infatti gestiti dai marketplace digitali, che poi tipicamente li utilizzano con applicazioni nel campo dei big data per profilare la clientela ed offrire in futuro altri prodotti, che non necessariamente potrebbero essere italiani. In altri termini, facendo esclusivo ricorso a questa piattaforma si rischia di barattare delle vendite aggiuntive nel breve-medio termine con la possibilità di avere prospettive di crescita più solide nel lungo termine”.

Una possibile soluzione potrebbe essere quella di realizzare un grande portale italiano dedicato alla vendita online di prodotti agroalimentari italiani, in grado di vendere in mercati stranieri, che sia quindi multilingua ma ancor più multiculturale. Il Ministero delle Politiche Agricole e quello dello Sviluppo Economico potrebbero farsi promotori di tale. L’iniziativa, coinvolgendo in particolare la grande distribuzione nazionale, potrebbe creare un fronte per promuovere l’interesse comune dell’Italia.

Le imprese italiane che potrebbero unire le forze su questo fronte non mancano, e già ad oggi dimostrano un’ottima padronanza del web.

 

A ottobre non cambia il podio delle insegne con la migliore performance online

L’analisi di ottobre  sulle aziende che hanno la migliore performance online nel settore della grande distribuzione, il BEM Rank, emerge come in testa alla classifica si attestino tre imprese italiane, ovvero Ipermercati Iper, Esselunga e Coop.

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Greenpeace: il 77% dei consumatori disposti a pagare di più il pesce sostenibile

Quasi otto italiani su 10 sono disposti a pagare di più pur di consumare  pesce catturato con metodi di pesca sostenibili: lo rivela un sondaggio Ixè per Greenpeace. Anche sul pesce si gioca la battaglia dell’alimentazione sana e sostenibile, e di conseguenza della spesa degli italiani. Giudicato da un lato tra i cibi più sani perché fonte di proteine animali di altro profilo ma anche di grassi omega 3 in grado di calmierare il colesterolo, e dunque ottima alternativa a una carne in crisi e costante calo di consumo (vedi Come cambia la spesa degli italiani: su legumi, quarta gamma e riso, giù carne e uova), il pesce è anche sotto i riflettori per una pesca incontrollata che impoverisce i mari, ma anche per le preoccupazioni per le sostanze inquinanti del quale i mari sono ricchi, anche più che di pesci a volte. E i consumatori italiani lo sanno.
Secondo il sondaggio sul consumo di pesce commissionato da Greenpeace, il 77% degli intervistati italiani ha dichiarato di essere disposto a pagare di più il pesce pur di avere garanzie sulla sua sostenibilità e il 91% è pronto a modificare le proprie abitudini alimentari per ridurre lo sfruttamento eccessivo delle risorse ittiche e tutelare il mare.

infografica_consumo_pesce«Il sondaggio evidenzia che, se correttamente informati e sensibilizzati sull’importanza di acquistare pesce in modo responsabile, i consumatori possono spostare il mercato verso forme più sostenibili di consumo – ha detto Serena Maso, Campagna Mare di Greenpeace Italia -. Considerato lo stato drammatico in cui versa il Mediterraneo, per invertire la rotta è necessario dare maggior valore a una risorsa preziosa come il pesce, ridurne il consumo ed essere più attenti e responsabili quando si va a fare la spesa».

Il sondaggio, condotto un campione di oltre 1.000 intervistati per ciascun Paese oggetto dell’indagine (Italia, Spagna, Grecia), ha analizzato le abitudini, il grado di conoscenza e la sensibilità dei consumatori rispetto all’acquisto di pesce, sia in casa sia al ristorante. L’analisi rivela che quasi la metà degli intervistati italiani mangia pesce almeno una volta alla settimana e lo acquista prevalentemente nei supermercati.

 

Attenti sì, ma non leggono l’etichetta

Non mancano le contraddizioni però. Pur ritenendo importante informarsi sulla qualità e la provenienza del pesce, solo il 28% dei consumatori è al corrente dell’esistenza della nuova normativa sull’etichettatura del pesce fresco (vedi Arrivano le guide di GS1Italy Indicod-Ecr per la tracciabilità e l’etichettatura di carni e pesce) mentre solo l’11% sa che è obbligatorio indicare in etichetta anche la categoria degli attrezzi da pesca utilizzati: un’informazione fondamentale, che consente ai consumatori di poter scegliere il pesce pescato con attrezzi artigianali e che hanno un basso impatto sull’ambiente. Per questo motivo Greenpeace ha lanciato un nuovo sito per aiutare i consumatori a comprare pesce in modo responsabile: fishfinder.greenpeace.it

Un’altra problematica rilevata dal sondaggio è la scarsa varietà del consumo, limitato a poche specie ittiche (quali tonno, merluzzo, acciughe e pesce spada), spesso fortemente in declino proprio a causa di una pesca eccessiva e distruttiva.

«È evidente che le scelte dei consumatori dei prodotti della Pesca sono influenzate dall’attuale distorsione del mercato, invaso da prodotti ittici provenienti per lo più dalla pesca industriale e non sostenibile. Questo dimostra quanto sia importante informare adeguatamente i consumatori e dar loro tutti gli strumenti per fare scelte responsabili – continua Maso -. È ora che i rivenditori, dalla grande distribuzione alle piccole pescherie di quartiere, soddisfino le richieste dei consumatori e promuovano, come fanno per tanti altri prodotti alimentari e non, le filiere sostenibili anche per il pesce, valorizzando la pesca artigianale e sensibilizzando i consumatori».

In questi senso alcune catene si sono già mosse, come ad esempio Carrefour (vedi Carrefour Italia collabora con MSC per offrire prodotti ittici da pesca sostenibile). Ma, è evidente, si può fare molto di più, per educare il consumatore che, lo rileva il sondaggio, è attento al tema.

Walmart brevetta il carrello-robot, il futuro dello shopping è qui?

Walmart ha brevettato un carrello robot, che si guida da sé, riconosce la lista della spesa e calcola il giusto percorso tra gli scaffali, accompagna nello shopping anche i clienti anziani o disabili (anzi, fa la spesa al posto loro) e, in teoria, dopo che la spesa è stata caricata in auto si parcheggia da sé. Guidato da sensori e telecamere e, presumibilmente, dall’immancabile App su smartphone.

Duplice, apparentemente, lo scopo: liberare i clienti dall’incombenza della spesa e migliorare la shopping experience (o saltarla a piè pari, magari socializzando in caffetteria mentre il carrello fa tutto da sé) ma anche, utilizzati dai dipendenti, permettere loro di svolgere altri compiti, mentre i carrelli potrebbero rifornire gli scaffali o cercare articoli in magazzino.

“La potenzialità più interessante di questa tecnologia è al capacità data dai vari sensori del carrello di monitorare l’inventario dei prodotti la conformità con il planogramma, e in generale la pulizia e lo stato in cui si trova il punto vendita. La capacità di monitorare e mantenere una brand experience coerente ed omogenea in tutti i punti vendita è estremamente importante, ed è impagabile la capacità di avere un metodo unico per controllare l’inventario, le rotture di stock e la gestione degli scaffali” ha detto Adrian Weidmann, titolare di StoreStream Metrics a Retail Wire commentando la notizia.

Se l’innovazione avrà successo e se sia destinata a sfondare nella grande distribuzione in futuro dipenderà in grande misura dai costi. Ma che l’innovazione passi anche per un mezzo antico come il carrello, che fino ad oggi è rimasto pressoché immutato (al di là dell’uso di materiali quali plastiche riciclabili o riciclate) sembra possibile. In fondo, è il trait d’union finora ineludibile tra il cliente, la spesa e il punto vendita.

La coda alle casse? Auchan e Carrefour in Francia testano l’app salva-tempo

Si chiama JeFile (in inglese Out of the Line) l’app, semplice come l’uovo di Colombo, che consente di evitare la coda alle casse del supermercato. Una perdita di tempo verso la quale il cliente di oggi è sempre più insofferente, come mostrano molte ricerche (e la possibilità di acquistare online con consegna in un’ora gli stessi articoli, certo non aiuta alla sopportazione zen).

Il sistema è semplice, ed è in corso di test in Francia sia da Auchan che da Carrefour, come rileva il sito lineaires.fr: si carica l’app all’entrata (se non la si ha già nel telefono) e, quando si è prossimi a terminare la propria spesa, si manda una notifica. Dieci minuti prima del proprio turno arriva la prima notifica, e cinque minuti prima l’invito ad avviarsi verso la cassa riservata agli utilizzatori dell’app, dove il cliente precedente starà già pagando la sua spesa. Un altro sistema prevede che ci si metta in una fila virtuale e si controlli quando è il proprio turno: Atm Milano, ad esempio, lo utilizza per domare le bibliche code che si formano specie in certi periodi dell’anno all’ufficio abbonamenti. E in certi nostri supermercati il sistema è già utilizzato per gestire le code al reparto panetteria o gastronomia (non tramite smartphone però, in questo caso si prende il tradizionale biglietto).

jefileCertamente esistono altri metodi di saltare la fila, dall’e-commerce ai terminali tipo Presto spesa di Esselunga che consentono di inserire nel carrello digitale la spesa in corso, e accedere alle casse automatizzate con il conto già fatto. Lo stesso sistema può essere convogliato tramite app, e tramite smartphone si può oggi anche – teoricamente – pagare istantaneamente ed uscire senza passare dalla cassa: un sistema testato in UK da Sainsbury’s. In passato sono anche stati provati sistemi che grazie alla tecnologia RFID calcolano istantaneamente il costo della spesa nel carrello, un metodo più utilizzato nell’abbigliamento però per un problema di costi.

Questa testata in Francia è senz’altro ben più semplice, e può essere utilizzata senza dover implementare altri sistemi di cassa. È sufficiente un tablet sul quale un dipendente gestisce le code e un bluetooth che identifica il cliente nel momento in cui si avvicina alla cassa, che però deve essere riservata a chi utilizza l’app.

Robot fattorini: presto la spesa la porteranno a domicilio. E anche la pizza

Se vi doveste recare a Londra oppure a Brisbane, in Australia, e vi ritrovaste a passeggiare sul marciapiede accanto a uno strano veicolo semovente poco più grande di un tagliaerba, non vi allarmate: potreste esservi imbattuti nei primi esperimenti di “delivery robotizzato”. Che nei prossimi anni potrebbe rivoluzionare il settore delle consegne porta a porta al servizio di negozi, GDO, aziende di ecommerce e società di spedizioni espresse. L’idea è “semplicemente” quella di sostituire – o quanto meno affiancare – gli attuali servizi di consegna tramite furgoni, auto e motorini con piccoli robot elettrici a guida autonoma, in grado di offrire la massima flessibilità e notevoli risparmi sui costi del personale.

Robot veloce, scattante ed economico

La startup britannica Starship Technologies, uffici a Londra e a Tallin in Estonia, ha da poco iniziato a sperimentare il servizio nel borgo reale di Greenwich, nella capitale britannica, con il beneplacito delle autorità locali: i suoi piccoli mezzi a sei ruote, dotati di uno scomparto interno refrigerato, consegnano alimentari, plichi e pacchi direttamente al domicilio del destinatario, muovendosi in sicurezza per le strade cittadine senza necessità di controllo da parte di un operatore umano. Anima del progetto è Ahti Heinla, già fra i co-fondatori di Skype e oggi CEO e CTO della società fondata insieme con Janus Friss con l’obiettivo di “realizzare per le consegne a domicilio ciò che Skype ha fatto nel mondo delle comunicazioni”. I suoi robot a basso costo (meno di 2mila dollari l’uno) saranno in grado – assicura – di effettuare consegne ai consumatori nel giro di 30 minuti, muovendosi sui marciapiedi a bassa velocità ed evitando ostacoli e persone senza alcun rischio per i pedoni: considerato il ciclo di vita stimato, un robot verrebbe a costare meno di un dollaro a consegna. Gli articoli da consegnare vengono chiusi all’interno dello scomparto e possono essere prelevati solo dai legittimi destinatari digitando un codice ricevuto al momento dell’invio della spedizione.

“Forse nel giro di un paio di anni, guardando fuori dalla finestra, non vedremo tante auto ma un sacco di piccoli robot che porteranno alla gente ciò che vorrà e trasporteranno ciò che le persone non avranno più bisogno di andare a prendere”, sogna a occhi aperti il numero uno di Starship, che nel frattempo intende allargare la sperimentazione ad altre zone del Regno Unito a agli Stati Unti.

Domino Pizza e il suo prototipo

Sempre sotto la corona britannica ma a migliaia di chilometri di distanza, Il colosso globale della pizza a domicilio Domino Pizza intende applicare lo stesso concetto nell’ambito del proprio business. Il DRU (Domino’s Robotic Unit) è un veicolo a quattro ruote, anch’esso driverless, progettato dal DLAB, il laboratorio innovativo di Domino Australia in collaborazione con la startup Marathon Robotics: il CEO della locale filiale del colosso globale della pizza, Don Meij, ha spiegato che il prototipo ha già condotto con successo una serie di test di consegna di pizze ai clienti in un limitato numero di strade di Brisbane grazie a una speciale autorizzazione del Dipartimento dei Trasporti del Queensland, operati in modalità semi-autonoma. Anche se lo stesso manager non si attende di poter affidare le normali consegne ai DRU in tempi brevi, sebbene ulteriori prove potrebbero essere condotte a breve in Nuova Zelanda grazie a un accordo con il governo: “E’ una lunga strada, monitoreremo costantemente ogni possibile complicazione. Il DRU dovrà essere sempre, prima di tutto, sicuro”, ha chiarito.

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Il robot di Domino Pizza è dotato di due scomparti interni, uno riscaldato per le pizze e uno refrigerato per le bibite; quando arriva al domicilio del cliente, quest’ultimo può aprire il portello e accedere ai due scomparti digitando anche in questo caso un codice fornito da Domino al momento della conferma dell’ordine telefonico, via internet o tramite app. Con un peso di 190 chili, raggiunge una velocità di 18-20 chilometri orari; il sistema di guida autonoma consente al DRU di destreggiarsi fra marciapiedi, ponti e cassonetti della spazzatura a bordo strada. L’autonomia di servizio, fra una carica della batteria e l’altra, è di circa 20 chilometri, ma i futuri sviluppi del progetto potrebbero sfruttare energia solare o altri sistemi rinnovabili. Ogni DRU ha un costo di circa 30mila dollari australiani (quasi 20mila euro), dovuto principalmente alla tecnologia sviluppata da Marathon Robotics sulla base di quelle impiegate nei robot utilizzati in ambito militare. Secondo Meij, i robot non potranno comunque eliminare totalmente il fattore umano nel delivery, soprattutto in situazioni complesse come le consegne nel traffico dell’ora di punta.

I colossi del web oltre i droni

Ai “delivery robot” pensano anche Google e Amazon, che da tempo sperimentano la possibilità di impiegare droni per le consegne a domicilio. Nel caso dei due colossi Usa, i robot consentirebbero di superare la principale problematica legata ai droni: se questi presentano indubbi vantaggi in termini di velocità e distanze copribili (il progetto Amazon Prime Air prevede un raggio d’azione di 16 km), resta da capire come far avere in sicurezza i pacchi ai destinatari evitando interferenze con cavi elettrici, lampioni e soggetti “a rischio” come bambini e animali domestici. Di qui l’idea, sviluppata da Google a margine del programma “Project Wing”, di affidare l’”ultimo miglio” ai robot a terra, ai quali i droni “passerebbero” la merce in luoghi prestabiliti, in maniera completamente automatizzata. Un sistema complesso che garantirebbe sì notevoli vantaggi economici ma che difficilmente potrà trovare applicazione in tempi brevi.

Uber: da taxi a corriere

Decisamente più vicino potrebbe essere lo sbarco in Europa (a partire dal Regno Unito) del servizio di delivery di Uber, che dopo essersi proposta come alternativa ai taxi per il traporto di persone ha lanciato in alcune città degli Stati Uniti UberRush, che si pone invece in concorrenza ai tradizionali corrieri. L’apporto della tecnologia, in questo caso, sta nell’app per smartphone che consente all’utente di mettersi in contatto con un autista per spedire o farsi recapitare merci. A questo potrebbe aggiungersi UberEats, anch’esso operativo in diverse città del Nord America, per la consegna di cibo a domicilio dal proprio ristorante preferito. Anche se al momento non c’è nulla di definito, Carlo Tursi, dallo scorso anno country manager di Uber per l’Italia, ha già detto di voler introdurre i due servizi nel nostro Paese. In attesa di droni e robot, il futuro del delivery passa da un’app.

di Stefano Fossati

Istat: a maggio calano le vendite di alimentari, e ora soffrono anche i discount

Vendite in calo a maggio, e a soffrire sono soprattutto gli alimentari: è quanto evidenziano i dati Istat sul commercio al dettaglio, che registrano una flessione del -1,3% rispetto a maggio 2015 nelle vendite a valore, con l’alimentare a -1,8% e il non alimentare a -1,0%. Dall’inizio dell’anno le vendite complessivamente segnano un +0,3% a valore sullo stesso periodo dell’anno precedente. Rispetto ad aprile 2016 le vendite al dettaglio registrano un incremento congiunturale dello 0,3% in valore e dello 0,2% in volume (+0,3% in valore e +0,1% in volume per gli alimentari e +0,3% sia in valore sia in volume per i non alimentari).

Nella media del trimestre marzo-maggio 2016, l’indice complessivo delle vendite al dettaglio in valore registra un calo congiunturale dello 0,3%. L’indice in volume diminuisce dello 0,4% rispetto al trimestre precedente.

Come rileva un’analisi della Coldiretti sugli stessi dati, le vendite crollano anche nei discount alimentari, che dopo anni di crescita invertono la tendenza e fanno segnare una riduzione dello 0,2%. “Le vendite dei prodotti alimentari si riducono in tutte le tipologie distributive, dagli ipermercati (-2,5%) ai supermercati (-1,4%), ma a registrare un vero tonfo sono le piccole botteghe alimentari (-3,2%). Si tratta – sottolinea una nota della Coldiretti – dei devastanti effetti della deflazione che si evidenzia particolarmente in campagna, dove le quotazioni per il grano sono praticamente dimezzate rispetto allo scorso anno, ma difficoltà si registrano anche negli allevamenti con il latte pagato ben al di sotto dei costi di produzione”. 

Non sembra più ottimista Federdistribuzione. «Il dato di maggio conferma le nostre preoccupazioni espresse ormai da molto tempo: siamo lontani da segnali stabili di ripresa dei consumi, con dati altalenanti nei mesi e che complessivamente indicano una dinamica molto debole – commenta il presidente Giovanni Cobolli Gigli – Particolarmente significativo è il calo delle vendite di prodotti alimentari (-1,8% a valore e -2,0% a volume), segno che la situazione economica e il generale clima di incertezza sul futuro frenano gli acquisti anche nella spesa dei prodotti essenziali.

Un quadro che, secondo l’associazione delle aziende della distribuzione moderna, non è destinato a migliorare nei prossimi mesi estivi, per due motivi: la debolezza della domanda interna ma anche il confronto con un 2015 particolarmente dinamico, conseguenza non solo dei fattori metereologici ma anche della spinta di Expo 2015, tanto che “una previsione realistica delle vendite al dettaglio per il 2015 potrebbe dunque essere vicino a una “crescita zero”“.

«Ma con questa evoluzione dei consumi lo sviluppo del Paese è a rischio, come testimoniano anche gli allarmanti dati di maggio della produzione industriale e degli ordinativi comunicati oggi dall’Istat. D’altra parte è del tutto comprensibile la difficoltà del settore industriale, di fronte a un mercato internazionale in frenata e a una domanda interna che non c’è – continua Cobolli Gigli -. La priorità deve essere la ripresa dei consumi, e su questo chiediamo sforzi ulteriori al Governo, chiamandolo a dare segnali di discontinuità con il passato sulle riforme per fornire più certezze sul futuro e a lavorare per aumentare il potere d’acquisto delle famiglie e per semplificare e agevolare l’attività d’impresa».

 

Cento anni di italiani a tavola, fotografati da Coop: e il futuro è veg e local

Foodie sì, ma sui prodotti locali, del territorio, piuttosto che interessati ai sapori etnici; nazionalisti nelle grandi occasioni (il calcio, le calamità geopolitiche che coinvolgono connazionali) ma profondamente legati al proprio “orticello”, regione o comune che sia; in generale, sempre più attenti a consumi alimentari “salutari”, con un interesse crescente per i regimi vegetariani. Sono gli italiani fotografati da Coop sul nuovo sito www.italiani.coop consultabile liberamente. Una serie di flash su consumi e abitudini nazionali risultate dall’Ufficio Studi Coop che ha elaborato i Big dati rilevati dai principali istituti di ricerca, quali Istat, Eurobatrometro, Fao, Nielsen, Doxa, Pew Research Center, con il supporto scientifico di Ref Ricerche.

Da contadino a vegan, e ritorno: cento anni di consumi alimentari
Sei quello che mangi, dice un noto adagio, e, considerando quanto è cambiata la società italiana negli ultimi cento anni, è facile immaginare quanto siano anche cambiati i consumi alimentari. Un quadro ce lo dà proprio Coop, che rivela come nell’ultimo secolo l’italiano medio si sia trasformato da povero, sottonutrito, analfabeta e contadino (nel 1901 la spesa annua procapite era pari a 1600 euro annuali, un decimo di oggi) ad agiato ipernutrito. Da popolazione cresciuta a pane legumi e vegetali e pochissima carne (nel primo decennio del secolo ne mangiavamo 15 chili procapite all’anno contro gli oltre 200 chili di pasta e pane) ai figli del boom economico cresciuti a proteine (con la carne dagli anni ’60 agli ’80 aumenta di 20 chili procapite). Risultato: oggi il 59% della popolazione è sovrappeso e il 21% è obeso.

Schermata 2016-07-11 alle 15.14.27Schermata 2016-07-11 alle 15.14.18Però nelle scelte alimentari iniziano a prevalere la salute e la ricerca del benessere, e si impongono nuovi stili di consumo, tra i quali quello naturale e quello con un ridotto o nullo apporto di proteine animali. Rispetto ai colleghi europei, gli italiani sono particolarmente sensibili ai contenuti di freschezza e naturalità dei prodotti alimentari (si dichiarano tali il 62% del campione a fronte di una media Ue del 51%). Un divario che esplode, con quasi 20 punti di differenza, nell’importanza attribuita alla sostenibilità ambientale dell’azienda o del prodotto (It 83 e 81% di preferenze vs Eu 66 e 64%). Insomma, mangeremo più carboidrati, formaggi, frutta e verdura e meno carne, pesce e dolci. E le paure maggiori sul forte alimentare sono la manipolazione e l’inquinamento ambientale.
Infatti, se un anno fa il 13% degli italiani affermava di consumare abitualmente prodotti vegan, il 49% già immaginava che i propri consumi sarebbero cambiati in quella direzione nei decenni successivi. E proprio alla tavola gli italiani destinano quote consistenti dei consumi procapite, registrando la più alta spesa procapite alimentare d’Europa (superiore di ben 20 punti percentuali alla media europea).

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Le preferenze poi vanno ai prodotti local (30%) piuttosto che al cibo global (18%) perchè gli italiani hanno più fiducia nei prodotti del territorio e sperano nelle ricadute locali delle loro scelte di consumo. Nella media europea invece è l’approccio global a risultare vincente (25% vs 23%). Il quadro dunque è quello di un popolo ancorati ad una identità micro territoriale (lombardi, umbri, campani e persino leccesi, livornesi, catanesi, veronesi), che diventa “italiano” solo nelle grandi occasioni.
Non solo. L’ex popolo di santi, poeti e navigatori ha decisamente cambiato le sue priorità anche in fatto di impiego. Per la professione del domani, la maggioranza dei nostri connazionali preferirebbe occuparsi di Information Technology (come gli europei che però distacchiamo di 4 punti: 11 vs 7). Ma al secondo posto c’è l’educazione e la formazione (+3 punti su media Eu dove comunque questo campo ricopre il secondo posto) e al terzo Ospitalità e turismo (+2 su Eu). I manager che in Europa sono anche loro al secondo posto, in Italia sono al quinto e i finanzieri che in Europa figurano al terzo posto a pari merito con altre professioni, in Italia scendono al settimo. Da registrare che agricoltura, cibo e risorse naturali conquistano il 5% delle preferenze vs il 3% europei. In sostanza meno finanza e più tecnologia, ci immaginiamo meno manager e più nerd, persino più agricoltori.

Amazon Prime a Milano consegna Unes e NaturaSì in un’ora, puntando su bio e fresco

Doveva succedere, ed è successo: Amazon si allea con due insegne storiche della grande distribuzione come U2 Supermercati e NaturaSì, specialista in biologico, e promette la consegna dei loro prodotti in un’ora. Per ora a Milano, testa di ponte della strategia dell’azienda di Jeff Bezos in Italia.
Alla selezione di prodotti disponibili con Prime Now, oltre 20.000 referenze, si arricchirà dunque di oltre 6.000 articoli.

Tra i nuovi arrivi, i clienti troveranno un’ampia scelta di prodotti freschi in vendita nei supermercati U2 e NaturaSì, con la possibilità di ricevere quanto acquistato in un’ora o in una finestra a scelta di 2 ore in 49 codici di avviamento postale di Milano e hinterland. Una scelta non casuale, sembrerebbe, quella delle due insegne. NaturaSì è la più importante catena di supermercati specializzata nella vendita di prodotti biologici e conta 215 punti vendita affiliati in Italia e 2 in Spagna, e dispone già tra l’altro di un suo servizio di spesa online. U2/Unes, presente in Lombardia, Piemonte ed Emilia Romagna con oltre 190 punti vendita tra diretti e franchising con tre principali insegne, proporrà anche i prodotti della private label d’alta gamma Il Viaggiator Goloso. E poi c’è il fresco. Ma soprattutto, la consegna in un’ora, un servizio che ad oggi nella Gdo solo Amazon può assicurare, e quando si tratta di spesa last-minute proprio questo potrebbe fare la differenza.

Una strategia sottolineata da Mariangela Marseglia, EU Director Prime Now: «L’accordo con Unes e NaturaSì rappresenta un importante passo avanti nello sviluppo del servizio Prime Now, consentendoci di ampliare ulteriormente la gamma di prodotti offerti e allo stesso tempo di estendere anche ai clienti dei brand, U2 e NaturaSì, la possibilità di beneficiare del servizio di consegna in un’ora. Puntiamo a estendere Prime Now, attualmente disponibile a Milano e hinterland, anche in altre città, stringendo accordi simili con altri distributori a livello locale».

240e22e0-2748-4dd6-9aa8-d74b1a318595__MLe insegne, da parte loro, hanno deciso di affidarsi alla logistica di Amazon come leva di differenziazione strategica. «L’accordo odierno ci consente di raggiungere un traguardo significativo nell’ambito della nostra strategia di innovazione, così come nel miglioramento dei servizi ai nostri clienti, su cui da tempo siamo impegnati – commenta Mario Gasbarrino, Amministratore Delegato Unes –. Grazie ad Amazon, i nostri clienti oggi possono acquistare i nostri prodotti in qualsiasi momento e farseli consegnare dove preferiscono, a tempo record. In questo modo anche chi non ha un supermercato U2 vicino casa, può accedere a tutta la nostra selezione di prodotti, inclusi i nostri marchi “U! Confronta e Risparmia” e “Viaggiator Goloso”. Grande enfasi sarà data ai prodotti freschi che rappresentano per i nostri clienti uno dei principali motivi di fidelizzazione. Grazie ad un partner come Amazon, con il quale condividiamo la centralità del cliente, vogliamo offrire un servizio semplice, innovativo e veloce ad un numero sempre maggiore di consumatori».

edfdbe2d-7199-4890-89e3-b98160108b27__M«Grazie alla collaborazione con Amazon possiamo offrire ai nostri clienti l’opportunità di vivere il bio in modo facile, innovativo e da oggi anche ultra-rapido – spiega Roberto Zanoni, Direttore Generale di NaturaSì –. Il servizio di consegna veloce, anche dei freschi, permette a chi non può recarsi in negozio di ricevere la spesa bio di NaturaSì a casa propria in poco tempo. Per tutti coloro che apprezzano la consegna pratica e veloce a domicilio, l’accordo tra Amazon e NaturaSì permette di portare in tavola prodotti attenti al benessere, ma anche all’ambiente e al territorio in cui viviamo».

Ormai, si può ben dire, nessun dorma, sulla spesa online

 

Tutto tramite App

Caricando sul proprio smartphone o tablet l’app Prime Now, disponibile per dispositivi Apple (iOS) e Android, i clienti Prime possono verificare la disponibilità del servizio a casa propria o nel punto scelto per la consegna immettendo il CAP e attendendo la notifica dall’applicazione. La verifica può essere inoltre eseguita vistando la pagina web www.amazon.it/primenow.

Quando viene effettuato un ordine tramite Prime Now, i clienti creano liste di spesa separate in relazione al negozio di riferimento: Amazon, U2 o NaturaSì. Per completare l’acquisto è richiesto un ordine minimo di 19 euro per negozio. La scelta è tra la consegna a casa in un’ora al costo di 6,90 euro, o la consegna gratuita in una finestra di 2 ore a scelta. I prodotti di Amazon e U2 vengono consegnati dalle ore 8 alle 24 tutti i giorni della settimana, quelli di NaturaSì dal lunedì al sabato dalle 10 alle 20.

 

 

Multicanalità e mobile: in Italia una realtà, sono 20,5 milioni gli e-shopper

Una shopping experience profondamente mutata dall’uso del mobile e da un approccio multianale: questo è emerso dalla ricerca Shopping (R)evolution, nona edizione del Convegno dell’Osservatorio Multicanalità promosso da Nielsen, School of Management del Politecnico di Milano e Connexia, in sinergia con Hubility.

Dalla ricerca emerge un’Italia multicanale, dove il 60% della popolazione al di sopra dei 14 anni di età perfeziona il processo di acquisto attraverso un mix di touchpoint tradizionali e digitali: i comportamenti si sono evoluti e i consumatori italiani sono ormai abituati a vivere il processo di acquisto in un ambiente unico, composto da una molteplicità di canali cui attingere. Tra questi, però un dispositivo emerge come emergente, e che sembra imporsi sempre più: oggi il 63% degli utenti Internet si connette al web da smartphone. Un dato in crescita che registra un +43% rispetto al 2012. Crescono anche gli utenti che utilizzano il tablet per accedere al web (+14 % rispetto al 2012) e diminuiscono gli accessi da pc (-15% sul 2012).

La ricerca distingue poi due tipi di “navigatori”: gli InfoShopper e gli eShopper. Gli InfoShopper rappresentano quegli individui che utilizzano touchpoint digitali unicamente per ottenere informazioni su prodotto e/o marca. Parliamo di 11 milioni di italiani, che formano il 35% degli Internet Users e si caratterizzano per il grado di “diffidenza” verso l’utilizzo del digitale per finalizzare transazioni online. Gli eShopper sono invece coloro che utilizzano la rete sia per informarsi sia per effettuare acquisti, che prediligono il web al punto vendita fisico e che, nel 2016, rappresentano 20,5 milioni di italiani, pari al 65% degli utenti internet.

«Dalla ricerca emerge un’Italia molto più evoluta e multicanale rispetto al percepito di aziende e istituzioni – dice Cristina Papini, Director Nielsen –. Per 31,5 milioni di italiani Internet è centrale nel customer journey: 20,5 milioni lo utilizzano lungo tutto il processo d’acquisto. Siamo a un punto di svolta nel quale il ruolo del digitale assume connotazioni e intensità diverse nelle varie categorie di prodotto e tra i segmenti di consumatori individuati. Se non stupisce che il 92% degli eShopper ha acquistato viaggi online e il 72% ha speso online oltre la metà, nell’abbigliamento e accessori – in cui l’aspetto sensoriale e l’auto appagamento sono elevati – troviamo un nutrito 66% di acquirenti Internet e un più contenuto 14% che sviluppa online oltre il 50% del valore».

 

Il punto vendita? Lo si vuole iperconnesso e hub multicanale

In questo scenario, quali sono le aspettative dei consumatori in relazione al punto vendita e alle piattaforme di e-commerce? Nel Largo Consumo, l’aspettativa è per l’avvento di un negozio iperconnesso, all’interno del quale sia possibile testare nuovi prodotti e ordinare online quelli non disponibili. Ciò che i consumatori più avanzati si attendono sono offerte immediate e personalizzate, casse self-service, controlli rapidi per verificare la disponibilità del prodotto, garanzia di WI-FI all’interno dello store e assistenti alle vendite in grado di accettare pagamenti in mobilità, senza dover necessariamente passare dalla cassa.

Per quanto riguarda le categorie di prodotti del Largo Consumo ritenute maggiormente affini all’acquisto online, al primo posto ci sono i prodotti per l’igiene della casa (71%), seguiti dai prodotti per la cura della persona (72%), dagli alimenti per animali domestici (65%), dai prodotti per l’infanzia (64%) e, per finire, dagli alimenti confezionati (55%).

Il quadro che emerge da Shopping (R)evolution evidenzia quindi come sia in corso una vera e propria rivoluzione nel mondo del business, dovuta principalmente all’ingresso di digital e mobile nelle logiche e nelle dinamiche di consumo. Il tessuto sociale ed economico appare profondamente permeato dal fattore multicanalità, e i trend evidenziati sono in rapido e costante aumento.

«La Ricerca 2016 fotografa una situazione in cui, da un lato, il consumatore italiano più evoluto dà sempre più per scontata la multicanalità, dall’altro la competizione tra le aziende si sposta in modo decisivo sulla capacità di progettare esperienze di marca seamless e personalizzate – commenta Giuliano Noci, Professore Ordinario di Marketing Politecnico di Milano –. Ingrediente fondamentale per tale processo sarà, in modo crescente, la capacità di raccogliere ed elaborare informazioni generate dal consumatore, ma anche dal contesto competitivo, non tanto in ottica di big data, ma secondo una prospettiva di smart data. Le implicazioni per le imprese sono quindi profonde: si assisterà progressivamente a una ridefinizione dei modelli di business attuali, verso una configurazione in cui la capacità di generare intelligence, anche e soprattutto granulare, diverrà il fattore critico di successo per tutte le attività di marketing, di comunicazione e di gestione della relazione con il cliente, attuale e potenziale».

Ripresa alimentare: confezionato a 18 miliardi, trainato da bevande, caffè e prodotti vegetali

Cambia il consumatore, che esce sì dalla crisi ma trasformato nelle sue abitudini di acquisto, e cambiano i consumi. Una conferma viene dai dati appena rilasciati da Aiipa, Associazione Italiana Industrie Prodotti Alimentari: nel 2015 ha superato i 18 miliardi di euro di fatturato, in aumento del 2,7% sul 2014, l’alimentare confezionato italiano, riunito nelle imprese associate. I settori interessati sono caffè, nutrizione e salute (alimenti per l’infanzia e integratori), surgelati, prodotti vegetali (succhi, conserve, confetture, IV gamma) e alimentari (tè, spezie, snack) e preparazioni alimentari (brodi, salse, preparati per dolci e gelati e per panificazione). Cresce la loro incidenza (pari al 14%) sul giro d’affari sviluppato dall’industria alimentare italiana, fermo a quota 132 miliardi di euro come l’anno precedente.
In aumento anche le esportazioni, che hanno sfiorato i 5 miliardi di euro, con un incremento del +6,3% sull’anno precedente, in linea con gli ottimi risultati registrati dall’industria alimentare nel suo totale che ha toccato quota 29 miliardi.

 

Ripresa sì, ma moderata e “mirata”

Dove vanno i consumi alimentari degli italiani? Un quadro lo dà la ricerca di Nomisma “Prospettive di breve e medio termine per l’industria alimentare italiana” presentata all’assemblea Aiipa da Alessandra Lanza. Che ha parlato di “nuova normalità”, con consumi in ripresa ma una crescita più moderata rispetto al decennio pre-crisi. Bene in particolare si muovo alcuni settori come quello delle bevande.

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Nonostante ciò, “per arrivare ai valori pre-crisi sarebbero necessarie crescite a due cifre per anni, e questo non sta accadendo”.

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Cambiano i comportamenti di spesa e diminuiscono le quantità di alimentari per la grande maggioranza della popolazione, perché si assottiglia il ceto medio.

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Cambia anche il paniere, spinto in avanti dalla richiesta dei freschi e degli referenze più sofisticate, che combinano prodotto e servizio, in particolare dalla fascia dei consumatori alto spendenti.

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Va detto comunque che il settore alimentare è ben posizionato verso il consolidamento della ripresa, grazie anche alla ripresa della domanda interna.

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«Le specializzazioni produttive delle aziende associate AIIPA rappresentano una peculiarità nel panorama nazionale – ha sottolineato Marco Lavazza, Presidente di AIIPA – le capacità di affermarsi all’estero e la propensione agli investimenti in Ricerca e Sviluppo ne fanno un paradigma della migliore manifattura italiana. Occorre valorizzare ancora meglio le nostre produzioni e saper sfruttare l’opportunità che ci offre la richiesta crescente nel mondo di prodotti italiani di qualità. Se il commercio internazionale è fra le principali vie di crescita che dobbiamo seguire, è necessario ridare ossigeno alla domanda interna che stenta a ripartire».

 

Obiettivo: 50 miliardi di export entro il 2020

Sul fronte dell’export, l’obiettivo ambizioso, tracciato e condiviso con le Istituzioni, + di arrivare a 50 miliardi di valore di esportazione di prodotti agroalimentari italiani nel mondo, entro il 2020. Determinante sarà la capacità di contrastare fenomeni come la contraffazione e l’italian sounding, stimato ancora in crescita sui mercati internazionali per un valore che oltrepassa i 60 miliardi di euro. L’Unione Europea in questo contesto dovrà giocare un ruolo chiave dettando regole chiare e univoche valide per l’intero mercato unico.

Quanto al TTIP, il Partenariato trans-atlantico per il commercio e gli investimenti, l’accordo in fase di negoziato tra Europa e Stati Uniti oggetto di numerose polemiche, secondo Lavazza “è un’opportunità, a patto di salvaguardare le specificità italiane ed europee e di non svendere il nostro patrimonio”. Paolo de Castro, parlamentare europeo nella Commissione Agricoltura e Sviluppo Rurale “nonostante il quadro apocalittico gli USA sono per l’Ue un polmone enorme, con un saldo positivo import export di 100 miliardi di euro, di cui 6 miliardi per l’Italia,ma ormai sarà quasi impossibile cogliere la ‘finestra’ dell’amministrazione Obama, e presumibilmente se ne riparlerà nel 2020. E magari capiremo di aver person un’opportunità”.

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