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Anna Muzio

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Cassa istantanea con Rfid, l’avanguardia è dei minimarket giapponesi

Il supermercato con cassa istantanea, senza scanner? Sta nascendo in Giappone, grazie alla tecnologia Rfid che consente di leggere immediatamente il contenuto del cestino. Tutti a guardare Amazon Go a Seattle, che la cassa non l’ha ma poi pare non riesca a gestire più di 20 clienti alla volta, e intanto la prossima generazione di pagamenti veloci si sta sviluppando dall’altra sponda dell’Oceano, in Giappone. E non in location di lusso o ipertecnologiche, ma nei più umili convenience store, ovvero i minimarket per acquisti d’impulso o di passaggio, come Seven Eleven, il più noto, ma anche i concorrenti Lawson, Ministop, FamilyMart e Newdays che partiranno l’anno prossimo con il nuovo sistema. Con l’obiettivo di coprire tutto il Giappone entro il 2025.

Tecnicamente si tratta dell’utilizzo della tecnologia Rfid (radio frequency identification), tramite etichette più sottili di un millimetro, e legge automaticamente i codici senza la necessità di dover scansionare prodotto per prodotto, e nemmeno di togliere la spesa dal cestino. Tutte e cinque le insegne hanno deciso di usare lo stesso tipo di frequenza dei chip per semplificare le operazioni e facilitare il lavoro dei fornitori, e il Ministero dell’industria e del commercio si auspica che il sistema venga adottato da altri tipi di retailer, come super e ipermercati, e si è anche impegnato a favorire l’impiego tramite sgravi fiscali o sovvenzioni secondo Nikkei Asian Review.

Finora le etichette Rfid sono state usate per contenere informazioni quali la data di scadenza o la posizione sugli scaffali che possono essere “lette” in remoto. 

Sullo sfondo, causa o conseguenza che sia, la riduzione del personale (e dei costi operativi).

La salute nel piatto: secondo Nielsen per 4 italiani su 10 la dieta è stile di vita

Sempre più salute nei nostri piatti, al punto che un terzo di noi considera i “superfood”, ovvero i cibi a cui si attribuiscono effetti benefici per il corpo, quasi delle medicine, vere e proprie alternative ai farmaci. È quanto emerge dalla Global Survey di Nielsen, “Health Welness: food as medicine”, condotta su un campione di 30mila individui in 63 Paesi per cogliere i nuovi trend alimentari. Ebbene, l’Italia emerge come uno dei Paesi dove più forti sono stati i cambiamenti di abitudini in tal senso, e la dieta non è più solo un regime di consumo alimentare ma un vero stile di vita, come dichiara il 40% del campione.

 

La classifica dei superfood

Tra i dati più curiosi della ricerca, la lista degli alimenti salutari preferiti dagli Italiani. In testa ci sono yogurt (consumato regolarmente dal 59% del campione) e noci (49%), ma molto amati anche i fagioli (47%) come alternativa proteica rispetto alla carne (ciò che interessa quattro su dieci), il (46%) e il salmone (45%). È un caso il successo tutto nostrano della bacca di Goji, che seduce il 16% degli Italiani, quasi il triplo di Inglesi, Tedeschi e Spagnoli; il 68% del campione pensa addirittura che possa essere utilizzata a scopo curativo (multivitaminico naturale, sostegno al sistema immunitario, regolazione della glicemia). Il secondo superfood per reputazione salutista è la curcuma, spezia giudicata benefica dal 62% degli italiani. Il 27% consuma spesso anche il mirtillo.

Più in generale gli Italiani, interrogati su come intendano variare la propria alimentazione nei prossimi dodici mesi, rispondono per il 40% di voler assumere più frutta e verdura, per il 29% di voler ridurre il consumo di zuccheri e di dolciumi, per il 27% di ridurre il consumo di alimenti a elevato contenuto di grassi saturi e insaturi. Il 25% si propone di fare porzioni più piccole, e il 23% di mangiare meno spesso, il 22% pensa di mangiare meno carboidrati, il 20% di mangiare più riso e cereali, il 19% di assumere più superfood. Solo un quarto del campione, il 25%, non ha alcuna intenzione di modificare le proprie abitudini alimentari. Un dato inferiore a quello di altri Paesi come Francia (35%), Gran Bretagna (36%) e Germania (39%).

 

Etichette in primo piano

Il 42% degli Italiani vorrebbe ricevere maggiori informazioni sulla salubrità dei prodotti. Da questo punto di vista fondamentale è il ruolo delle etichette nutrizionali, lette dal 48% del campione e che per il 34% di esso è il principale fattore di scelta. Seguono le indicazioni salutistiche (28%), i siti web specializzati (21%), famigliari e amici (21%), professionisti (20%), stampa (20%), programmi tv (14%), cartelli nei negozi (14%) e blog per consumatori (10%). I consumatori vorrebbero trovare più facilmente prodotti salutistici, in particolare nella Gdo: il 32% degli intervistati dichiara di avere difficoltà ad acquistarli nella propria zona, più di quel 30% che invece è soddisfatto dell’assortimento, un dato in linea con gli altri grandi Paesi europei.

Malgrado la grande attenzione alla salute in tavola, il 51% del campione è favorevole a uno “sgarro” ogni tanto e il 68% utilizza lo zucchero anche se in quantità modeste. Sta però prevalendo l’idea che anche lo snack debba essere salutare: il 31% sceglie frutta e verdura, mentre il 36% ancora si accontenta di uno spuntino dolcificato artificialmente. Quanto alle bevande, molto apprezzati sono i dolcificanti alternativi: il 42% sceglie la stevia, il 37% i dolcificanti artificiali. Il 17% vuole comprare più acqua naturale, il 13% più succhi di frutta cento per cento, il 28% vuole bere meno bibite gasate e il 27% meno alcolici.

 

Nuove esigenze del consumatore, la Gdo è pronta?

«I dati che emergono dalla nostra Global Survey – commenta Giovanni Fantasia, amministratore delegato di Nielsen Italia – devono essere letti non solo all’interno del contesto di mercato, ma anche nell’ambito di uno scenario più ampio, dato che la dieta è un elemento mainstream connesso al tema della sostenibilità, che è sempre più diffuso. L’atto di mangiare, oltre a essere una necessità fisiologica, ha un indiscutibile valore culturale ed etico. Le nostre preferenze in fatto di cibo raccontano chi siamo e i valori che ci rappresentano. Negli ultimi anni abbiamo visto comparire sugli scaffali del supermercato prodotti appartenenti a culture alimentari completamente diverse dalla nostra. Questo dato dev’essere interpretato dagli attori del sistema agroalimentare (e in particolare dal mondo della distribuzione) come un’esortazione a definire e attuare strategie produttive sempre più in linea con le indicazioni emergenti dagli studi scientifici sul rapporto tra alimentazione, stili di vita e salute, ad esempio riformulazione di prodotti esistenti oppure lancio di prodotti con contenuti nutrizionali progettati. Sono anche opportuni nuovi approcci informativi che contribuiscano alla promozione di una dieta sana».

Bresaola, cibo in ascesa: e per promuoverlo il Consorzio lancia l’app

Bresaola, questa sconosciuta. Malgrado sia consumato da oltre 42 milioni di italiani (praticamente otto su dieci), il salume più magro che esista soffre di luoghi comuni che non sempre corrispondono a realtà. E che ne penalizzano il consumo. Ha deciso di smascherarli il Consorzio di tutela bresaola della Valtellina Igp, che ha anche creato la web app Bresaola Inedita per promuovere nuovi abbinamenti e valorizzare un prodotto di qualità straordinaria.
Tra i falsi miti della bresaola c’è ad esempio l’errata convinzione che stia bene condita con del succo di limone. Falso: l’agrume la ossida, cuocendola un po’. Perché la bresaola non va assolutamente cotta, e se proprio la si vuole aggiungere a piatti cotti (come una pizza) questo deve essere fatto proprio a fine cottura. Altre cose da sapere: la fetta deve essere sottile per valorizzarne gli aspetti organolettici, una volta tagliata deve essere consumata subito, o comunque conservata per non più di 24 ore in un contenitore chiuso ermeticamente e va accompagnata preferibilmente al vino bianco (il rosso ne coprirebbe il sapore delicato).
Gli italiani amano quindi la bresaola della Valtellina Igp. Ma un italiano su tre la prepara sempre nello stesso modo: con olio e limone oppure con rucola e grana. E questo è un peccato. Ma quali sono i “nuovi” abbinamenti suggeriti per accompagnare il salume valtellinese? I formaggi, del territorio (Casera stagionato, Scimudin, Bitto) ma non solo; le verdure con sapori non troppo invadenti (sì a melanzane, zucchine, spinaci, soprattutto al finocchio, no o almeno nì a peperoni rossi, rucola e carciofi); la frutta esotica come mango, avocado, ananas ma anche quella nostrana; la frutta secca come noci, mandorle, pistacchi, fichi secchi, il pane, meglio se con un fiocchetto di burro, lo zenzero (senza esagerare) e il rosso d’uovo (non l’albume).

 

Consumi a +43% dal 2000

Quella della bresaola della Valtellina Igp è una storia di grande successo del made in Italy alimentare. Prodotta nel 2016 in 12.700 tonnellate, con una crescita del 3,2% rispetto all’anno precedente e addirittura del 43% rispetto al 2000, è consumata in ogni momento del giorno. Secondo un’indagine realizzata dalla Doxa il 34% degli italiani la mangia a cena, il 19% a pranzo, il 28% in entrambi i casi. L’aumento della produzione non ha compromesso l’originarietà e la tipicità del salume, garantito dal marchio Igp, che si avvale del clima della Valtellina, della qualità della carne bovina utilizzata (che proviene per lo più da allevamenti di qualità europei o sudamericani), della salagione effettuata rigorosamente a secco, dell’utilizzo di aromi naturali, della stagionatura lenta ma non eccessivamente lunga (un massimo di otto settimane per evitare che assuma un colore troppo bruno).
La nuova web app Bresaola Inedita è nata da un summit di degustatori professionisti, chef, ristoratori, critici gastronomici, foodblogger e sommelier guidati dall’esperto Marco Chiapparini. Tre panel di degustatori hanno analizzato l’alimento in tutti i suoi aspetti, ricavandone un vademecum di dieci regole e 40 piatti alla portata di tutti, suddivisi per antipasti, primi, insalate e street food, tutti abbinati a un calice di vino.

Metti stasera a cena al supermercato: la scommessa di Waitrose

Gli chefs di Waitrose in azione (foto Waitrose).

Continua l’avanzata dei grocerants, i supermercati che offrono pasti in spazi appositi e formati di ristorazione sempre più raffinati, ma Waitrose, insegna britannica d’alta gamma, spinge il concetto un po’ più in là con l’intenzione di sfondare un tabù: d’accordo colazione, pranzo, spuntino e pure l’aperitivo, ma una cena al supermercato potrebbe mai risultare appetibile ai più?

È questa la scommessa, che sarà promossa ad aprile e maggio nel nuovo punto vendita di Haywards Heath: offrire un pasto a tre portate creato dagli chef delle tre scuole di cucina dell’insegna. L’ambiente, il caffè del punto vendita, sarà “trasformato” per la cena (50 i coperti disponibili) con apparecchiature per coppie o gruppi e musica soffusa.

«Questo è un passo ulteriore nell’offerta di ristorazione di Waitrose, e nasce anche dall’esperienza dei nostri sushi e wine bar. vogliamo trasformare in nostri punti vendita in una destinazione er cenare la sera come lo sono durante il giorno» ha spiegato Karen Himsworth, manager delle Waitrose Cookery Schools -. Sappiamo che un supermercato non è il primo posto che viene in mente quando la gente vuole cenare fuori casa, ma vogliamo cambiare questa cosa. Vogliamo creare un’ambiente invitante sia per le coppie sia per i gruppi di amici».

Le prime otto serate sono previste nel nuovo pinto vendita, ma l’idea è quella di portare il concetto della cena al supermercato anche in altri momenti e altri store.

Il menu è sofisticato e contemporaneo: gamberi o crudité per antipasto, pollo con salsa di madeira o salmone o l’immancabile opzione vegetariana del cavolfiore con granola di semi d’acero, e dessert al cioccolato con gelato. 

Secondo NPD Group solo negli Stati Uniti i pasti nel supermercato dal 2008 sono cresciuti del 30% e nel 2015 hanno portato un fatturato di 10 miliardi di dollari.

 

Origine in etichetta, parte il latte ma un terzo della spesa è ancora “anonima”

Carne di coniglio, Carne trasformata, Frutta e verdura trasformata, Derivati del pomodoro diversi da passata, Sughi pronti, Pane: sono i prodotti che ancora vengono venduti senza dover indicare obbligatoriamente l’origine della materia prima in etichetta. Lo rende nota la Coldiretti nel giorno in cui entra in vigore l’etichettatura di origine obbligatoria per il latte a lunga conservazione e i suoi derivati. Un terzo della spesa degli italiani però resta anonima.

«L’Italia è diventata il più grande importatore mondiale di latte – afferma il presidente della Coldiretti Roberto Moncalvo -; dalle frontiere italiane passano ogni giorno 24 milioni di litri di “latte equivalente” tra cisterne, semilavorati, formaggi, cagliate e polveri di caseina, per essere imbustati o trasformati industrialmente e diventare fino ad ora magicamente mozzarelle, formaggi o latte italiani, all’insaputa dei consumatori. L’assenza dell’indicazione chiara dell’origine del latte a lunga conservazione, dei formaggi o dello yogurt non ha consentito di conoscere un elemento di scelta determinante per le caratteristiche qualitative, ma impedisce anche ai consumatori di sostenere le realtà produttive nazionale e con esse il lavoro e l’economia del vero Made in Italy. In un momento difficile per l’economia dobbiamo portare sul mercato il valore aggiunto della trasparenza con l’obbligo di indicare in etichetta l’origine degli alimenti».

 

Con materia prima straniera 2 salumi e pacchi di pasta italiani su 3

Oggi, due prosciutti su tre venduti come italiani, ma provenienti da maiali allevati all’estero, ma anche un pacco di pasta su tre è fatto con grano straniero senza indicazione (in attesa dell’ok di Bruxelles al decreto per l’introduzione dell’etichetta d’origine), come pure i succhi di frutta o il concentrato di pomodoro dalla Cina o il pane.

L’Italia sotto il pressing della Coldiretti ha fatto scattare il 7 giugno 2005 l’obbligo di indicare la zona di mungitura o la stalla di provenienza per il latte fresco e il 17 ottobre 2005 l’obbligo di etichetta per il pollo Made in Italy mentre a partire dal 1° gennaio 2008 l’obbligo di etichettatura di origine per la passata di pomodoro.

A livello comunitario il percorso di trasparenza è iniziato dalla carne bovina dopo l’emergenza mucca pazza nel 2002, mentre dal 2003 è d’obbligo indicare varietà, qualità e provenienza nell’ortofrutta fresca. Dal primo gennaio 2004 c’è il codice di identificazione per le uova e, a partire dal primo agosto 2004, l’obbligo di indicare in etichetta il Paese di origine in cui il miele è stato raccolto. Il prossimo passo?L’entrata in vigore dell’obbligo di indicare l’origine del grano impiegato nella pasta come previsto nello schema di decreto che introduce l’indicazione obbligatoria dell’origine del grano impiegato nella pasta condiviso dai Ministri delle Politiche agricole Maurizio Martina e dello Sviluppo Economico Carlo Calenda che dopo la mobilitazione della Coldiretti hanno annunciato anche un analogo decreto per il riso. 

I 100 siti che dominano il world wide web (infografica)

Walmart non sorprendentemente è il primo sito tra i retailer americani anche fisici per traffico.

Quali sono i siti più influenti, quelli che davvero la gente guarda e naviga, e che di fatto “dominano” la rete? A questa domanda risponde l’infografica di Vodien su dati Alexa. Se il podio non rappresenta sorprese (la triade Google-YouTube-Facebook) è interessante vedere quali sono le altre categorie più cliccate e seguite.

 

La classifica non è oziosa: al mondo esistono 1,1 miliardi di siti, ma la maggioranza del traffico è partita tra pochi di loro. Google ad esempio ammassa 28 miliardi di visite al mese, YouTube, che peraltro è proprietà di Google, 20,5 miliardi.

Nell’infografica ci sono i 100 siti più visitati negli Stati Uniti.

È segnalata l’appartenenza al settore per colore. Il retail, identificato dal colore verde, vede svettare Amazon ed eBay (al quarto e ottavo posto assoluti) ma tra i distributori che hanno anche una rete fisica ci sono Walmart (al 21° posto), Best Buy (39°), Target (43°) e Home Depot (73°). Sono abbastanza ben rappresentati, ma mai quanto le news (14 sii su 100) e i social media (12 sui primi 100), 

Sono anche evidenziate le connessioni tra siti “imparentati” tra loro perché della stessa proprietà, ad esempio Google, Youtube, Blogger e Google User Content, oppure Verizon che possiede l’Huffington Post, AOL.com e, tra breve, Yahoo e Tumblr.

Albert Heijn testa Hiku, magnete per frigo che fa la lista della spesa

Dal frigo allo smartphone: è questo l’ultimo “viaggio” di una lista della spesa che si vuole sempre più smaterializzata e digitale, immediata e in tempo reale. Lo consente un gadget che si chiama Hiku ed è attualmente testato da 200 clienti dell’insegna olandese Albert Heijn. Sia gli acquirenti online sia i consumatori del negozio fisico sono stati invitati a provare il dispositivo per due mesi gratuitamente e poi dare un feedback all’insegna.

La catena di supermercati ha citato un sondaggio tra i clienti che mostra come il 70% di loro utilizza una lista della spesa, ma poi dimentica di scrivere alcuni prodotti o addirittura lascia l’intera lista a casa. 
Hiku non solo è in grado di leggere i codici a barre dei prodotti che si vogliono ri-acquistare, ma converte anche le parole pronunciate in testo digitato. A questo punto la lista può essere coinvogliata sullo smartphone per essere portata al supermercato oppure utilizzata direttamente per acquistare online. Il dispositivo, delle dimensioni di un magnete da frigorifero, è stato sviluppato da una start-up californiana (uno degli investitori è Jerry Yang, co-fondatore ed ex CEO di Yahoo) ed è una sorta di incrocio tra il pulsante Amazon Dash e il dispositivo di riconoscimento vocale Alexa con altoparlante Echo, con un obiettivo però limitato alla lista della spesa.

Hiku è stato introdotto alla fine del 2015 negli Stati Uniti e successivamente commercializzato nel Regno Unito, in Francia e Australia. Il suo costo è di circa 50 euro.

I vini biologici prendono il largo, aumenti a due cifre nella Gdo, rosso e Prosecco in cima

Addio vini “puzzoni” dal colore scomposto. I vini biologici volano in Italia e ormai sono apprezzati anche dalla critica. È la tendenza emersa nel corso della cinquantunesima edizione del Vinitaly, celebrata dal 9 al 12 aprile alla Fiera di Verona. Secondo uno studio realizzato da Coldiretti, le vendite di vini bio, che non vanno confusi con i vini biodinamici che seguono i precetti steineriani, sono aumentate nel 2016 del 26%, con ben 2,5 milioni di bottiglie vendute nella grande distribuzione, ciò che dimostra che ormai questa tipologia ha convinto anche il grande pubblico.

In crescita anche la sottocategoria dei vini vegani, le cui vendite sono cresciute nello scorso anno del 35%. I vegani in Italia del resto sono almeno 1,8 milioni, una fetta di mercato sempre più interessante, anche perché sovente dotato di buona capacità di spesa. Secondo un’altra ricerca, elaborata dalla Nielsen, in Italia nel 2016 le vendite di vino bio hanno raggiunto 11,5 milioni di euro nella sola Gdo, registrando un +51% rispetto al 2015, ma l’incidenza del vino bio sul totale delle vendite di vino è ancora irrilevante, con lo 0,7%. Secondo i dati Nielsen, il vino rosso è la tipologia di vino bio preferita dal consumatore italiano (57% delle vendite in Gdo, +42% rispetto al 2015), tuttavia i vini bianchi crescono in maniera più significativa (+93%) assieme alle bollicine (+59%). Il Prosecco è comunque il vino bio più venduto nella grande distribuzione nel 2016 (17% delle vendite di vino bio a valore, +143% -di crescita) seguito da Montepulciano d’Abruzzo (15%), Nero d’Avola (7%) e Chianti (7%).

Il consumatore riconosce al vino bio naturalità (per il 24% dei consumatori il principale elemento distintivo), salubrità (20%) ma anche qualità (17%). I canali preferiti per l’acquisto di vino bio rimangono iper e supermercati (33%) e gli acquisti diretti dal produttore o in cantina (23%), seguiti da enoteche (19%) e negozi alimentari specializzati in prodotti biologici (18%); la quota di consumatori che acquista vino bio soprattutto online raggiunge il 6%.

 

Secondi produttori dopo la Spagna

Insomma, il biologico non può più essere considerato una nicchia. Sempre secondo Coldiretti i vigneti coltivati a biologico o in conversione hanno raggiunto al 1° gennaio 2016 la superficie di 83.642 ettari al 1 gennaio 2016 su un totale di 642.367 ettari vitati, con un aumento record del 16% rispetto sul 2015 dalle elaborazioni Coldiretti. Dati confermati anche da una ricerca Wine Monitor-Nomisma, secondo cui il pubblico dei consumatori della tipologia è raddoppiato, e dal Report Mediobanca che parla di un aumento del 17% della produzione e del 38% dell’export, con la superficie vitata cresciuta del 13% nel 2016 rispetto al 2015.

Oggi l’Italia ha il secondo vigneto green d’Europa dietro la Spagna. E non è solo questione di certificazioni. La sostenibilità del vino si manifesta anche in ogni fase della produzione e del consumo, dalla vigna alla tavola.

«I driver di crescita – dice Fabrizio Riva, amministratore delegato dell’ente certificatore Ccpb – sono molteplici: dal codice appalti, che ha rivolto un’attenzione maggiore alle certificazioni, alla carbon footprint e alla sostenibilità sociale, alle politiche regionali, come le misure Ocm vino della Sicilia, passando per gli standard della grande distribuzione organizzata e infine per il ruolo dei consumatori».

 

Un fenomeno guidato dal consumatore

Ecco, i consumatori. Che sono sempre più attori protagonisti nel successo del vino bio, anche perché stimolano le aziende alla costosa riconversione, che altrimenti forse eviterebbero. Da un lato i consumatori pur di bere un vino biologico sono disposti a un cambio di brand nel 50% dei casi, e a un cambio di punto vendita addirittura nel 40% di essi. Dall’altro, a livello europeo, sono disposti a spendere di più per un vino certificato come biologico in tutte e tre le fasce di prezzo di 5, 10 e 15 euro a bottiglia, sebbene siano più sensibili a quello che percepiscono come un plus tanto meno sono esperti di vino. A trainare questa tendenza i “famigerati” Millennials, la parte demografica in assoluto più attenta ai temi della sostenibilità ambientale e della produzione biologica nelle aziende vitivinicole. 

I consumatori però non si accontentano più di autodichiarazioni o di definizioni più o meno fumose, ma si sono fatti più esigenti in quanto agli standard ai quali è necessario sottostare. «C’è bisogno di standard chiari e certificabili – dice Lucrezia Lamastra, ricercatore presso l’Università Cattolica di Piacenza e una delle creatrici del programma V.i.v.a. del ministero dell’Ambiente -. I numeri ci dicono che i consumatori sono interessati ai temi dell’ecosostenibile e del biologico, abbiamo visto che soprattutto i giovani sono molto interessati al tema. Il problema è cercare di farlo in un modo che soddisfi il bisogno del consumatore di avere la consapevolezza che dietro c’è una procedura certificata».

Coop punta sul turismo, investe su Robintur e lancia Viaggi in Coop

Ammonta a 6 milioni di euro l’investimento di Coop su Robintur, controllata di Coop Alleanza 3.0 che lo scorso primo gennaio fondendosi con Planetario Viaggi ha dato vita alla più grande rete diretta italiana di agenzie di viaggio: 312 agenzie, di cui 67 con dipendenti, e un fatturato che supera i 500 milioni di euro, di cui 350 diretti, realizzati nei segmenti leisure, business travel e turismo organizzato. Parte delle nuove agenzie dirette, fino a 30, avrà l’insegna Viaggi Coop e sarà localizzata nei centri commerciali e punti vendita Coop.

 

Viaggi al supermercato

La sinergia con Robintur porterà anche i viaggi “nel carrello della spesa”, ampliando la diversificazione in atto nei punti vendita Coop, che ha già esteso la propria offerta a carburanti, farmaci, libri, cure dentistiche, ottica, gioielleria, cura degli animali.

Il gruppo turistico sarà presente in tutta Italia con i marchi Robintur e Viaggi Coop: svilupperà sia le agenzie dirette, riorganizzate e riposizionate sul territorio, sia le partnership full service, il master franchising e l’affiliazione, l’e-commerce, l’offerta di business travel per le imprese e quella per i gruppi organizzati, anche grazie ad operazioni di acquisizione e ad accordi di partnership mirati. Nei prossimi tre anni, nello scenario disegnato dal Piano industriale, le agenzie fisiche passeranno da 312 fino ad un massimo di 500-600, di cui 80 con dipendenti diretti. Circa 30 avranno l’insegna Viaggi Coop. Il piano dettagliato di sviluppo territoriale è in fase di elaborazione esecutiva, per determinare i bacini ed i formati migliori per il presidio di ciascun territorio, anche in base alla presenza ed alla rilevanza della rete di vendita Coop

Il piano industriale fino al 2019 ha come obiettivo di sviluppare una rete di oltre 500 agenzie di viaggio in tutta Italia, anche attraverso la sinergia con i 1.168 punti vendita Coop e capitalizzando una base di soci di 8 milioni e mezzo di persone. L’intero piano prevede fino al 2021 investimenti autofinanziati per quasi 6 milioni di euro. Grande attenzione sarà posta al canale e-commerce, che verrà valorizzato per raggiungere i Millennials.

 

Partiti da Pesaro, prossima apertura Bologna

Il nuovo logo.

La prima agenzia con la nuova insegna Viaggi Coop ha già aperto a fine marzo all’ipercoop Miralfiore a Pesaro; a fine aprile sarà la volta di Bologna, nella galleria commerciale del Coop&Coop San Ruffillo, e dopo l’estate di Modena, testando la prima agenzia shop in shop, direttamente all’interno dell’area di vendita dell’ipercoop Grandemilia. La sperimentazione proseguirà sviluppando ulteriori azioni integrate con Coop sul piano del marketing, dell’e-commerce (con forti investimenti sul digitale) e del servizio ai soci ed ai clienti Coop.

Le altre agenzie del gruppo adotteranno progressivamente il nuovo logo, offrendo un servizio di consulenza qualificato ed un’ampia gamma di prodotti e servizi.

I marchi Robintur e Viaggi Coop saranno potenziati specialmente nelle città, riorganizzando e riposizionando le agenzie dirette sul territorio, avviando partnership full service, master franchising e affiliazioni. L’obiettivo è di aumentare la forza contrattuale, le sinergie e le economie di scala, per poter offrire promozioni e soluzioni di viaggio particolarmente vantaggiose: “Lavoreremo molto in relazione con le cooperative e in particolare con Alleanza 3.0 – ha detto il direttore generale di Robintur Claudio Passuti all’AdnKronos – . Allo sviluppo della rete di vendita affiancheremo anche investimenti per il settore digitale in modo di poter raggiungere tutta quella parte di viaggiatori che normalmente non entra in agenzia perché magari ha bisogno solo di un volo o dell’hotel”. E “allargheremo la parte più caratteristica della cooperazione di consumo, creando combinazioni e interessi legati anche al turismo enogastronomico e alle specialità territoriali”.

Pasqua, agnello su una tavola su due, uova più care del 7%, ma la spesa resta stabile

Al di là del folclore dato dalle adozioni di teneri agnellini da parte di personaggi di spicco della politica (e conseguente scatenamento di meme sul web), e alle immancabili polemiche sull’opportunità di rispettare la tradizione da parte degli attivisti animalisti, su più della metà delle tavole italiane (52%) quest’anno verrà servita carne d’agnello: nelle case, nei ristoranti e negli agriturismi. Lo segnala una analisi Coldiretti/Ixe’ che rivela come quasi la metà dei consumi di carne di agnello consumata dagli italiani durante tutto l’anno avviene in questo periodo. Quest’anno però portare la carne di agnello a tavola significa – sostiene la Coldiretti – salvare il lavoro dei circa 4mila pastori terremotati che non hanno ancora abbandonato le aree colpite dal sisma di Lazio, Marche, Abruzzo e Umbria dove solo nei 131 comuni del cratere sono allevate 213mila pecore e capre. Sempre secondo l’indagine Coldiretti/Ixe’ ben 1/3 degli italiani (34%) acquisterà carne d’agnello italiana e il 12% ha scelto di comperarla direttamente dal produttore mentre solo il restante 6% non è interessato alla provenienza. Sono 60mila gli allevamenti di pecore presenti in Italia, spesso concentrati nelle aree più marginali del Paese, per un patrimonio 7,2 milioni di animali, situati in maggioranza in Sardegna. 

Quanto agli altri simboli della festività, scoppia la polemica sui prezzi delle uova di Pasqua che secondo il Codacons stanno registrando sensibili rincari dei prezzi al dettaglio su tutto il territorio nazionale. “Mediamente quest’anno un uovo di cioccolato costa il 7% in più rispetto al 2016 – spiega il Codacons –. Ad alimentare la corsa al rialzo dei listini è prima di tutto la crisi internazionale che da mesi ha colpito i Paesi produttori, con Costa d’Avorio e Ghana. Ma i prezzi crescono anche per effetto del caro-benzina (oggi alla pompa un litro di verde costa l’11% in più rispetto ad aprile 2016) che incide non sono sui costi di trasporto, ma anche su quelli di produzione. Non a caso sensibili rincari dei listini si registrano anche per altri prodotti tipici della Pasqua, come la colomba (+6%), il salame corallina (+4%) o l’abbacchio (+3%)”. L’associazione di consumatori calcola che a causa delle tensioni dei prezzi, quest’anno la spesa degli italiani per uova di Pasqua, colombe e dolciumi vari raggiungerà la cifra di 430 milioni di euro.

Anche l’Osservatorio nazionale Federconsumatori registra una crescita dei prezzi più alta rispetto allo scorso anno, pari al +4,4%. Tali aumenti riguardano soprattutto la carne di coniglio (+21,9%, sempre più acquistato perché combina risparmio e qualità), le uova di cioccolato (tra il +7% e il +8%), la colomba farcita (+15%). Colomba, pizza pasquale, pastiera, dolci campanari e tutte le specialità della Pasqua, tenderanno ad essere preparati in casa, creando momenti di aggregazione familiare. Anche se secondo Coldiretti sono 350.000 gli italiani che hanno deciso invece di pranzare in un agriturismo.
Non a caso su internet spopolano ricette e tutorial. Anche quest’anno le famiglie tenderanno a contenere le spese per i consumi relativi ai prodotti pasquali, registrando un andamento pressoché invariato rispetto al 2016: +0,4%. 

Fonte: Osservatorio nazionale Federconsumatori.

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