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Agroalimentare, 3 volte più forte dell’automotive franco-spagnolo

Con un valore aggiunto di 64,1 miliardi di euro, pari a tre volte quello dell’automotive di Francia e Spagna, il Food&Beverage del Belpaese si conferma un comparto fortissimo, che persino nel 2020 ha potuto vantare una crescita a 2 cifre, pari all’11,6%. Parola del Rapporto The European House – Ambrosetti sugli scenari e le sfide per il settore agroalimentare che saranno i temi portanti della quinta edizione del Forum ‘La Roadmap del futuro per il Food&Beverage: quali evoluzioni e quali sfide per i prossimi anni’, che si terrà a Bormio il prossimo 4 e 5 giugno.

Ad animare il Forum saranno una serie di tavole rotonde alle quali parteciperanno importanti vertici dell’industria alimentare, ma anche politici, medici e sportivi. Già confermata la presenza di campioni del ciclismo come Ivan Basso e Alberto Contador e di miti dello sci come Deborah Compagnoni. Le parole chiave di questa edizione saranno infatti ‘alimentazione, salute e sport’.

II numeri del Rapporto

L’industria agroalimentare si è quindi confermata, anche in tempo di crisi, un pilastro della nostra economia: lo scorso anno – rilevano le analisi The European House – Ambrosetti – ha generato un valore aggiunto pari a 64,1 miliardi di euro, di cui 31,2 mld generati dal settore F&B, in leggero calo dell’1,8% rispetto al 2019, e 32,9 mld provenienti dal comparto agricolo. Un andamento che ha accusato gli effetti della pandemia, ma segnando pur sempre una performance generale migliore rispetto al dato di contrazione avvertito sul Pil nazionale (- 8,9%).

“L’Italia è il 2° Paese in Europa per incidenza del settore agroalimentare sul PIL (3,8%), preceduto solo dalla Spagna (4,0%) e più alta di quella che si registra in Francia (3,0%) e Germania (2,1%)” – afferma Valerio De Molli, Managing Partner & CEO di The European House – Ambrosetti “Il settore agroalimentare si conferma al 1° posto tra le “4A” del Made in Italy, 1,9 volte l’automazione, 2,8 volte l’arredamento e 3,2 volte l’abbigliamento. Il settore Food&Beverage si è dimostrato il più resiliente alla crisi COVID-19 tra tutti i settori della manifattura italiana, con una riduzione del Valore Aggiunto pari a -1,8% nel 2020, rispetto al -8,9% del totale dell’economia italiana”.

Uno sguardo all’export

Le esportazioni dei prodotti agroalimentari italiani hanno segnato lo scorso anno una crescita dell’1,8%, raggiungendo un valore record di 46,1 miliardi di euro, Con le bevande che rappresentano la categoria più venduta al di fuori dei confini e generano oltre un quinto del fatturato (20,6%). Germania, Francia e Stati Uniti rimangono i Paesi di maggiore approdo dell’export made in Italy. Ma c’è ancora un bel margine di crescita, specialmente in confronto ai nostri peer europei. Basti pensare che l’export tedesco si attesta ai 75,2 mld, quello francese ai 62,5 miliardi mentre la Spagna si aggira intorno ai 58. Per non parlare poi di un immenso mercato di sbocco come quello cinese, verso cui però il nostro Paese è ancora piuttosto timido, come dimostra il fatto che per noi la Cina è solo al 20° nella classifica dei paesi di destinazione, mentre è al 6° posto per la Spagna, all’8° per la Francia.

Ultimo “caso” da valutare: gli esiti nel medio periodo della Brexit, da non sottostimare dal momento che, il Regno Unito, conta per il 12% sull’intero fatturato dai prodotti agroalimentari italiani commercializzati al di fuori dei confini nazionali.

 

Brexit: un’uscita hard metterebbe a rischio 32.000 posti di lavoro

Foto di DANIEL DIAZ da Pixabay

Brexit: quali scenari si apriranno?

Al di là degli aspetti prettamente politici, infatti, un evento epocale come quello incombente, innescherà inevitabilmente  pesanti conseguenze economiche un po’ in tutti settori. Non ultimo in quello agroalimentare. Non dimentichimo, infatti, che il comparto agricolo britannico esporta 2/3 della sua produzione nel vecchio continente, importando dallo stesso quasi il 70% tra frutta, verdura, carne e altri generi alimentari.

Proprio questi temi sono stati al centro della conferenza ‘Brexit, what’s next?’ organizzata da AHDB Beef&Lamb, la divisione di Agriculture and Horticulture Development Board, Ente britannico non governativo per il sostegno e lo sviluppo dell’industria agroalimentare, che rappresenta 110.000 allevamenti bovini e ovini nella sola Inghilterra.

“Da quando il 51,8% dei cittadini britannici si è espresso per il leave il 23 giugno 2016, ci siamo interrogati molto sul potenziale impatto che il commercio di prodotti agricoli avrebbe potuto subire a breve e a lungo termine”, ha commentato Jeff Martin, responsabile AHDB Beef&Lamb per il mercato italiano. “Il comparto bovino e ovino, che noi rappresentiamo insieme a quello dell’orticoltura, sono in particolare i settori che potenzialmente potrebbero essere più colpiti da una Brexit senza accordo”. 

Le carni hanno sempre rappresentato una parte importante del commercio fra l’Europa e i Paesi d’Oltremanica in entrambe le ‘direzioni’: l’UK è un mercato di sbocco importante per gli allevatori europei, così come un grande allevatore di bestiame. Basti pensare che nel 2015 il Regno Unito è stato il terzo più grande produttore bovino e il primo produttore ovino di tutta Europa.

Carne bovina

Tra il 2013 e il 2017 l’Inghilterra ha esportato una media di oltre 84.000 tonnellate all’anno di carne bovina fresca, pari a un valore medio di 373 milioni di sterline. Durante questo periodo l’export verso l’UE ha rappresentato in media l’82% del totale. Irlanda, Olanda, Francia e Germania sono i principali paesi che hanno acquistato manzo britannico.

Carne ovina

Sul fronte ovino, nello stesso quinquennio, la media delle esportazioni è stata di quasi 100 mila tonnellate annue, pari a un valore medio di 392 milioni di sterline. Ancora una volta l’Europa è stata la principale destinazione con una media dell’89% delle esportazioni britanniche complessive. Francia e Germania sono stati i principali destinatari dei prodotti provenienti dall’UK.

“Dati i numeri così importanti per le esportazioni di manzo e ovino britannici verso l’EU, la prospettiva del no-deal non è mai stata ignorata in Ahdb”, prosegue Martin. “Da subito abbiamo lavorato per aumentare la consapevolezza del potenziale impatto che lo scenario peggiore potrebbe avere sui nostri comparti di beef e lamb”.

Se sulle carni di provenienza britannica venissero applicati i dazi doganali di un paese terzo, infatti, le esportazioni subirebbero una battuta d’arresto. Le tariffe applicate potrebbero essere molto alte, tanto quanto il costo del prodotto stesso, se non addirittura di più. Inoltre, aumenterebbero anche i controlli veterinari, alle dogane e i costi di trasporto. Questo ridurrebbe la competitività delle carni Made in UK. Non da ultimo, una hard Brexit porterebbe alla perdita di 32.000 posti di lavoro. 

E le importazioni?

Anche sul fronte delle importazioni gli scenari cambierebbero radicalmente, impattando in modo significativo su tutti i mercati europei, sia in volume che in valore. La Gran Bretagna è un grande mercato per i 27: l’Irlanda, principalmente per le carni di manzo, e la Danimarca, per la carne suina, sarebbero i paesi più penalizzati. Anche l’Italia figura fra i 5 top esportatori di carne bovina in UK.

“Il risultato più auspicabile per tutti gli operatori del settore, britannici ed europei, – conclude Martin – è sicuramente quello di un accordo che garantisca un commercio fra i due blocchi alle stesse condizioni esistenti ora. Non ci resta che seguire gli ultimi sviluppi che verranno comunicati in questi giorni”.

Brexit, chi vince e chi perde nel retail: discount su, ipermercati giù

I discount come Lidl, che già hanno eroso negli ultimi anni quote di mercato alle insegne tradizionali, secondo gli analisti otterranno un ulteriore vantaggio dall'uscita della Grand Bretagna dall'Ue.

Planet Retail ha stilato un report che individua le opportunità e i rischi della Brexit, l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea decisa con il referendum del 23 giugno, nell’ambito del commercio.

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Un costo aggiuntivo: le etichette “Made in UE” andranno sostituite con etichette “nazionali”

Un impatto a breve e lungo termine che colpirà l’intero vecchio continente, con l’Ue che perderà in un colpo solo il 12,9% della popolazione, il 16,6% del Pil, 18,7% della spesa dei consumatori, il 18,3% delle vendite retail e il 15,2% delle vendite di alimentari. Non solo: i partiti populisti di Danimarca, Olanda e Francia pensano già al loro referendum per l’uscita, con rischi di ulteriore disgregazione.

Di seguito lo scenario con le possibili conseguenze nel Regno Unito (ma non solo):

1. Rallentamento della crescita UK con probabile recessione

Opportunità per:

  • I Discount con la loro forte reputazione per un buon rapporto prezzi qualità
  • I supermercati con tanti punti vendita di prossimità, mentre perderanno le grandi superfici fuori città (si tenderà a risparmiare benzina ed evitare la “tentazione” di comprare il superfluo)
  • I produttori di prodotti Private label specialmente se di livello economico
  • Le insegne con programmi di loyalty forti, in grado di offrire benefici, sconti addizionali o premi
  • I produttori di oggetti di lusso abbordabili, perché i consumatori cercheranno di premarsi con piccole cose
  • I prodotti che costituiscono un’alternativa conveniente ai consumi fuoricasa, come le capsule per caffè

Rischi per:

  • Gli ipermercati con maggiore esposizione verso articoli non alimentari
  • La ristorazione, per la tendenza a cucinare a casa
  • I commercianti Non-food che si specializzano in prodotti non essenziali e il cui acquisto è rimandabile

2. Sterlina più debole

Opportunità per:

  • I fornitori di prodotti locali, regionali e prodotti in Gran Bretagna beneficeranno dell’aumento di competitività
  • I fornitori di prodotti britannici che esportano all’estero
  • I discounter con categorie di prodotto limitate che possono passare la gran parte delle vendite a prodotti locali sostituendo un numero limitato di prodotti
  • Chi è in grado di acquistare dai Paesi a bassi salari sullo scenario globale (ad es. Asda che fa parte di Walmart)
  • Le insegne che hanno operazioni internazionali che vedranno le vendite sui mercati esteri aumentare a causa del cambio con la sterlina bassa (ad es. Tesco)

Rischi per:

  • I retailer che trattano categorie che si basano molto sulle importazioni come gli alimentari (il 39% degli alimentari venduti in UK è importato, e in particolare lo è il fresco come frutta, verdura e latticini)
  • Gli ipermercati che vendono prodotti non alimentari fatturati in moneta esetra (con i rischi maggiori per le transazioni verso il dollaro)
  • La divisione UK degli operatori di e-commerce internazionali, perché i consumatori arriveranno da altri mercati europei per fare acquisti in sterline
  • I negozi che si appoggiano a una scelta di prodotti internazionali come leva di differenziazione (negli ipermercati potrebbero diminuire le categorie di cibi esteri o etnici)
  • Insegne internazionali con operazione in UK (Walmart, Costco, Whole Foods) perché potrebbero diminuire le vendite sul fronte britanico
  • I retailer UK con operazioni internazionali in perdita, perché le perdite saranno aumentate dal cambio sfavorevole

3. Aumento dei tassi di interesse per alleviare la pressione verso il basso della sterlina

Opportunità per:

  • Distributori e fornitori con una forte dipendenza verso le supplì chain internazionali che eviteranno una pressione inflazionistica ancora più alta

Rischi per:

  • Distributori e fornitori di fai-da-te, arredamento, e forniture elettriche per la casa perché è plausibile che il mercato immobiliare sarà duramente colpito

4. Maggiori regolamentazioni e limitazioni nel libero movimento di merci e persone

Opportunità per:

  • I Retailer che dipendono poco delle supply chains estere
  • I Retailer con supply chain intrenazionali capaci di riorganizzare il flusso di merci velocemente
  • I Retailer che beneficiano della condivisione di negoziazioni e best practice a livello regionale europeo (ad es. Asda arte del gruppo d’acquisto EMD di cui fanno parte tra gli altri in Italia Selex e Sun)

Rischi per:

  •  I retailer britannici che dipendono molto da supply chain internazionali con un debole prospettiva di sostituirli con fornitori nazionali (abbigliamento, elettronica di consumo, fai da te)
  • I retailer americani che hanno investito nel Regno Unito come “ponte” per entrare in Europa (Whole Foods, Costco)
  • Le aziende di E-commerce che potrebbero soffrire dalle aspettative fallite dei clienti che non riescono ad ottenere consegne in giornata
  • Fornitori e distributori britannici che si avvalgono di manopdopera europea a basso costo

 

5. Ulteriore frammentazione dell’UE

  • Distributori e fornitori in tutta Europa soffriranno per l’impatto negativo sulle supply chains con tempi di attesa aggiuntivi alle frontiere e maggiori rischi per il cambio delle valute

 

 

 

Brexit: le opinioni nel retail:

Lidl UK: “Apprezziamo e rispettiamo la decisione del Leave fatta dal pubblico britannico. […] Abbiamo lavorato duramente nelle retrovie per prepararci a questa possibilità, così ora siamo pronti. […] Continueremo a investire nei nostri piani di espansione nel Regno Unito con nuovi punti vendita, nuovi magazzini e nuovi posti di lavoro.“

Stefano Pessina, Walgreens Alliance Boots. «Si sceglie di investire nel Regno Unito perché da lì si può facilmente accedere a tutta l’Unione Europea. Ora che il Regno Unito non sarà più parte della Ue, cambierà tutto».

RichardPennycook,TheCo-OperativeGroup: “Il nostro messaggio è positivo: siamo passati per un periodo di incertezza e ora consociamo l’esito. Ora dobbiamo guardare avanti e cogliere le opportunità.”

Alessandro De Felice, Presidente di ANRA, Associazione Nazionale di Risk Manager e Responsabili di Assicurazioni Aziendali. “Se la Gran Bretagna avesse deciso di rimanere nell’Unione Europea, ad esempio secondo le previsioni di Sace, l’export italiano avrebbe messo a segno una crescita media annua del 5,5% nel periodo 2017 – 2019 . Concretizzata la Brexit queste stime potrebbero essere riviste al ribasso di circa 1-2 punti percentuali nel 2016 (fino a 500 milioni € in meno).

Stephen Springham, Knight Frank: “Come ha provato la scorsa recessione i trend di spesa non seguono religiosamente le prestazioni del Pil. I consumatori potrebbero chiudere i cordoni delle borse e ripensare le priorità di spesa, ma non smetteranno di spendere. Le vendite nel retail rimarranno incostanti,. Ma il retail potrebbe beneficiare da investitori esteri a “caccia dell’affare”  pronti ad approfittare di ogni perdita di valore della sterlina.”

Tim Worsall, Forbes: “La causa principale della diminuzione delle vendite nei negozi britannici [a giugno, ndr] non ha a che fare con l’incertezza causata dalla Brexit ma con Amazon”.

CSC su Brexit e Referendum

“Nello scenario globale la matassa dell’incertezza si è ancor più ingarbugliata. Agli alti rischi economici, acuiti dalle lunghe code della crisi, si sono sommati i ben più minacciosi e incombenti rischi di instabilità politica. Le sofferenze sociali derivanti da disoccupazione e impoverimento e la mancanza di risposte appropriate hanno fatto riemergere nei paesi avanzati (soprattutto europei) pulsioni profonde di xenofobia e nazionalismo. L’Italia appare come una piccola nave (con nocchiero) in un mare in gran tempesta. E con importanti riparazioni in corso mentre deve proseguire la navigazione. Nello scenario ordinario prosegue, benché azzoppata dalla Brexit, la modesta risalita del PIL, cominciata al principio del 2015, e dell’occupazione. Neppure questo risultato può essere, però, dato per scontato. Il passaggio chiave è costituito dal referendum in autunno sulla nuova Costituzione. La vittoria del fronte del ‘No’ avrebbe pesanti ripercussioni economiche. Secondo le stime del CSC, il costo per l’Italia della Brexit si traduce, nel biennio 2016-17, in 0,6 punti di PIL, 81mila unità di occupazione, 154 euro di reddito pro-capite e 113mila poveri. Ma sono stime prudenziali, che non incorporano alcune variabili qualitative, e il bilancio finale potrebbe risultare peggiore. Le nuove previsioni CSC sul PIL italiano sono di +0,8% nel 2016 e +0,6% nel 2017. Nel biennio sarà creata occupazione per 250mila unità di lavoro, che portano a +650mila il totale da quando sono ricominciate ad aumentare; ne mancheranno ancora 1,37 milioni per colmare la voragine causata dalla crisi. Questi risultati positivi, ma certo non entusiasmanti, sarebbero del tutto compromessi dalle conseguenze della bocciatura della riforma costituzionale al referendum confermativo. Il CSC ha delineato uno scenario alternativo che parte da tale responso delle urne. Rispetto alle tendenze in atto, l’economia italiana perderebbe in tre anni 4 punti percentuali di PIL, 17 punti di investimenti e quasi 600mila unità di lavoro; nel 2019 il debito pubblico sfonderebbe quota 144% del PIL.  Il reddito pro-capite diminuirebbe cumulativamente di 590 euro e ci sarebbero 430mila poveri in più. Si tratta di calcoli conservativi, che largamente sottostimano i veri effetti che si materializzerebbero. Il Paese, già estremamente provato, dovrebbe fronteggiare una nuova grave emergenza economico-sociale, con inevitabili spinte verso soluzioni populistiche. Proprio perché fuori minaccia tempesta, l’Italia dovrebbe puntare ad attrezzarsi e a diventare più solida, anziché confermare le proprie storiche debolezze”. (Fonte: www.confindustria.it, “Scenari economici n. 26. La risalita modesta e i rischi di instabilità”, 1 luglio 2016). Alles klar? Così è, se vi pare…

Brexit: export a rischio

In margine alla Brexit: “Auto, abbigliamento, forni, bruciatori, macchine di sollevamento, medicinali, motori e turbine, vini, mobili, accessori auto, macchine speciali per i settori industriali e calzature sono i principali beni che esportiamo nel Regno Unito. Tutti prodotti che fanno parte della grande famiglia del nostro ‘’made in Italy’ che, alla luce della decisione dei britannici di uscire dall’Ue, potrebbero subire una contrazione con effetti negativi per i rispettivi settori di appartenenza.

L’Ufficio studi della CGIA ha elencato le principali 35 voci di prodotto che caratterizzano il nostro export oltre Manica, che nel 2015 ha toccato un valore complessivo di 22,4 miliardi di euro, mentre le importazioni hanno raggiunto quota 10,5 miliardi. Pertanto, il saldo commerciale è stato positivo e pari a 11,9 miliardi di euro. Dalla CGIA segnalano che l’export verso Londra è stato pari al 5,4 per cento del totale e nell’ultimo anno le vendite nel Regno Unito sono aumentate del 7,4 per cento.

‘E’ difficile prevedere cosa succederà. Nei prossimi 2 anni – ricorda il coordinatore dell’Ufficio studi della CGIA Paolo Zabeo – tra Londra e Bruxelles dovranno essere ratificati 54 accordi commerciali e, salvo sorprese, le transazioni ritorneranno ad essere soggette ai dazi doganali e al pagamento dell’Iva. Non è da escludere, inoltre, la possibilità che vengano introdotte alla dogana barriere non tariffarie che potrebbero ostacolare l’attività commerciale, imponendo agli esportatori livelli particolari di sicurezza e di certificazione dei prodotti. Pertanto, la trattativa tra il Regno Unito e l’Unione europea sarà lunga, complessa, estenuante e dagli esiti attualmente non prevedibili’.

La Brexit, ovviamente, ha scatenato un vero e proprio tsunami politico che rischia di travolgere tutto e tutti.

‘Se fino a qualche anno fa c’era la fila per entrare nell’Unione europea – dichiara il segretario della CGIA Renato Mason – ora, invece, in molti chiedono di andarsene. La responsabilità di questa metamorfosi è quasi del tutto ascrivibile agli euro burocrati che hanno intrapreso politiche economiche poco oculate, prolungando gli effetti della crisi e facendoci precipitare in una spirale deflazionistica molto preoccupante. Se dopo la Brexit si vuole evitare un effetto domino che travolga tutto bisogna cambiare registro; rilanciando le politiche di sviluppo in grado di riportare lavoro, crescita e benessere’.

A livello territoriale è il Nordest (7,9 miliardi di euro) la macro area più interessata dalle esportazioni in Gran Bretagna. Segue il Nordovest (7,8 miliardi) il Centro (3,6 miliardi) e il Mezzogiorno (2,7 miliardi). A livello regionale, invece, la parte del leone la fanno la Lombardia (5,3 miliardi di euro), il Veneto e l’Emilia Romagna (ciascuna con 3,4 miliardi di euro), il Piemonte (2,3 miliardi) e la Toscana (1,8 miliardi). Queste 5 regioni esportano più del 70 per cento del totale”. (Fonte: www.cgiamestre.com, “Brexit: ecco i principali prodotti esportati in UK”, 27 giugno 2016).

Brexit: Coldiretti, a rischio export prodotti Made in Italy, Gb primo mercato per lo spumante

Urne aperte in Gran Bretagna per decidere se rimanere o meno nel Unione Europea, e Coldiretti fa il punto della situazione nel caso vinca l’uscita. Sarebbero pesanti le conseguenze per l’agroalimentare italiano: il Regno Unito è infatti il quarto mercato di esportazione dei prodotti agroalimentari italiani. In particolare sarebbero colpiti alcuni prodotti, a partire dallo spumante, per cui nel 2016 l’isola di Albione è stato il primo sbocco commerciale,  con un aumento del 36% di bottiglie esportate nel primo trimestre che ha portato al sorpasso sugli Stati Uniti.

Per effetto della inevitabile svalutazione in caso di uscita dall’Ue, infatti, i rapporti commerciali sarebbero sconvolti. Un vero problema, dato che il saldo commerciale agroalimentare con l’Italia è decisamente positivo; la Gran Bretagna importa in un anno 3,2 miliardi di euro dall’Italia, con una tendenza progressiva all’aumento, mentre esporta verso il nostro Paese 701,9 milioni di euro, con le esportazioni che superano di 4,6 volte le importazioni. Ad essere maggiormente colpiti sarebbero i prodotti  piùrichiesti: lattiero caseari, ortofrutta e vino e spumanti.

 

Politiche comunitarie, le controverse etichette semaforo

Gli effetti riguarderebbero anche le politiche comunitarie: la Coldiretti ricorda che la Gran Bretagna riceve il 7% delle risorse destinate alla politica agricola dall’Unione Europea e si posiziona al sesto posto nella classifica dei maggiori beneficiari, nonostante sia al tredicesimo posto come numero di aziende agricole che sono circa 187mila. Inoltre storicamente la Gran Bretagna è il Paese che ha contrastato maggiormente le politiche di tutela qualitativa delle produzioni agricole a favore di una standardizzazione verso il basso.

L’ultima battaglia che oppone l’Ue alla Gran Bretagna è quella sulle etichette a semaforo. Allo scorso aprile risale il parere del Parlamento europeo sulla Relazione Kaufmann relativa al programma di controllo dell’adeguatezza e dell’efficacia della regolamentazione europea, nella quale si invita la Commissione a “riesaminare la base scientifica, l’utilità e la fattibilità ed eventualmente a eliminare il concetto di profili nutrizionali”, ovvero quelle soglie tecniche di determinati nutrienti “critici” (come grassi, grassi saturi, zuccheri, sale). Fino ad ora la Commissione non ha mai dato seguito alla loro definizione e ha di fatto tollerato la decisione della Gran Bretagna di far adottare il sistema “a semaforo” dal 98% dei supermercati inglesi. Si tratta di una informazione visiva sul contenuto di nutrienti con i bollini rosso, giallo o verde ad indicare il contenuto di nutrienti critici per la salute. La segnalazione sui contenuti di grassi, sali e zuccheri non si basa sulle quantità effettivamente consumate, ma solo sulla generica presenza di un certo tipo di sostanze. Con la conseguenza di escludere dalla dieta alimenti sani e promuovere, ad esempio le bevande gassate senza zucchero. Vittime illustri del sistema sono risultati il 60% delle produzioni Made in Italy, dal Prosciutto di Parma al Parmigiano Reggiano e Grana Padano, ma anche gli oli extravergine di oliva, la mozzarella o le nocciole

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