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Dazi Usa, al via la conta dei danni nel food & beverage italiano

La guerra commerciale con gli Usa è ufficialmente cominciata: sono oltre 100 i Paesi su cui impatteranno i dazi voluti da Donald Trump e tra questi c’è ovviamente l’Italia. Brilla l’assenza nell’elenco di Russia e Corea del Nord, come ha rimarcato già nelle prime ore la stampa internazionale. In sintesi, a partire dal 5 aprile gli Usa applicheranno dazi del 10% su tutte le importazioni e per alcune nazioni – per esempio il Regno Unito – questa sarà l’unica misura adottata. Dal 9 aprile entreranno in vigore tariffe più pesanti e differenziate per una sessantina di Paesi: nel caso dell’Unione Europea – e dell’Italia, dunque – saranno pari al 20%, mentre il 34% annunciato per la Cina dovrebbe andarsi ad aggiungere al 20% già previsto, portando il totale a ben il 54%. Anche per l’Unione Europea e l’Italia le nuove tariffe si vanno a sommare a quelle già applicate per le singole merci. La conta dei danni per il nostro Paese è subito iniziata, accompagnata anche da proposte per affrontare l’emergenza: “Con i sanguinosi dazi americani al 20% il mercato dovrà tagliare i propri ricavi di 323 milioni di euro all’anno – dichiara Lamberto Frescobaldi, Presidente di Unione italiana vini (Uiv) – pena l’uscita dal mercato per buona parte delle nostre produzioni. Perciò Uiv è convinta della necessità di fare un patto tra le nostre imprese e gli alleati commerciali d’oltreoceano che più di noi traggono profitto dai vini importati; serve condividere l’onere dell’extra-costo ed evitare di riversarlo sui consumatori”.

UIV AUSPICA UNA REAZIONE DI FILIERA
Secondo un’analisi dell’Osservatorio Uiv, l’unica soluzione è infatti da ricercare lungo la filiera, con il mercato – dalla produzione fino a importatori e distributori – che dovrebbe farsi carico di un taglio dei propri ricavi per un valore pari a 323 milioni di euro (su un totale di 1,94 miliardi) e mantenere così gli attuali assetti di pricing. Sempre in base ai calcoli di Uiv, ben il 76% delle 480 milioni di bottiglie tricolori spedite lo scorso anno verso gli Stati Uniti si trova in “zona rossa” con una esposizione sul totale delle spedizioni superiore al 20%. I picchi si registrano per il Moscato d’Asti (60%), il Pinot grigio (48%), il Chianti Classico (46%), i rossi toscani Dop al 35%, i piemontesi al 31%, così come il Brunello di Montalcino, per chiudere con il Prosecco al 27% e il Lambrusco. In totale sono 364 milioni di bottiglie, per un valore di oltre 1,3 miliardi di euro, ovvero il 70% dell’export italiano verso gli Stati Uniti. Per Paolo Castelletti, Segretario Generale di Uiv (nella foto in alto), “Rispetto ai partner europei, l’Italia presenta due principali fattori di rischio: da una parte la maggiore esposizione netta sul mercato statunitense, pari al 24% del valore totale dell’export contro il 20% della Francia e l’11% della Spagna. Dall’altra, una lista di prodotti più sensibili su questo mercato, sia in termini di esposizione, che di prezzo medio a scaffale: solo il 2% delle bottiglie tricolori vendute in America vanta un price point da vino di lusso, mentre l’80% si concentra nelle fasce “popular”, che tradotto in prezzo/partenza significa in media poco più di 4 euro al litro”.

CENTROMARCA AVVIA UN’INDAGINE SUL FRONTE INDUSTRIALE
Dal canto suo, Centromarca ha avviato un’indagine rapida per misurare l’impatto che i dazi americani avranno sull’industria di marca e fornire dati utili in sede nazionale ed europea. “Nel settore del largo consumo il prezzo è una componente significativa – sottolinea Vittorio Cino, Direttore Generale di Centromarca –. Le conseguenze non dovrebbero essere omogenee: ogni merceologia ha specifiche dinamiche di esportazione, variabili produttive e commerciali. Per esempio, ci sono diverse elasticità della domanda alle variazioni di prezzo che i dazi potranno determinare per i consumatori. Certo la scelta statunitense crea una discontinuità senza precedenti nel mercato globale: ci vorrà tempo e un’attività diplomatica di vasta portata per recuperarla”.

GLI EFFETTI SUI COMPORTAMENTI DEL CONSUMATORE STATUNITENSE
Secondo una ricerca, condotta in questi giorni negli Stati Uniti da YouGov per Centromarca, circa la metà dei consumatori americani utilizza prodotti grocery italiani: il 14% lo fa ogni settimana, il 25% mensilmente. Tra i prodotti usati abitualmente, nelle prime cinque posizioni troviamo pasta (50% di citazioni), seguita da olio di oliva (46%), formaggi (38%), salse (37%) e vino (33%). In merito all’effetto dazi solo il 16% dei consumatori afferma di essere disposto a pagare di più per acquistare prodotti grocery italiani, il 48% afferma di essere disposto a spendere la stessa cifra che sborsa per altri prodotti, il 10% vorrebbe investire di meno, il 26% non ha un’opinione precisa. Fatto cento coloro che consumano prodotti grocery made in Italy, il 47% asserisce che in caso di aumento dei dazi manterrebbe la quantità di prodotti italiani acquistati, mentre il 30% la ridurrebbe. Tra gli elementi che guidano l’acquisto di prodotti italiani primeggiano qualità percepita, reputazione della marca e rapporto qualità/prezzo.

L’EXPORT DI PRODOTTI DI LARGO CONSUMO NEGLI STATI UNITI
Alcuni dati elaborati da Nomisma per Centromarca descrivono l’importanza dello sbocco statunitense per le produzioni grocery alimentari e non food italiane. Tra il 2023 e il 2024 l’incremento delle importazioni a valore negli Usa è stato del +16%, da 8,5 a 9,9 miliardi di euro. In dettaglio, l’alimentare cresce da 6,8 a 8,0 miliardi di euro e i prodotti per la cura della casa e della persona da 1,7 a 1,9 miliardi di euro. Nel decennio 2014 – 2024 il fatturato grocery complessivo è passato da 3,8 a 9,9 miliardi di euro, pari a una crescita del +161%. Le analisi mostrano che nel 2024 il peso degli Usa sull’export italiano food & beverage era pari al 12%; 13% per i prodotti cura casa/persona. Il 72% dell’export di sidro italiano (spesso usato come intermedio di lavorazione) ha come canale di sbocco gli states. Seguono: acque minerali (41%), olio di oliva (32%), aceti (30%), liquori (26%), vini fermi/frizzanti (25%), spumanti (24%), formaggi duri/semi duri (19%), profumi/fragranze (18%), pasta (16%), trucchi/prodotti di bellezza (15%), conserve di pomodoro (7%). Per il 54% dei consumatori statunitensi acquistare un prodotto alimentare di marca italiana è sinonimo di bontà, per il 49% di qualità delle materie prime, per 36% di sicurezza e tutela della salute. Nell’ambito dei prodotti per il personal & home care il 53% delle persone trova qualità delle materie prime, il 49% sicurezza, il 32% sostenibilità ambientale.

IL POSIZIONAMENTO PREMIUM SALVERÀ IL PARMIGIANO REGGIANO?
A confidare nella specificità della nostra produzione è Nicola Bertinelli, Presidente del Consorzio Parmigiano Reggiano (nella foto a destra): “I dazi sul nostro prodotto passano dal 15% al 35%. Di certo la notizia non ci rende felici, ma il Parmigiano Reggiano è un prodotto premium e l’aumento del prezzo non porta automaticamente ad una riduzione dei consumi. Lavoreremo per cercare con la via negoziale di fare capire per quale motivo non ha senso applicare dazi a un prodotto come il nostro che non è in reale concorrenza con i parmesan americani. Ci rimboccheremo le maniche per sostenere la domanda in quello che è il nostro primo mercato estero e che rappresenta oggi il 22,5% della quota export totale. Il Parmigiano Reggiano copre circa il 7% del mercato dei formaggi duri a stelle e strisce e viene venduto a un prezzo più che doppio rispetto a quello dei parmesan locali. Nel 2019, quando Trump introdusse tariffe aggiuntive pari al 25%, il Parmigiano Reggiano fu il prodotto più colpito con un incremento del prezzo a scaffale dai 40 ai 45 dollari al chilo. Fortunatamente i dazi sono poi stati sospesi il 6 marzo del 2021 e non ci hanno creato problemi in termini di vendite. Gli americani hanno continuato a sceglierci anche quando il prezzo è aumentato. Negli Stati Uniti chi compra il Parmigiano Reggiano fa una scelta consapevole: ha infatti un 93% di mercato di alternative che costano 2-3 volte meno”.

ALLARME NEL MONDO COOPERATIVO
Fortemente impattato è anche il tessuto cooperativo: negli Usa il fatturato delle cantine cooperative è di oltre 570 milioni di euro, il 30% di tutto l’export vitivinicolo nel mercato statunitense, mentre per un altro settore ad alto valore aggiunto con le sue produzioni DOP come i formaggi, le cooperative commercializzano negli Stati Uniti 122 milioni di euro, il 25% di tutte le vendite di formaggi negli Usa, che nel 2024 hanno toccato quota 484 milioni di euro. Seguono poi altre filiere e prodotti in cui la cooperazione esporta valori significativi come il pomodoro da industria. “Per quanto riguarda il settore vino – dice Raffaele Drei, Presidente di Confcooperative Fedagripesca (nella foto in alto) – occorre destinare maggiori risorse per la promozione, se davvero vogliamo aiutare le aziende ad acquisire nuovi mercati. Andrà fatto inoltre un grande lavoro di sburocratizzazione nelle procedure per l’accesso ai bandi. All’Europa chiediamo misure per la promozione più snelle e in generale risposte più efficaci rispetto al passato perché quelle attuali risultano un po’ timide rispetto all’urgenza di aggredire nuovi mercati”. Più in generale, per altri settori fortemente orientati alle esportazioni, le istituzioni secondo Drei “dovranno concentrarsi maggiormente nei rapporti internazionali per promuovere rapporti bilaterali con altri paesi extra-Ue, anche attraverso nuovi accordi di libero scambio al fine di migliorare canali commerciali già consolidati o aprire altri mercati in cui oggi è difficile conquistare quote di mercato. Il settore lattiero-caseario rischia di veder compromessa la stabilità della tutela delle Dop con il conseguente proliferare dell’Italian sounding”.

Regali natalizi: per gli italiani è determinante il prodotto di marca

La marca occupa un ruolo centrale nel settore del largo consumo: secondo una recente rilevazione SWG per Centromarca, il 43% degli italiani intervistati ritiene i prodotti di marca un punto di riferimento al momento della scelta dei regali natalizi, con punte del 50% per l’alimentare, del 48% per i prodotti destinati alla cura della casa e del 47% per la cura persona. La presenza del brand quindi, ha un peso fondamentale tra i criteri di scelta anche nel periodo natalizio, a tal punto che il 65% dei consumatori dichiara di cercare il prodotto preferito presso altri rivenditori se non lo trova nel punto di vendita abituale. Un italiano su due presta attenzione alla marca per gli acquisti natalizi: il 35% lo fa per gli alimenti e le bevande messi in tavola, il 26% per i regali in genere, il 13% per i prodotti per la casa. Ad esaltare il valore del brand nei consumi delle festività sono principalmente la capacità di esprimere alta qualità (indicata dal 66% dei consumatori), la reputazione (34%), la storia e tradizione (30%), il packaging (19%) e valori legati alla responsabilità sociale d’impresa come l’approccio etico al mercato e la sostenibilità (19%).

“Quando pensiamo a qualcosa di valore da mettere in tavola o da regalare, il pensiero va immediatamente a una grande marca conosciuta – sottolinea Vittorio Cino, Direttore di Centromarca -. A Natale i prodotti di marca confermano la loro centralità nelle preferenze dei consumatori. In Italia concentrano il 54,5% della quota di mercato grocery nel canale iper/super/libero servizio: è tra le più elevate d’Europa, nettamente superiore al 23% circa delle private label (Fonte NIQ, gennaio/settembre 2024). L’incidenza dei prodotti commercializzati dalle industrie associate a Centromarca sul valore dello scontrino del supermercato è del 66%, con una crescita degli atti d’acquisto del 12% rispetto al 2022 (Fonte: YouGov, settembre 2024). Le aziende Centromarca concentrano il 24% degli investimenti pubblicitari. I nostri beni contribuiscono alla dinamicità della domanda in una fase di particolare debolezza del potere d’acquisto delle famiglie, che sarebbe ulteriormente penalizzato dal varo di nuove tasse sui consumi, come la sugar e la plastic tax, rispetto alle quali siamo nettamente contrari”.

“Nonostante la riduzione del potere d’acquisto, gli italiani confermano l’importanza della spesa alimentare di qualità nel periodo natalizio – conferma Alessandra Dragotto, Head of Research di SWG -. Questi aspetti sono prioritari nell’allocazione del budget anche tra coloro che dichiarano di dover ridurre le spese rispetto al 2023. Questo orientamento dimostra come il valore attribuito ai prodotti di marca, soprattutto nel settore alimentare, sia centrale in una festività all’insegna della qualità e della cura nelle scelte. Lo studio mette in luce un legame emotivo e di fiducia con i prodotti, che va oltre la semplice convenienza e rafforza il ruolo della marca come elemento imprescindibile nelle festività”.

Numeri positivi per l’industria di marca, un volano strategico per il made in Italy

Valore condiviso per 87,2 miliardi di euro (pari al 4,2% del prodotto interno lordo) con una crescita del 19% rispetto ai 73 miliardi rilevati nel 2019. L’apporto alla contribuzione fiscale invece è di 28,7 miliardi di euro (pari al 5% delle entrate fiscali 2023), di cui 12,9 miliardi riconducibili all’Iva, 12,2 miliardi a imposte e contributi sociali sul lavoro, 3,5 miliardi a imposte sul reddito delle società. Sono questi i numeri generati dalle industrie Centromarca, secondo uno studio redatto da Althesys Strategic Consultants.

“Il valore dell’Industria di marca va oltre il semplice, seppur notevole, contributo economico – sottolinea Francesco Mutti, Presidente di Centromarca –. La marca investe in innovazione sostenibile, ricerca, crescita dei talenti e delle competenze, offre ricadute sui territori, è volano di attrazione di investimenti per il sistema Paese ed è leader del made in Italy. L’industria di marca è attore indispensabile di un settore, quello del largo consumo, che rappresenta una filiera strategica per il Paese e chiede una seria politica industriale che porti maggiore efficienza al sistema”.

Secondo l’indagine, ogni lavoratore delle industrie Centromarca contribuisce a creare 7,2 posti di lavoro in Italia, l’equivalente di 1 milione di persone (pari al 4,1% degli occupati), di cui 738.760 nella filiera del largo consumo: 72.056 tra i fornitori, 131.522 nella produzione, 6.195 nella logistica, 528.987 nella distribuzione e vendita. Le imprese associate generano, inoltre, 26,6 miliardi di euro di salari lordi (+17% rispetto al 2019), pari al 3,2% del totale dei redditi da lavoro dipendente e al 15,7% delle retribuzioni dell’industria manifatturiera.

Il valore condiviso creato dall’attività produttiva delle associate Centromarca è pari a 26,9 miliardi di euro: 13,5 miliardi di valore aggiunto, 9,1 miliardi di ricadute indotte, 4,2 miliardi di Iva e 100 milioni di donazioni. Altri 13,9 miliardi di valore sono creati dai fornitori (materie prime, agricoltura, allevamento, imballaggi, macchinari, ecc.), un miliardo dagli operatori logistici e 45,4 miliardi dai canali commerciali (moderna distribuzione, ingrosso, dettaglio tradizionale, fuori casa, ecc.). “Senza la base produttiva industriale italiana, i fornitori non avrebbero mercati sufficienti e a valle mancherebbero i prodotti destinati alla commercializzazione verso i consumatori. La produzione nazionale è dunque strategica, come per altro emerso chiaramente durante il lockdown del 2020, nel quale le aziende associate a Centromarca sono state determinanti per il nostro sistema economico e i cittadini” spiega Alessandro Marangoni, CEO di Althesys.

“Per mantenere questo ruolo proattivo nel Paese è indispensabile un quadro normativo che favorisca la crescita dimensionale delle nostre industrie e gli investimenti destinati alla ricerca – prosegue Francesco Mutti –. Altrettanto prioritari sono gli interventi per garantire il rispetto delle leggi e la correttezza della concorrenza. Vorremmo focalizzare le nostre richieste su misure a costo zero per le casse dello Stato: pensiamo a interventi di semplificazione e di efficientamento della logistica di filiera, in un’ottica di spinta alla digitalizzazione. Stiamo concentrando su questi ambiti l’azione di Centromarca ai tavoli politico-istituzionali, con l’obiettivo di rafforzare la competitività delle nostre imprese sui mercati interno e internazionale. Ovviamente siamo contrari a qualsiasi inasprimento delle imposte sui consumi, che ridurrebbe ulteriormente il potere d’acquisto delle famiglie italiane”.

Centromarca: occorre una politica industriale che non penalizzi l’Italia nel mercato globale

Nel corso dell’incontro “Geopolitica, società, innovazione – Scenari e priorità per l’Industria di Marca” promosso alla Triennale di Milano, Centromarca, Associazione Italiana dell’Industria di Marca, ha richiamato l’attenzione del governo su temi come competitività, innovazione, sostenibilità e legalità. “Abbiamo bisogno di una politica industriale che favorisca fusioni e acquisizioni, perché la taglia delle nostre imprese ci penalizza nel mercato globale”, ha sottolineato il Presidente Francesco Mutti. “È inoltre fondamentale finalizzare le risorse pubbliche sui comparti strategici e creare le condizioni migliori per gli investimenti, in particolare quelli destinati alla digitalizzazione e allo sviluppo sostenibile”. Nette pure le considerazioni sulla legalità: “Chi non rispetta le regole, altera la concorrenza e compete in modo sleale. L’illegalità si combatte con leggi chiare e controlli rigorosi, perché il corretto andamento del mercato è elemento d’interesse collettivo”.

Su questo ventaglio di priorità, Centromarca ha quindi concentrato i suoi interventi ai tavoli istituzionali, portando la voce di un settore fondamentale per l’Italia: 200 aziende industriali manifatturiere, alimentari e non food, che commercializzano 2.400 marchi, sviluppano un giro d’affari di 64 miliardi di euro (in un mercato Gdo che vale 94 miliardi) e occupano 97mila persone. Una compagine di realtà eccellenti da cui scaturiscono 70 miliardi di valore condiviso a monte e a valle della loro attività (un quarto del prodotto interno lordo dei soli settori agroalimentare e vitivinicolo). Ogni occupato nell’industria di marca genera sette posti di lavoro nella filiera del largo consumo e dieci complessivi in Italia. L’associazione è impegnata nel contrasto all’introduzione di nuove tasse sui consumi e a qualsiasi ipotesi di rafforzamento di quelle esistenti. “Gli effetti che ne deriverebbero sul potere d’acquisto delle famiglie, sulla dinamica della domanda interna e sui livelli occupazionali sarebbero fortemente negativi”, ha rilevato Mutti. 

“Siamo il comparto responsabile che ha evitato di scaricare a valle istantaneamente i pesanti aumenti esogeni di costo che in questi anni sono piovuti sui nostri conti economici”, ha ricordato ancora Mutti. L’analisi dei bilanci mostra che tra il 2020 e il 2022 l’incidenza dei costi sostenuti, dalle industrie aderenti a Centromarca, per l’acquisto di materie prime è cresciuta dal 54,5% al 57,8%. Energia elettrica, acqua e gas hanno visto il loro peso aumentare dall’1,3% al 2,4%. Gli extracosti sono stati in parte assorbiti nei conti economici e in parte trasferiti a valle con estrema gradualità. Per effetto della crescita dei costi l’utile netto complessivo è calato dal 5,5% al 4,6%. A una fase critica per la congiuntura e i mercati l’industria di marca, nel suo insieme, ha risposto mantenendo o potenziando gli investimenti. Il 6% delle entrate è stato destinato alla ricerca e allo sviluppo. Il 63% delle aziende ha aumentato gli impieghi in tecnologie digitali, come le piattaforme di e-commerce, l’intelligenza artificiale e gli strumenti per la gestione dei big data. Oltre il 70% ha aumentato gli stanziamenti destinati alla sostenibilità, con focus sulla riduzione delle emissioni di anidride carbonica e sull’adozione di pratiche di economia circolare. L’industria del largo consumo, complessivamente, rappresenta l’11,6% di tutti i beni manifatturieri nell’Unione europea. Il 61%, pari a 276 miliardi di euro, resta all’interno dei confini; il 39%, pari a 174 miliardi di euro, è esportato. I prodotti di marca europei, particolarmente richiesti in tutto il mondo, rappresentano il 33% del saldo commerciale positivo dell’Ue. Investendo 81 miliardi di euro l’anno nell’Unione Europea, l’industria dei beni di largo consumo contribuisce significativamente alla competitività e all’innovazione.

Alle tavole rotonde di approfondimento che hanno caratterizzato l’incontro hanno preso parte: Paolo Barilla (Vicepresidente Gruppo Barilla), Marco Bentivogli (esperto di politiche industriali e del lavoro Base Italia), Mirja Cartia d’Asero (Amministratrice delegata Gruppo 24 Ore), Roberto Leopardi (Group ceo e general manager Bolton), Paolo Magri (Vicepresidente esecutivo Ispi), Mara Panajia (Presidente e amministratrice delegata Henkel Italia), Corrado Passera (Fondatore e amministratore delegato illimity), Vincenzo Perrone (Professore ordinario Università Bocconi), Cristina Scocchia (Chief executive officer illycaffé), Andrea Scotti Calderini (Fondatore e ceo Freeda), Veronica Squinzi (Amministratrice delegata Gruppo Mapei), Massimiliano Valerii (Direttore generale Censis). Per le conclusioni è intervenuto il ministro dell’Economia e delle finanze Giancarlo Giorgetti.

Industrie di marca, i rincari continuano a frenare i consumi

Nonostante l’attenuazione delle pressioni sui costi di produzione, le previsioni sulla redditività delle industrie di marca alimentari e non food restano caute. A dirlo sono le evidenze dell’Osservatorio Congiunturale Centromarca redatto a fine marzo dall’associazione, col supporto di Ref Ricerche, su un campione di 145 manager (amministratori delegati e direttori di funzione) attivi nelle aziende associate. Solo il 23% attende un aumento dei profitti, mentre il 51% li prevede sui livelli dell’anno precedente.

Nel 2022 il sensibile aumento dei costi di produzione ha portato il 6% delle industrie associate a produrre in perdita e il 43% a registrare profitti in riduzione (in misura superiore al 10% nel 22% dei casi). La dinamica dei prezzi registrata in questi mesi è dovuta all’esigenza di scaricare a valle gli extracosti sostenuti. Nuove tensioni sui costi di produzione potrebbero creare difficoltà alle aziende, anche alla luce del fatto che il ricorso al credito è più oneroso per effetto dell’aumento dei tassi di interesse. In positivo l’indagine non evidenzia problemi di liquidità, ritenuta adeguata alle esigenze dell’attività corrente dal 75% delle aziende.

L’Osservatorio Congiunturale Centromarca conferma l’andamento debole della dinamica dei consumi nei primi mesi del 2023. A confronto con lo stesso periodo dell’anno precedente aumenta infatti la percentuale di quanti segnalano un arretramento delle vendite (dal 21% al 34%), mentre si riducono coloro che registrano un aumento (dal 53% al 41%). Le scorte si mantengono “nella norma” per il 67% delle aziende, “troppo alte” per il 16% e “troppo basse” per il 17%. Le prospettive appaiono prudentemente positive: la percentuale del campione che ritiene probabile un aumento delle vendite nei prossimi sei mesi passa dal 17% al 36% e quella di coloro che considerano possibile una riduzione dal 39% al 28%. Per il 96% degli intervistati i livelli occupazionali dovrebbero mantenersi stabili. Restano sotto stretta osservazione i prezzi dell’energia: l’84% del campione afferma che la fase più intensa delle tensioni è stata superata, ma considera che i costi si attesteranno su livelli superiori rispetto a quelli prevalenti prima del conflitto in Ucraina.

Centromarca valuta positivamente la recente scelta del Governo di tagliare i contributi a carico dei lavoratori dipendenti con redditi medio bassi, per un valore di oltre tre miliardi di euro a valere sul periodo maggio – dicembre 2023. «È un contributo al sostegno del potere d’acquisto», rileva Vittorio Cino, direttore generale di Centromarca. «Ed è un’ulteriore risposta alle richieste avanzate dalle aziende industriali e distributive in una fase di particolare debolezza della domanda. Ora auspichiamo la concretizzazione di altri interventi a sostegno delle famiglie e delle imprese. Per esempio, il taglio della pressione fiscale e il varo di provvedimenti che favoriscano gli investimenti e la crescita dimensionale delle aziende».

Rincari materie prime ed energia, chiesta la convocazione di un tavolo di filiera

L’industria dei beni di consumo e le aziende della distribuzione moderna chiedono al governo di aprire un tavolo di filiera per valutare le possibili conseguenze del rincaro dei prezzi delle materie prime ed energetiche sulla ripresa economica.

La comunicazione, siglata dai Presidenti di Centromarca e IBC – Associazione Industrie Beni di Consumo – per la parte industriale – e di ANCC-Coop, ANCD-Conad e Federdistribuzione, riunite in ADM – Associazione della Distribuzione Moderna – per la parte distributiva – è stata indirizzata a Presidenza del Consiglio dei Ministri, MISE, MEF, MIPAAF e ai Presidenti delle Commissioni competenti di Camera e Senato.

Nel documento i firmatari esprimono preoccupazione per i rilevanti rincari registrati da beni energetici e materie prime, che si traducono in sensibili incrementi dei costi per le imprese, che interessano merci grezze, processi produttivi, logistica e attività di commercializzazione. Pur ribadendo l’impegno ad agire sui livelli di produttività in tutte le fasi dei processi industriali e distributivi, le Associazioni ritengono indispensabile l’attivazione di un tavolo di filiera con le Istituzioni per individuare forme concrete d’intervento idonee a mitigare l’effetto dei rincari: misure fiscali, provvedimenti per la salvaguardia della competitività delle imprese e del potere d’acquisto delle famiglie, sostegno alla dinamica della domanda interna, elemento fondamentale per la ripresa del Paese.

Industria alimentare e distribuzione insieme per la sostenibilità

«Il pilastro è passare a una visione di lungo periodo e non più di breve perché il nostro obiettivo è creare valore nella filiera nel lungo termine, evitare la discountizzazione dell’offerta che porterebbe a un abbattimento delle possibilità di scelta del consumatore»: così ha detto Francesco Mutti, presidente di Centromarca, durante l’incontro “Gli orizzonti della ripresa. Scenari e prospettive per la filiera del largo consumo”.

L’industria alimentare sta vivendo una fase di profondo rinnovamento all’insegna della sostenibilità e della transizione ecologica. Impegni onerosi in un momento in cui materie prime, noli marittimi, bollette energetiche sono a livelli record. Da qui la richiesta di un aiuto pubblico a supporto delle aziende. «La transizione ecologica è irreversibile e non indolore – premette Anna Ascani, sottosegretaria del Mise che aggiunge: «Ci può essere una collaborazione tra Stato e imprese».

Sul fronte dei consumi quelli delle famiglie continuano a restare stabili, «con una domanda interna flat, polarizzata perché una parte del paese è in difficoltà – ricorda Marco Pedroni, presidente Associazione Distribuzione Moderna. Cresce la domanda di fascia alta e green e aumentano molto anche gli acquisti di base». Uno scenario in cui «la fiducia delle famiglie è al massimo ma non si vede una reale ripresa dei consumi ed è raddoppiata la propensione al risparmio. E sostenibilità non è detto che faccia rima con aumento dei prezzi» aggiunge Alberto Frausin, presidente Federdistribuzione. «C’è un tema di creazione del valore che passa dalla collaborazione tra industria, filiera e distribuzione. Bisogna pensare come catturare il valore» aggiunge Alessandro d’Este, presidente dell’Associazione Industrie beni di consumo.

Così industria e distribuzione si preparano a collaborare insieme in una visione di lungo periodo.

Fonte: Il Sole 24 Ore

IdM: cauto ottimismo per il futuro. I dati dell’Osservatorio di Centromarca

Ottimisti ma con cautela: questo l’atteggiamento dei protagonisti dell’IdM, emerso dall’Osservatorio Congiunturale Centromarca. Basti pensare, per esempio, che l’impatto del covid sulle vendite viene visto negativamente da un 40% del campione, a fronte di un 48% più positivo. E ancora: per il 53% degli imprenditori, la crisi non ha impattato gli investimenti.

Inoltre dall’indagine prevale un’opinione favorevole sulla scelta dei governi guidati da Giuseppe Conte e Mario Draghi di adottare misure importanti dal lato del bilancio pubblico, anche se ci si sarebbe aspettato qualcosa di più e di diverso: il 58% dei capi d’azienda considera, infatti, che sarebbe stato possibile un utilizzo migliore delle risorse stanziate, mentre il 38% ritiene che sarebbero serviti maggiori sostegni alle imprese e ai lavoratori in difficoltà. A vedere tutto nero, infine, solo un 4%, che ha espresso una valutazione sfavorevole riguardo a questa impostazione, esprimendo preoccupazioni per la dimensione del debito pubblico del nostro Paese.

Vediamo i risultati nel dettaglio. Come anticipato, gli impatti della pandemia non sono stati uniformi nelle diverse IdM. Il 48% dei manager intervistati registra effettivi positivi per le vendite, potenzialmente continuativi secondo il 16% degli intervistati. Il 40% evidenzia effetti negativi, ma il 30% li considera transitori. L’impatto asimmetrico di Covid-19 richiede alle IdM strategie di risposta differenziate a seconda delle caratteristiche aziendali e del tipo di beni prodotti. Se si guarda alle prospettive, il 44% dei capi d’azienda prevede un aumento delle vendite, il 36% stabilità, il 20% diminuzione. La portata della crescita nei prossimi sei mesi dipenderà sia dal ritmo della campagna vaccinale sia dai provvedimenti adottati dall’esecutivo.

Investimenti

In quest’ambito, nonostante la crisi economica e l’incertezza delle prospettive, il 53% dei manager dichiara che la crisi Covid-19 non ha modificato gli investimenti aziendali; il 18% indica un impatto positivo. A trainare gli investimenti sono in particolare: innovazione di prodotto (58% dei rispondenti), introduzione di nuove tecnologie (32%), aspettative di vendita favorevoli (30%). Tra i fattori frenanti il 48% dei capi d’azienda evidenzia l’incertezza sull’evoluzione della pandemia, il 46% il timore di un generalizzato impoverimento dei consumatori italiani, il 40% incertezza sulle prospettive di medio termine.

Liquidità

Anche in questo caso le risposte lasciano intravedere un pragmatismo ottimista: 79% dei rispondenti giudica adeguato il livello di liquidità dell’azienda; il 18% lo considera alto; il 3% lo reputa insufficiente. Le evidenze dell’Osservatorio sono coerenti con le statistiche bancarie, che descrivono un’ampia disponibilità di credito alle imprese, a fronte peraltro di un significativo aumento del volume dei depositi bancari delle stesse. È un effetto dei finanziamenti della Banca Centrale Europea al sistema bancario e delle garanzie pubbliche al credito bancario. La volontà delle imprese di investire sarà assecondata nei prossimi mesi dalla disponibilità di risorse per finanziare gli investimenti programmati.

Ordinativi

Tenendo conto del periodo dell’anno, il 41% dei rispondenti giudica normale l’attuale livello del portafoglio ordini; il 28% lo colloca al di sopra dell’ordinario; il 30% inferiore. Le previsioni per i prossimi sei mesi sono di incremento per il 44% dei manager; di stabilità per il 36% e di diminuzione per il 20%.

Occupazione

Nonostante l’innegabile crisi occupazionale innescata dalla pandemia, risulta che la maggior parte dei manager intervistati (82%) esprime aspettative di stabilità del numero di addetti della loro azienda nei prossimi tre mesi; l’11% prevede un aumento degli organici; il 7% una diminuzione.

“I dati confermano la forza delle nostre industrie sul mercato interno ed internazionale”, commenta Francesco Mutti, presidente di Centromarca. “I risultati sono conseguiti grazie alla capacità di presidiare la fascia medio-alta dei beni di consumo e adottando strategie di costante upgrade qualitativo dei prodotti. L’IdM non esce ridimensionata dalla crisi del Covid-19: le imprese esportatrici hanno aumentato le quote sui mercati esteri, mentre quelle operanti soprattutto sul mercato interno hanno saputo reggere alla pressione competitiva”.

Nota Metodologica

L’Osservatorio Congiunturale Centromarca, redatto semestralmente – con il supporto di Ref Ricerche – dà voce alle valutazioni espresse dai capi d’azienda delle più importanti industrie alimentari e non food operanti in Italia. Fotografando il presente e le attese, rappresenta un punto di osservazione di primo piano per valutare le tendenze dell’economia italiana. L’indagine è stata svolta tra l’1 e l’11 marzo; l’elaborazione si è conclusa il 19 marzo.

Centromarca: dalle industrie aderenti 73 miliardi di valore condiviso

Storicamente le marche accompagnano il nostro vissuto quotidiano. Ma qual è il loro valore condiviso prodotto oggi dalle industria di marca? Secondo le evidenze dello studio redatto per Centromarca da Althesys Strategic Consultants,  parliamo di circa 73,1 miliardi di
euro, pari al 4% del Pil 2019. È un ammontare equivalente al 120% circa dell’intera produzione italiana di agricoltura, silvicoltura e pesca e a un terzo dei fondi del Recovery fund. Rispetto al totale, 12,5 miliardi di euro sono generati con il ricorso a fornitori italiani, 16,2 miliardi nella fase di produzione delle industrie di marca, 1,3 miliardi con la logistica e 43,1 miliardi con i diversi canali distributivi (di cui 10,3 con la moderna distribuzione). È parte del valore condiviso anche la contribuzione fiscale: 30,2 miliardi di euro, pari al 6,4% delle entrate fiscali italiane del 2019. Secondo le stime di Althesys, ogni addetto dell’industria di marca genera 7 occupati nella filiera e 10 nell’intera nazione. 

Il food

Il comparto alimentare genera 28 miliardi di euro di valore condiviso (38,3% del totale), 11,7 miliardi di contribuzione fiscale e oltre 290mila posti di lavoro. Si distingue per l’alto valore creato nelle fasi a monte della filiera, cioè per i fornitori, evidenziando lo stretto rapporto tra l’industria di marca e le filiere agricola e zootecnica. Il 49% del valore generato nella fase di distribuzione e vendita è per la moderna distribuzione, dove passano i maggiori volumi. L’industria rimane, tuttavia, la principale creatrice di valore condiviso se comparata ai singoli canali distributivi. Le bevande creano 34 miliardi di euro di valore condiviso, 14 miliardi di contribuzione fiscale e oltre 359mila posti di lavoro. Il comparto crea un cospicuo valore per la distribuzione‐vendita, in particolare nell’Horeca dove si concentra il 57% della ricchezza generata nella filiera.

Il non food

I prodotti chimici per la cura della persona e della casa creano 11,1 miliardi di euro di valore condiviso, 4,5 miliardi di contribuzione fiscale e oltre 103mila posti di lavoro.
«L’industria di marca italiana è un motore di sviluppo per l’intero sistema economico, che crea ricchezza e benessere ben oltre i confini delle imprese», sottolinea Alessandro Marangoni, amministratore delegato di Althesys Strategic Consultants. «Il nostro studio mostra, numeri alla mano, come il valore condiviso generato dalle imprese aderenti a Centromarca pervada l’intera filiera. La capacità della marca di creare valore condiviso è un elemento concreto per la resilienza e il rilancio dell’Italia».

La sostenibilità 
Secondo le evidenze dell’indagine redatta dal dipartimento di Economia aziendale
dell’Università Roma Tre (redatta nel 2020 sulla base di dati pubblici) il 74% delle industrie
aderenti a Centromarca dà conto pubblicamente, attraverso Internet, della sua attività nel campo della sostenibilità ambientale, sociale ed economica. Il 57% di queste aziende diffonde un bilancio di sostenibilità: è una percentuale rilevante se si considera che in Italia lo fa solo il 19% delle imprese (dato Istat, basato su dichiarazioni). Il 65% delle industrie che rendicontano dichiara i suoi impegni futuri, indicando obiettivi quantitativi misurabili.
Sul fronte ambientale il 72% delle industrie di marca, che documentano pubblicamente la loro attività, ha realizzato azioni per l’approvvigionamento responsabile delle materie prime; il 69% per il contenimento dei consumi energetici e/o il ricorso a fonti rinnovabili; il 56% per l’utilizzo responsabile della risorsa idrica; il 55% per la riduzione di sprechi/rifiuti; il 50% per la riduzione/riciclo degli imballaggi. In area economico aziendale il 42% delle industrie di marca ha al suo attivo iniziative di formazione/aggiornamento del personale; il 43% per le quote rosa; il 42% per la prevenzione infortuni; il 37% per incrementare l’occupazione. In area sociale il 61% delle industrie di marca destina risorse economiche alla comunità e ai territori.
Nel 2020, secondo stime elaborate da Centromarca, circa 53 milioni di euro sono stati destinati dalle industrie associate a donazioni economiche, acquisto di attrezzature medico-scientifiche, forniture gratuite di materiali ad alto consumo per sostenere ospedali, enti ed istituti di ricerca impegnati nell’assistenza ai malati e nelle attività di studio per contrastare Covid-19. L’attività delle industrie di marca che rendicontano si focalizza attualmente su dieci dei diciassette Sdgs (obiettivi di sviluppo sostenibile) individuati dalle Nazioni Unite: energia  pulita e conveniente (55% delle aziende impegnate); consumo e produzione responsabile (48%); salute e benessere (46%); climate change (44%); tutela della risorsa idrica (43%); qualità del lavoro e crescita economica (43%); lotta alla fame (35%); parità dei sessi (35%); vita sulla terra (35%); partnership per il raggiungimento di obiettivi sostenibili (33%). «Tutte le industrie di marca sono consapevoli del fatto che la competitività è legata all’impegno non solo sui versanti economico e della governance, ma anche sui fronti ambientale e sociale», rileva Carlo Alberto Pratesi, professore di marketing, innovazione e sostenibilitàall’Università Roma Tre.

Industria e Distribuzione: accordo contro le pratiche sleali

Le imprese appartenenti al comparto industriale, rappresentate in Centromarca, Federalimentare e IBC – Associazione Industrie Beni di Consumo, e le imprese del comparto distributivo, rappresentate in Federdistribuzione, ANCC-Coop, ANCD-Conad, insieme ad ADM Associazione Distribuzione Moderna, hanno raggiunto un’intesa per proporre ai legislatori alcune linee guida sull’integrazione della Direttiva UE 2019/633 nell’attuale quadro normativo nazionale per contrastare le pratiche sleali e anticoncorrenziali nel mercato italiano. L’accordo è un importante tassello, concordato da distribuzione e industria del largo consumo, per affermare con sempre maggior impegno la legalità e la correttezza delle relazioni commerciali e il contrasto a qualunque pratica sleale a tutti i livelli della filiera agroalimentare, anche a vantaggio del consumatore finale.

Per le aziende della distribuzione e del largo consumo la libera e leale concorrenza e il rispetto della legalità sono due principi portanti della filiera, fondamentali per continuare a offrire ai consumatori prodotti di qualità al giusto prezzo, per tutelare la sana occupazione e per sostenere la rete delle PMI, in particolar modo in campo agricolo, favorendone l’efficienza e dunque la crescita, anche attraverso una maggiore competitività, sia nel mercato italiano sia a livello internazionale.

Entrando nel dettaglio, l’intesa tra distribuzione e industria propone la creazione di un ampio ambito di applicazione della norma, coinvolgendo tutti i soggetti della filiera senza limiti di fatturato, in un contesto di reale reciprocità, quindi di tutela sia dei “fornitori” che dei “clienti” di tutti i comparti interessati. È necessario che a vigilare sull’applicazione della normativa venga individuato un soggetto superpartes rispetto ai diversi comparti interessati, che sia dotato delle adeguate risorse e completamente autonomo. Il nuovo quadro normativo dovrebbe valorizzare la concorrenza e salvaguardare la libera contrattazione, diventando un punto di riferimento per comportamenti corretti da parte di tutti i soggetti. È perciò utile approfondire l’ipotesi di opportune modalità di conciliazione. Infine si ribadisce la necessità di garantire la riservatezza in eventuali fasi istruttorie, il diritto alla difesa e sanzioni dissuasive commisurate alla gravità dei fatti, ma che non compromettano la continuità delle imprese e il loro equilibrio economico.

L’accordo si inquadra dunque in una più ampia intesa tra i due comparti, che puntano sempre più alla modernizzazione delle filiere, ad una equilibrata remunerazione degli operatori, al rispetto dei diritti delle persone e dei lavoratori nella produzione, raccolta, trasformazione e distribuzione dei prodotti alimentari. In coerenza con questa prospettiva, distribuzione e industria dei beni di consumo sono impegnate da anni in un percorso di buone pratiche di sostenibilità sociale, ambientale ed economica.

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