Riprende con vigore la polemica di Coldiretti contro l’etichettatura a semaforo di matrice anglosassone, oggi diffusa in Europa. Il perché lo ha ribadito il presidente della Coldiretti Roberto Moncalvo all’incontro “L’etichetta alimentare corretta che informa senza fuorviare” organizzato da Paolo De Castro ed Elisabetta Gardini: questa modalità di etichettare i prodotti, spiega, “boccia l’85% del Made in Italy Doc, tra cui le prime tre specialità Dop Made in Italy piu’ vendute in Italia e all’estero come il Grana Padano, il Parmigiano Reggiano ed il prosciutto di Parma, ma si arriva addirittura a colpire anche l’extravergine di oliva, considerato il simbolo della dieta mediterranea”.
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Etichette a semaforo: prosegue la polemica di Coldiretti
Sequestro Gm Catania, le agromafie, business in crescita da 21,8 miliardi, anche nella Gdo
Un business in crescita addirittura del 30% nel 2017, e che va ormai dal controllo dei supermercati a quello della distribuzione dei prodotti agroalimentari: è quello delle agromafie, che ormai secondo Coldiretti gestisce un volume d’affari di 21,8 miliardi di euro, con attività che riguardano l’intera filiera agroalimentare. Lo conferma l’ultimo fatto di cronaca che ha visto il maxi-sequestro a Catania di beni per 41 milioni di euro a Michele Guglielmino, di 48 anni, personaggio vicino al clan Cappello-Bonaccorsi., tra cui l’intero patrimonio aziendale della catena di supermercati Gm con 13 supermercati “G.M.” tra Catania provincia.
Secondo Coldiretti le mafie condizionano il mercato agroalimentare stabilendo i prezzi dei raccolti, gestendo i trasporti e lo smistamento, il controllo di intere catene di supermercati, l’esportazione del vero o falso Made in Italy, la creazione all’estero di centrali di produzione dell’Italian sounding e lo sviluppo ex novo di reti di smercio al minuto. “In questo modo la malavita si appropria di vasti comparti dell’agroalimentare e dei guadagni che ne derivano, distruggendo la concorrenza e il libero mercato legale e soffocando l’imprenditoria onesta, ma anche compromettendo in modo gravissimo la qualità e la sicurezza dei prodotti, con l’effetto indiretto di minare profondamente l’immagine dei prodotti italiani e il valore del marchio Made in Italy”.
Sarebbe proprio l’agroalimentare una delle aree prioritarie di investimento della malavita, settore strategico “perché consente di infiltrarsi in modo capillare nella società civile e condizionare la via quotidiana della persone”. All’interno di questa logica i supermercati sono ideali coperture, con una facciata di legalità dietro la quale non è sempre facile risalire ai veri proprietari e all’origine dei capitali.
«Le agromafie vanno contrastate nei terreni agricoli, nelle segrete stanze in cui si determinano in prezzi, nell’opacità della burocrazia, nella fase della distribuzione di prodotti che percorrono migliaia di chilometri prima di giungere al consumatore finale – ha affermato il presidente della Coldiretti Roberto Moncalvo -, ma anche con la trasparenza e l’informazione dei cittadini che devono poter conoscere la storia del prodotto che arriva nel piatto».
Mani anche sulla ristorazione
Anche la ristorazione è bersaglio della criminalità organizzata, e sarebbero cinquemila i locali nelle mani della criminalità. Secondo il presidente Fipe – Federazione Italiana Pubblici Esercizi Lino Enrico Stoppani «La Ristorazione è vittima di un sistema malavitoso che impone ricatti ed estorsioni e che acquisisce locali, completando la sua filiera criminale, inquinando il settore e distorcendo le dinamiche concorrenziali, producendo danni aggiuntivi, anche di natura reputazionale per tutto il comparto, fatto per la stragrande maggioranza di operatori perbene, che lavorano e faticano valorizzando la filiera agro-alimentare».
Sempre secondo Fipe “va ripreso e rafforzato il controllo del territorio, tenuto monitorato lo sviluppo delle imprese, individuando indici di allerta (socio effettivo, importo degli avviamenti pagati, corrispettivi incassati, concentrazione di attività) che evidenzino anomalie sulle quali intervenire, proteggendo i veri imprenditori del settore che devono poter svolgere il loro lavoro liberamente, senza ricatti o distorsioni”.
Pomodoro Made in Italy resta a casa, in cooperativa: Pomì compra De Rica
Soddisfazione da più parti è stata espressa per l’acquisto dello storico marchio De Rica da parte del Consorzio Casalasco del Pomodoro, più noto al pubblico come detentore del marchio Pomì e leader in Italia nella coltivazione, produzione e trasformazione del pomodoro. A cedere il noto brand è Generale Conserve S.p.A., società genovese col core business nel tonno in scatola a marchio AsdoMar. L’operazione, sottolineano le parti, “riporta il rinomato brand nella sua zona originaria di produzione e decreta il passaggio di un altro importante marchio italiano direttamente in mano al mondo agricolo cooperativo, espressione di una filiera tutta italiana con un forte legame col proprio territorio d’origine”. Consorzio Casalasco del Pomodoro Soc.Agr.Coop conta 370 aziende agricole associate che coltivano 7.000 ettari di terreno dislocati nella pianura Padana tra le province di Cremona (dove ha sede a Rivarolo del Re), Parma, Piacenza e Mantova.Una terra che, nell’area padana, oggi permette alle 550.000 tonnellate di pomodoro fresco raccolto di essere trasformato nei 3 stabilimenti di proprietà della cooperativa Consorzio Casalasco in prodotti esportati in 60 Paesi nel mondo. Non viene precisato dalle parti il prezzo della compravendita avvenuta nei giorni scorsi.
Esprime soddisfazione Coldiretti che ricorda come oggi ben 3 marchi storici su 4 che siano in mani straniere, con la perdita di autonomia e di competitività sui mercati internazionali in uno dei settori strategici del Made in Italy. «Con questa operazione si realizza una svolta nella costruzione di una filiera agricola tutta italiana che vede direttamente protagonisti gli agricoltori per garantire quel legame con il territorio che ha consentito ai grandi marchi di raggiungere traguardi prestigiosi – ha commentato il presidente della Coldiretti Roberto Moncalvo -. La svendita di marchi italiani all’estero ha spesso significato nell’agroalimentare lo svuotamento finanziario delle società acquisite, la delocalizzazione della produzione per chiusura di stabilimenti e gli acquisti delle materie prime all’estero con perdita di occupazione».
Una “riscossa della vera cooperazione espressione di una filiera tutta italiana con un forte legame col proprio territorio d’origine” rappresenta l’acquisizione secondo Ue.Coop l’Unione Europea delle Cooperative a cui Consorzio Casalasco del Pomodoro è asscociata. Una operazione – sottolinea Ue.Coop – che porta valore all’economia e al lavoro puntando sulla centralità dei soci e del territorio in cui operano, in una situazione in cui molti anche nella cooperazione sono tentati da scorciatoie speculative con il falso Made in Italy. Il marchio De Rica insieme a Pomì diventa – conclude Ue.coop – un patrimonio della vera cooperazione per valorizzare il pomodoro italiano, rafforzando la filiera agricola nazionale e garantendo al consumatore di poter utilizzare un prodotto sano che viene coltivato e prodotto interamente nel nostro Paese.
Istat, dall’inizio dell’anno vendite ferme e il +1% di maggio non fa cambiare rotta
Possiamo parlare di stagnazione delle vendite a questo punto: i dati Istat sul commercio al dettaglio relativi al mese di maggio 2017 registrano un aumento del +1,0% rispetto a maggio 2016 nelle vendite a valore, con l’alimentare a +1,1% e il non alimentare a +0,9%. Dall’inizio dell’anno però l’Istat evidenzia una variazione pari al +0,1% a valore e al -0,9% a volume.
«Il 2017 non si manifesta come un periodo di ripresa delle vendite al dettaglio – è il commento di Giovanni Cobolli Gigli, Presidente di Federdistribuzione –. Nei primi cinque mesi dell’anno i volumi sono in calo (-0,9% a livello complessivo) e la lievissima ripresa a valore (+0,1%) è frutto esclusivamente dell’aumento dei prezzi del settore alimentare. Le famiglie mantengono un atteggiamento prudente nei consumi. Preoccupate dalle incertezze del quadro politico, economico e sociale direzionano l’accresciuto potere d’acquisto degli ultimi anni verso un recupero dello stock di risparmio e un consumo di beni e servizi (auto, cultura e intrattenimento, ristorazione) alternativi ai prodotti di più generale e largo consumo. Un quadro non favorevole per le imprese del commercio, costrette ad affrontare un ulteriore periodo di domanda stagnante e una ripresa che continua ad allontanarsi nel tempo».
Secondo Federalimentare, è il mondo food che continua a destare preoccupazione, visto che la crescita (esigua) del mese (+1,0%) è attribuibile “a un “effetto trascinamento” dovuto all’aumento dei prezzi che, sebbene in riduzione, hanno avuto una forte impennata nei primi mesi dell’anno”. Il dato a volume segna infatti un calo del -1,0%. Questa tendenza si evidenzia in modo ancor più chiaro nei dati cumulati dei primi 5 mesi del 2017, che indicano una crescita del +0,6% a valore ma un calo a volume del -1,9%”. E se a maggio è andato meglio il non food, con una crescita sia a valore (+0,9%) sia a volume (+0,8%), nel periodo gennaio-maggio complessivamente abbiamo un calo, sia a valore sia a volume del -0,2%.
Il Codacons parla di un maggio “freddo” per le vendite aò dettaglio. «In realtà le vendite non stanno affatto crescendo, e rimangono stazionarie rispetto allo scorso anno – spiega il presidente Carlo Rienzi – È evidente come tali dati siano del tutto insufficienti ai fini di una ripresa dei consumi. Nonostante i numeri positivi registrati a maggio, le vendite in Italia sono sostanzialmente ferme, confermando i tanti allarmi lanciati dal Codacons e la mancanza di misure per sostenere il commercio interno».
Avanzano ancora i discount, soffrono i piccoli esercizi
“Un dato poco rassicurante” anche se si tratta a volume della prima variazione tendenziale positiva dell’anno emerge dalle rilevazioni Istat secondo l’Ufficio Studi Confcommercio, visto che l’indice destagionalizzato si posiziona sui livelli più bassi degli ultimi anni. “Dalla debolezza della ripresa – fanno sapere dall’Ufficio Studi – restano più colpiti i negozi con meno di cinque addetti, che registrano una riduzione delle vendite in valore del 2,5%, mentre appare meno difficile la congiuntura delle imprese più grandi. La fiducia delle famiglie continua ad essere precaria, comprimendo la propensione al consumo”.
Se le vendite di alimentari salgono a maggio 2017 rispetto a un anno prima in ipermercati (+0,2%) piccole botteghe alimentari (+0,3%) e supermercati (+0,4%) sono ancora i discount che fanno registrare l’incremento di gran lunga più significativo, del 3,2%.
Coldiretti evidenzia come sia proprio il settore alimentare a far registrare i risultati migliori con una media del +1,1%. “L’aumento della spesa alimentare su base annua è un segnale positivo poiché si tratta della seconda voce del budget familiare dopo l’abitazione. L’auspicio è che ora gli aumenti di spesa nella distribuzione alimentare si trasferiscano anche al settore agricolo dove – commenta Coldiretti –i compensi riconosciuti per molti prodotti non coprono neanche i costi di produzione”.
Fake news: quando il cibo può far paura
Paura del cibo? Sì, per 3 italiani su 4, ovvero per il 66% dei nostri connazionali.
A ingenerare il timore per le conseguenze che gli alimenti possano avere sulla nostra salute sono molto spesso le fake news propalate dal web. Ecco quanto emerge dall’indagine Coldiretti/ixè presentata in occasione della campagna #stopfakeatavola promossa dalla Coldiretti e dall’Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare nell’ambito del corso di formazione, organizzato in collaborazione con la Scuola Superiore della Magistratura.
Naturalmente da questa affermazione non bisogna però trarre la conseguenza che la rete vada criminalizzata in toto, si affretta a precisare Moncalvo, presidente Coldiretti. Perché internet, al contrario, può divenire un ottimo strumento per smascherare le bufale.
Est modus in rebus, quindi.
“Per questo – precisa – siamo impegnati nell’educazione nelle scuole e nell’informazione nei mercati degli agricoltori con il progetto Campagna Amica che consente di ricostruire un rapporto diretto tra chi produce e chi consuma nel segno della trasparenza. Un arricchimento culturale che, con la conoscenza diretta, contribuisce a combattere le fake news, ma anche ad adottare comportamenti di acquisto più informati e consapevoli che aiutano a scegliere i prodotti sugli scaffali anche nelle forme più tradizionali della distribuzione”.
Via libera all’indicazione di origine per il latte, Coldiretti presenta l’etichetta Made in Italy
Un’etichetta per il Made in Italy anche per latte e latticini: l’ha presentata la Coldiretti stamattina al tradizionale Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione di Cernobbio, dopo il via libera dell’Unione europea alla richiesta italiana di indicazione di origine obbligatoria per il latte e i prodotti lattiero-caseari. Sono infatti scaduti senza obiezioni alle ore 24 del 13 ottobre i tre mesi dalla notifica previsti dal regolamento 1169/2011 quale termine per rispondere agli Stati membri che ritengono necessario adottare una nuova normativa in materia di informazioni sugli alimenti. Le confezioni di latte, burro e mozzarella con le nuove etichette hanno lo scopo di aiutare i consumatori a scegliere. Il provvedimento fortemente sostenuto dalla Coldiretti era stato annunciato dal premier Matteo Renzi e dal Ministro delle Politiche Agricole Maurizio Martina in occasione della Giornata nazionale del latte Italiano a Milano, organizzata proprio dalla maggiore organizzazione degli imprenditori agricoli in Europa.
“Il via libera comunitario – rileva la Coldiretti – risponde alle esigenze di trasparenza degli italiani che secondo la consultazione pubblica online del Ministero delle Politiche agricole, in più di 9 casi su 10, considerano molto importante che l’etichetta riporti il Paese d’origine del latte fresco (95%) e dei prodotti lattiero-caseari quali yogurt e formaggi (90,84%), mentre per oltre il 76% lo è per il latte a lunga conservazione”.
Il provvedimento riguarda l’indicazione di origine del latte o del latte usato come ingrediente nei prodotti lattiero-caseari che dovrà essere indicata in etichetta con:
a) “paese di mungitura: nome del paese nel quale è stato munto il latte”;
b) “paese di condizionamento: nome della nazione nella quale il latte è stato condizionato”
c) “paese di trasformazione: nome della nazione nella quale il latte è stato trasformato”;
Qualora il latte o il latte usato come ingrediente nei prodotti lattiero-caseari sia stato munto, condizionato e trasformato nello stesso Paese, l’indicazione di origine può essere assolta con l’utilizzo della seguente dicitura: “origine del latte: nome del paese”. Se invece le operazioni indicate avvengono nei territori di più paesi membri dell’Ue, per indicare il luogo in cui ciascuna singola operazione è stata effettuata possono essere utilizzate le seguenti diciture: “miscela di latte di Paesi UE” per l’operazione di mungitura, “latte condizionato in Paesi UE” per l’operazione di condizionamento, “latte trasformato in Paesi UE” per l’operazione di trasformazione. Infine se le operazioni avvengono nel territorio di più Paesi situati al di fuori dell’Unione Europea, possono essere utilizzate le seguenti diciture: “miscela di latte di Paesi non UE” per l’operazione di mungitura, “latte condizionato in Paesi non UE” per l’operazione di condizionamento, “latte trasformato in Paesi non UE” per l’operazione di trasformazione.
«Con l’etichettatura di origine si dice finalmente basta all’inganno del falso Made in Italy con tre cartoni di latte a lunga conservazione su quattro venduti in Italia che sono stranieri, così come la metà delle mozzarelle sono fatte con latte o addirittura cagliate provenienti dall’estero, ma nessuno lo sa perché non è obbligatorio riportarlo in etichetta – ha affermato il presidente della Coldiretti Roberto Moncalvo – si tratta anche di un importante segnale di cambiamento a livello comunitario sotto la spinta dell’alleanza con la Francia che ha adottato un analogo provvedimento».
Ricchezza Made in Italy da tutelare
Le 1,7 milioni di mucche da latte presenti in Italia possono finalmente mettere la firma sulla propria produzione di latte, formaggi e yogurt. garantita a livelli di sicurezza e qualità superiore grazie al sistema di controlli realizzato dalla rete di veterinari più estesa d’Europa, ma anche ai primati conquistati a livello comunitario con la leadership europea con 49 formaggi a denominazione di origine realizzati sulla base di specifici disciplinari di produzione. Sono invece 487 i formaggi tradizionali censiti a livello regionale territoriale e tutelati perché realizzati secondo regole tramandate da generazioni che permettono anche di sostenere la biodiversità delle razza bovine allevate a livello nazionale. Sui mercati esteri i formaggi Made in Italy hanno fatturato 2,3 miliardi (+5%) nel 2015.
Ad essere tutelati sono anche i consumatori italiani che hanno acquistato nel 2015 – secondo una analisi della Coldiretti – una media di 48 chili di latte alimentare a persona mentre si posizionano al settimo posto mondiale per i formaggi con 20,7 chilogrammi per persona all’anno dietro ai francesi con 25,9 chilogrammi a testa, ma anche a islandesi, finlandesi, tedeschi, estoni e svizzeri.
Il provvedimento salva 120mila posti di lavoro nell’attività di allevamento da latte che generano lungo la filiera un fatturato di 28 miliardi che è la voce più importante dell’agroalimentare italiano dal punto di vista economico, ma anche da quello dell’immagine del Made in Italy.
L’ entrata in vigore e fissata 60 giorni dopo la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale e potrebbe partire dal primo gennaio 2017, come è stato previsto per un testo analogo in Francia.
Coldiretti, giugno sorride ai discount, giù le botteghe alimentari
I consumatori scelgono, e a vedere i numeri sembra inarrestabile la tendenza a privilegiare il canale discount, che peraltro rispetto al passato presenta un’offerta sempre più ampia e variegata e format rinnovati e accoglienti, ed evita le botteghe sotto casa. Lo conferma una analisi della Coldiretti sui consumi di giugno, che, tra gli esercizi commerciali, vede solo le piccole botteghe alimentari in calo di vendite (-0,1%), mentre crescono significativamente solo i discount, che registrano un incremento dell’1,3%. Tra l’altro, un’inversione di tendenza rispetto al mese di maggio, dove anche i discount avevano sofferto (vedi Istat: a maggio calano le vendite di alimentari, e ora soffrono anche i discount).
La grande distribuzione alimentare aumenta le vendite dello 0,3% rispetto allo scorso anno. L’analisi della Coldiretti si basa sui dati sul commercio al dettaglio dell’Istat relativi a giugno 2016, che nell’alimentare fa registrare complessivamente un calo vendite dello 0,1% rispetto a maggio ed un aumento dello 0,2% su base annuale. L’auspicio dell’organizzazione degli imprenditori agricoli è che questi aumenti di spesa nella distribuzione alimentare si trasferiscano anche al settore agricolo “che si trova in piena deflazione con i compensi riconosciuti per molti prodotti che non coprono neanche i costi di produzione, dal latte al grano”.
Istat: a maggio calano le vendite di alimentari, e ora soffrono anche i discount
Vendite in calo a maggio, e a soffrire sono soprattutto gli alimentari: è quanto evidenziano i dati Istat sul commercio al dettaglio, che registrano una flessione del -1,3% rispetto a maggio 2015 nelle vendite a valore, con l’alimentare a -1,8% e il non alimentare a -1,0%. Dall’inizio dell’anno le vendite complessivamente segnano un +0,3% a valore sullo stesso periodo dell’anno precedente. Rispetto ad aprile 2016 le vendite al dettaglio registrano un incremento congiunturale dello 0,3% in valore e dello 0,2% in volume (+0,3% in valore e +0,1% in volume per gli alimentari e +0,3% sia in valore sia in volume per i non alimentari).
Nella media del trimestre marzo-maggio 2016, l’indice complessivo delle vendite al dettaglio in valore registra un calo congiunturale dello 0,3%. L’indice in volume diminuisce dello 0,4% rispetto al trimestre precedente.
Come rileva un’analisi della Coldiretti sugli stessi dati, le vendite crollano anche nei discount alimentari, che dopo anni di crescita invertono la tendenza e fanno segnare una riduzione dello 0,2%. “Le vendite dei prodotti alimentari si riducono in tutte le tipologie distributive, dagli ipermercati (-2,5%) ai supermercati (-1,4%), ma a registrare un vero tonfo sono le piccole botteghe alimentari (-3,2%). Si tratta – sottolinea una nota della Coldiretti – dei devastanti effetti della deflazione che si evidenzia particolarmente in campagna, dove le quotazioni per il grano sono praticamente dimezzate rispetto allo scorso anno, ma difficoltà si registrano anche negli allevamenti con il latte pagato ben al di sotto dei costi di produzione”.
Non sembra più ottimista Federdistribuzione. «Il dato di maggio conferma le nostre preoccupazioni espresse ormai da molto tempo: siamo lontani da segnali stabili di ripresa dei consumi, con dati altalenanti nei mesi e che complessivamente indicano una dinamica molto debole – commenta il presidente Giovanni Cobolli Gigli – Particolarmente significativo è il calo delle vendite di prodotti alimentari (-1,8% a valore e -2,0% a volume), segno che la situazione economica e il generale clima di incertezza sul futuro frenano gli acquisti anche nella spesa dei prodotti essenziali.
Un quadro che, secondo l’associazione delle aziende della distribuzione moderna, non è destinato a migliorare nei prossimi mesi estivi, per due motivi: la debolezza della domanda interna ma anche il confronto con un 2015 particolarmente dinamico, conseguenza non solo dei fattori metereologici ma anche della spinta di Expo 2015, tanto che “una previsione realistica delle vendite al dettaglio per il 2015 potrebbe dunque essere vicino a una “crescita zero”“.
«Ma con questa evoluzione dei consumi lo sviluppo del Paese è a rischio, come testimoniano anche gli allarmanti dati di maggio della produzione industriale e degli ordinativi comunicati oggi dall’Istat. D’altra parte è del tutto comprensibile la difficoltà del settore industriale, di fronte a un mercato internazionale in frenata e a una domanda interna che non c’è – continua Cobolli Gigli -. La priorità deve essere la ripresa dei consumi, e su questo chiediamo sforzi ulteriori al Governo, chiamandolo a dare segnali di discontinuità con il passato sulle riforme per fornire più certezze sul futuro e a lavorare per aumentare il potere d’acquisto delle famiglie e per semplificare e agevolare l’attività d’impresa».
Latte, via libera all’indicazione di provenienza. Il 67% degli italiani pagherebbe di più se italiano
Si gioca sul latte una delle battaglie che in tutta Europa sta impegnando i rapporti tra grande distribuzione e produttori, colpiti dai prezzi troppo bassi. Tanto che in dieci anni si è dimezzato il numero di stalle in Italia , che hanno segnato nel 2015 il minimo storico di 33mila allevamenti. Sullo sfondo, un consumatore disposto a pagare di più per la provenienza nazionale e la garanzia di qualità. La soluzione sembra dunque essere l’obbligo dell’indicazione di origine. Una promessa che ha impegnato il premier Matteo Renzi e al Ministro delle Politiche Agricole Maurizio Martina, di concerto con il Ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda, al World Milk Day di ieri organizzato dalla FAO, che ha visto scendere in piazza a Milano migliaia di allevatori da tutto il Paese. In questa occasione è stato presentato infatti il Decreto sull’etichettatura obbligatoria del latte e dei derivati, come formaggi o yogurt, già inviato a Bruxelles.
Nove italiani su 10 vogliono sapere l’origine: per l’italiano di paga il 20% in più
La questione non è secondaria, visto che il 67% dei consumatori pagherebbe fino al 20% in più per un latte italiano, e il 12% spenderebbe anche di più. Il consumatore oggi vuole, pretende trasparenza. Secondo una consultazione pubblica online del Ministero delle Politiche agricole, alimentari e forestali, in oltre 9 casi su 10 gli italiani considerano “molto importante” che l’etichetta riporti il Paese d’origine del latte fresco (95%) e dei prodotti lattiero-caseari quali yogurt e formaggi (90,84%), mentre per oltre il 76% lo è per il latte a lunga conservazione.
In questo quadro apparentemente favorevole per la produzione nazionale, l’Italia è diventata il maggiore importatore di latte nel mondo con il risultato che oggi tre cartoni di latte a lunga conservazione su quattro venduti nel nostro Paese provengono dall’estero, mentre la metà delle mozzarelle sono fatte con latte o cagliate straniere. Difficile però saperlo, perché non è obbligatorio riportare la provenienza in etichetta. È quanto emerge dallo studio Coldiretti “Il latte italiano, un primato da difendere” presentato alla Giornata del latte italiano a Milano.
I numeri del latte in Italia
I consumatori italiani che hanno acquistato nel 2015 una media di 48 litri di latte alimentare a persona mentre si posizionano al settimo posto su scala mondiale per i formaggi, con 20,7 chilogrammi per persona all’anno dietro ai francesi con 25,9 chilogrammi a testa, ma anche da islandesi, finlandesi, tedeschi, estoni e svizzeri.
Sul fronte della produzione, abbiamo 33mila allevamenti e 1,7 milioni di mucche da latte presenti in Italia, per una produzione nazionale di circa 110 milioni di quintali di latte, mentre sono 85 milioni di quintali le importazioni di latte dall’estero.
Una produzione quella nazionale, secondo Coldiretti “garantita a livelli di sicurezza e qualità superiore grazie al sistema di controlli realizzato dalla rete di veterinari più estesa d’Europa, ma anche ai primati conquistati a livello comunitario con la leadership europea con 49 formaggi a denominazione di origine realizzati sulla base di specifici disciplinari di produzione”. Ma sono ancora di più, 488, i formaggi italiani tradizionali censiti dalle regioni perché ottenuti secondo metodi mantenuti inalterati nel tempo. Il settore impiega 120mila persone nell’attività di allevamento da latte che generano lungo la filiera un fatturato di 28 miliardi, la voce più importante dell’agroalimentare italiano.
Una qualità costantemente minacciata: da una parte dagli oltre 24 milioni di litri di “latte equivalente” tra cisterne, semilavorati, formaggi, cagliate e polveri di caseina, che sono imbustati o trasformati industrialmente per diventare mozzarelle, formaggi o latte italiani, all’insaputa dei consumatori. Nell’ultimo anno secondo Coldiretti avrebbero superato il milione di quintali le cagliate importate dall’estero, che ora rappresentano circa 10 milioni di quintali equivalenti di latte, pari al 10 per cento dell’intera produzione italiana. Dall’altra all’estero, dove i formaggi Made in Italy hanno fatturato ben 2,3 miliardi (+5%) nel 2015, dove dilaga il fenomeno dell’Italian Sounding e del’agropirateria internazionale.
La Ue consente l’etichetta, previa consultazione popolare
Secondo Coldiretti, l’assenza dell’indicazione chiara dell’origine del latte a lunga conservazione, dei formaggi o dello yogurt non consente di conoscere un elemento di scelta determinante per le caratteristiche qualitative, ma impedisce anche ai consumatori di sostenere le realtà produttive nazionali. “In un momento difficile per l’economia dobbiamo portare sul mercato il valore aggiunto della trasparenza con l’obbligo di indicare in etichetta l’origine degli alimenti” ha affermato il presidente della Coldiretti Roberto Moncalvo.
Anche l’Ue ha dato il feu rouge all’etichettatura d’origine, con il regolamento comunitario N.1169 del 2011, entrato in vigore il 13 dicembre del 2014, che consente ai singoli Stati Membri di introdurre norme nazionali in materia di etichettatura obbligatoria di origine geografica degli alimenti, previa con consultazione con parere favorevole da parte dei cittadini.
Un circolo virtuoso che ha visto già impegnati, oltre al ministero, anche alcuni enti locali e insegne della grande distribuzione. Ne son una prova le iniziative, già segnalate, di Carrefour (leggi Carrefour e Regione Piemonte, accordo sul latte a Km zero: nasce “Piemunto”) in Piemonte e Coop in Lombardia (leggi Coop dà sostegno al latte italiano con promozioni e 10mila quintali di acquisti in più).