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L’impatto del Covid sui centri commerciali in Italia

La pandemia ha avuto effetti su diverse asset class immobiliari, tra cui il mondo del retail, nel quale tutte le categorie merceologiche hanno registrato evidenti flessioni delle vendite, seppure con performance diverse. Dai dati emersi dal nuovo Snapshot “L’impatto del Covid sui centri commerciali” realizzato dal Dipartimento di Ricerca di World Capital, rispetto al 2019 è la ristorazione a segnare la contrazione maggiore con -45,8%, seguita dall’abbigliamento e calzature (circa -34,5%), da attività di servizio (-33,9%), servizi sanitari e alla persona (-30,9%), cultura e tempo libero (-29,1%), beni per la casa (-15,9%) ed elettronica di consumo (-13,5%).

Focalizzandoci sugli effetti pandemici registrati nei centri commerciali italiani, il CNCC (Consiglio Nazionale Centri Commerciali), insieme a Confesercenti, Confcommercio, Confimprese, Federdistribuzione, Coop, Conad ha stimato che le perdite di fatturato in questo specifico segmento si aggirano attualmente intorno ai 400 milioni di euro a settimana, con un calo degli ingressi di circa il 50% rispetto ai mesi del 2020 precedenti alla pandemia.

Dando uno sguardo ai dati relativi all’indice di affluenza, le continue chiusure e severe restrizioni a cui tutti i centri commerciali d’Italia sono stati sottoposti hanno generato una contrazione dei trend rispetto al 2019.
Sempre rispetto al 2019, le regioni italiane che hanno registrato le performance più incoraggianti (registrate nel mese di aprile) sono l’Emilia-Romagna e il Lazio, che si assestano rispettivamente al -29,6% e al -29,7%, mentre quelle più colpite sono state la Sardegna, con un -58,3%, e la Campania, che segna un divario pari al -56,9%.

“Con il protrarsi delle continue chiusure dettate della pandemia anche gli shopping mall hanno arrestato la loro crescita. Ad oggi, gli ultimi dati affermano come, rispetto al 2019, il comparto abbia fatto registrare un -15%. Tuttavia, vista la situazione di forte crisi globale, il segno meno risulta essere tutto sommato incoraggiante. Il nostro settore ha mostrato una forte resilienza, con i gestori e gli operatori che hanno affrontato il periodo più difficile della crisi senza arrendersi – ha commentato Roberto Zoia, Presidente del CNCC. Il trend emergente sarà quello di espandere sempre più lo share funzionale delle piattaforme commerciali rendendole dei veri e propri Hub territoriali con una propria identità; insistendo sempre più sul commercio di esperienza.”

“La ripresa delle attività commerciali e la riapertura dei negozi durante i weekend contribuiranno sicuramente a dare maggior respiro al settore del retail – dichiara Andrea Faini, CEO di World Capital. Un’asset class di grande appeal per gli investitori, che nel 2019 (primi 3 Q) si classificava al terzo posto della graduatoria delle tipologie di beni immobiliari che attirano maggiori investimenti con un volume pari a 7,2 miliardi di euro, ovvero +40% rispetto allo stesso periodo 2018. Focalizzandoci sul segmento dei centri commerciali, tale settore rappresenta in Italia una grande fonte occupazionale, annoverando al suo interno 700.000 lavoratori.”

Nas e carrelli: sospesi 12 supermercati

Esito sconfortante per le verifiche nazionali attuate dai Nas in GDO.

Da un’ispezione di 918 negozi, infatti, sono infatti 173 quelli con irregolarità, pari al 18%.

 

Tra le segnalazioni: malfunzionamento  o assenza dei dispenser per la disinfezione delle mani ed il mancato rispetto delle distanze interpersonali. 

“I supermercati presso i quali sono state evidenziate positività, appartenenti a diverse aziende della Grande Distribuzione, sono stati individuati nelle città di Roma, Latina, Frosinone, Grosseto, Terni, Salerno e Catania nonché in altri esercizi nelle province di Parma, Perugia e Cagliari – sottolinea la nota -. Nell’ambito del piano ispettivo, i Carabinieri NAS hanno individuato anche gravi carenze igieniche, gestionali e strutturali che hanno determinato l’esecuzione di provvedimenti di immediata sospensione dell’attività commerciale nei confronti di 12 supermercati, dei quali 3 per violazioni alle misure anti- COVID, ed il sequestro di oltre 2.000 kg di prodotti alimentari risultati non adatti al consumo, per mancanza di tracciabilità e modalità di conservazione non idonea”.

 

 

GS1 presenta un manuale operativo anti Covid

In che modo le aziende potranno affrotare le nuove sfide nate nell’era della pandemia? Dallo studio coordinato da ECR Italia con il supporto dei team di ricercatori di LIUC Università Cattaneo e Politecnico di Milano nasce  un “manuale operativo” che raccoglie, descrive e sistematizza le 360 iniziative anti-COVID messe in campo nel 2020 da produttori e retailer.

Il nuovo studio, presentato da GS1 Italy nel corso dell’evento online “COVID-19 nel largo consumo: vademecum per il new (ab)normal, mette in evidenza gli effetti della pandemia sui diversi processi delle aziende del largo consumo in Italia e “fotografa” le azioni messe in campo per garantire la catena di fornitura nonostante il momento di difficoltà.

Le pratiche adottate

Ecco alcune delle soluzioni adottate in Italia: prioritarizzazione dell’assortimento, razionalizzazione dei formati, rallentamento nel lancio di nuovi prodotti e riduzione della complessità. E ancora, attivazione di fornitori alternativi di materie prime, packaging e prodotti finiti, ma anche creazione di scorte strategiche e ricerca di soluzioni alternative per il trasporto e il magazzino. E poi snellimento degli iter decisionali e switch dinamico tra stabilimenti produttivi, magazzini e punti di consegna delle merci. Fino alla ridefinizione dei calendari e dei planning di lavoro e maggior ricorso al trasporto intermodale, senza dimenticare la volata della digitalizzazione, con l’aumento dell’EDI, della raccolta di ordini da remoto e dell’e-commerce. Ma, soprattutto, una maggiore collaborazione tra attori della filiera grazie al rafforzamento delle relazioni e alla condivisione delle informazioni per far fronte insieme alle conseguenze della pandemia sulla supply chain.

«Abbiamo voluto approfondire le reazioni delle imprese di produzione e distribuzione dal punto di vista dei processi di filiera» afferma Silvia Scalia, ECR and training director GS1 Italy «e studiare le iniziative e le buone pratiche introdotte per ridurre gli impatti derivanti dalla pandemia e per assicurare la disponibilità dei prodotti lungo la filiera. L’obiettivo pertanto è stato quello di raccogliere e capitalizzare le esperienze direttamente dalle aziende e metterle a fattor comune per creare una base di conoscenza diffusa riguardo alle soluzioni e agli approcci adottati e adottabili in queste situazioni».

«Abbiamo raccolto direttamente dalle aziende le iniziative e le soluzioni collaborative che hanno adottato a causa della pandemia per garantire la business continuity e abbiamo razionalizzato questo patrimonio di informazioni secondo categorie ragionate per facilitarne la consultazione, la diffusione e la condivisione» spiega Giuseppe Luscia, ECR project manager di GS1 Italy. «Dalla raccolta, dall’organizzazione e dalla sistematizzazione di queste informazioni è nato il Vademecum presentato oggi, che mettiamo a disposizione di tutto il sistema come patrimonio di conoscenze condivise e come “manuale” operativo a garanzia della continuità del business e della gestione del rischio».

Il panel delle aziende coinvolte in questa ricerca comprende 21 operatori:

  • Distribuzione: Bennet, Conad Adriatico, Conad Centrale, Conad Nord-Ovest, Coop Nord-Ovest, Esselunga.
  • Produzione: Barilla, Bauli, Bolton, Cameo, Coca Cola HBC, Fater, Ferrero, FHP di R.Freudenberg, Heineken, Kellog’s, Lavazza, Mondelez, Nestlé, Ponti e Unilever.

Complessivamente, dall’analisi dei 21 casi di studio è emerso che, per rispondere alle sfide imposte dalla pandemia, le imprese del largo consumo hanno adottato 360 iniziative diverse, pari a una media di 18 iniziative per impresa. Nel 41% dei casi sono state pensate nella fase pre-COVID, nel 47% sono state sviluppate durante le settimane cruciali del primo lockdown nazionale e nel 12% dei casi sono state intese per essere attivate dopo la prima ondata.

L’adeguamento alle nuove esigenze imposte dall’emergenza sanitaria ha comportato in media per le aziende, nel bimestre marzo-aprile 2020, un aumento del 2-5% dei costi logistici rispetto allo stesso periodo del 2019.

«Le soluzioni sviluppate dalle aziende hanno riguardato soprattutto la semplificazione dei processi logistici e la velocizzazione dei processi decisionali» spiegano Fabrizio Dallari e Alessandro Creazza, del Centro sulla logistica e supply chain management della LIUC Università Cattaneo. «I nuovi rischi emergenti hanno richiesto di introdurre ridondanze nei sistemi, aumentandone la flessibilità e la fungibilità e abilitando una pianificazione dinamica al variare delle condizioni al contorno. In questo contesto la collaborazione di filiera si è confermata elemento cardine per garantire gli approvvigionamenti ed aumentare la resilienza nei processi order-to-delivery e demand-to-supply».

Il team dei ricercatori ha sistematizzato queste 360 attività disegnando l’albero delle soluzioni per la business continuity (Figura 1) – descritto puntualmente nel Vademecum – in cui:

  • I tronchi rappresentano le 8 macro-categorie individuate.
  • I rami le 24 categorie di soluzioni.
  • Le foglie le 60 soluzioni operative adottate.

«L’80% delle aziende ha fatto leva su almeno 7 delle 8 macro-categorie individuate nello studio, mentre tra le 60 soluzioni ben 38 sono state adottate da tutte le imprese del campione, 19 sono state appannaggio delle aziende di produzione e 3 di quelle dei retailer» spiega Marco Melacini, professore di logistics management e direttore dell’Osservatorio Contract Logistics “Gino Marchet” del Politecnico di Milano. «Se nell’immediato le dotazioni di health & safety hanno consentito di rispondere ai rischi sanitari, per il futuro sono sempre più necessarie nuove capability che consentano di fronteggiare le nuove sfide per la filiera del largo consumo».

L’albero delle soluzioni

Le 8 macro-categorie individuate dal Vademecum GS1 Italy sono:

  • Decomplexity: ridurre la complessità della supply chain, focalizzandosi sull’essenziale per utilizzare al meglio le risorse a disposizione (“Less is more”), ad esempio rivedendo l’assortimento per eliminare temporaneamente le referenze basso-vendenti oppure riducendo gli ordini relativi ad espositori, palbox o display pallet in favore di unità di carico standard non rilavorate.
  • Ridondanza: disporre di risorse aggiuntive/alternative da attivare in caso di necessità per assicurare la continuità delle operations (“Just in case”), ad esempio aumentando lo stock di prodotti alto-vendenti nel caso di emergenza o attivando dei fornitori alternativi di materie prime e packaging.
  • Streamlining: rivedere i processi di supply chain, specialmente in termini di decision making, per renderli più snelli e agili, operando “at the speed of relevance”, ad esempio riducendo la “burocrazia” o estendendo l’orario di ricevimento delle merci nei Ce.Di..
  • Dynamic Planning: modificare in real time le scelte logistiche relative all’utilizzo e all’allocazione delle risorse, per incrementare adattabilità e flessibilità (“It is not the strongest that survives”), ad esempio allocando gli stock in modo dinamico nei diversi nodi logistici del network o ridefinendo i quantitativi da distribuire ad ogni cliente per garantire la disponibilità di prodotto a tutti.
  • Fungibilità: aumentare la sostituibilità di articoli e sistemi produttivi, riducendo gli switching cost, per attivare rapidamente piani alternativi (“Design for resilience”), ad esempio standardizzando formati e confezioni dei prodotti destinati a mercati o canali differenti oppure allocando le produzioni su più siti alternativi in caso di necessità.
  • Collaborazione di filiera: adottare comportamenti virtuosi nelle relazioni di filiera a beneficio di tutti gli attori coinvolti, ad esempio avviando logiche di collaborative planning, condivisione delle previsioni di domanda e aumento della visibilità lungo la filiera oppure riducendo i tempi di pagamento dei fornitori.
  • Health & Safety: tutelare la salute e la sicurezza di dipendenti, fornitori e clienti per ridurre il rischio di contagio e garantire la capacità operativa (“Work hard, stay safe and make history”), ad esempio adottando tutti i sistemi di distanziamento oppure remotizzando e digitalizzando la raccolta degli ordini da parte della forza vendita.
  • New Capabilities: sviluppare competenze innovative per migliorare la capacità di affrontare le nuove sfide (“Bridging the future”), ad esempio introducendo sistemi automatici di gestione del magazzino, potenziando l’e-commerce oppure adottando sistemi di supporto alle decisioni alimentati con dati storici per simulare gli scenari distributivi e fare analisi “what-if”.

La sintesi della ricerca delle soluzioni è stata pubblicata nel Bluebook “Un vademecum per il next normal. Lesson learned post Covid-19 nella filiera del largo consumo” disponibile gratuitamente sul sito di GS1 Italy.

Consumi e pandemia: l’Osservatorio Confimprese-EY

In piena pandemia, uno sguardo all’andamento del commercio. Ecco la panoramica fornita dall’Osservatorio permanente Confimprese-EY sui consumi di mercato nel mese di dicembre. Ne emerge una situazione ancora fortemente negativa in tutta Italia, con previsioni che decisamente poco rosee.

Il mese di dicembre, registra, infatti, un trend del -46,6%: ancora negativo, sia pure in ripresa rispetto a novembre (-67,1%).

L’anno 2020 si chiude a -38,9% vs 2019 con la ristorazione in maggiore sofferenza a -46,8%, seguita dall’abbigliamento a -38,3% e altro non food a -26,9%.

Centri commerciali e outlet crollano per effetto del protrarsi delle restrizioni che li obbligano alla chiusura nel weekend, con simmetrico aumento di traffico e assembramenti nei centri città. Effetto negativo che si ripercuote sull’aggregato di dicembre fermo a -54,7% e -41,1% su base annua.

Quanto alle categorie merceologiche nel mese di dicembre, la ristorazione paga il prezzo più alto dovuto all’effetto boomerang delle chiusure nel weekend. L’andamento disastroso a -66,8% la relega a maglia nera dell’intero comparto retail, mentre l’abbigliamento si ferma a -45%, migliori le performance -29,3% di altro non food, che continua a godere dell’onda lunga delle minori restrizioni dal primo lockdown in poi.

A guadagnare dalla chiusura dei centri commerciali in dicembre sono le high street che, in controtendenza rispetto ai mesi precedenti, registrano un calo del -32,2% rispetto ad altre località -37,3%. Si assiste, in buona sostanza, a un mutato atteggiamento de consumatore che, privato dei luoghi di aggregazione abituali, si è rivolto ai centri città per trovare i negozi che di solito frequenta nei centri commerciali e outlet. Sempre in grande sofferenza il travel con -67,2%. Su base annua chiude a -59,7%.

Le aree geografiche riflettono la situazione di lieve miglioramento riscontrata per i settori merceologici e chiudono a -46,6%. Rispetto alle rilevazioni dei mesi precedenti, si osserva una maggiore omogeneità dei trend in tutte le aree. La flessione più marcata si registra nell’area Nord-Est (Emilia-Romagna, Triveneto) con -52,5%, seguita dall’area Centro (Toscana, Umbria, Marche, Lazio, Sardegna) con -47,1%, dall’area Sud (Campania, Calabria, Sicilia, Abruzzo, Molise, Puglia, Basilicata) con -45,9% per finire con l’area Nord-Ovest (Lombardia, Piemonte, Liguria, Valle d’Aosta) che chiude il mese a -43,7%.

«Con un mese di dicembre a -46,6% – chiarisce Mario Maiocchi, direttore Centro Studi Retail di Confimprese – si chiude l’anno più difficile per il retail non food e ristorazione. Il totale anno a -38,9%, con punte -46,8% per la ristorazione e -59,7% per il canale travel, preannuncia pesantissimi effetti sui bilanci delle aziende del settore con conseguenti presumibili ricadute su occupazione e investimenti. Le prime indicazioni sui primi 10 giorni di gennaio, con un calo di traffico nei centri commerciali intorno al -50%, non danno segnali di miglioramento nel breve periodo. Sono sempre più necessari e urgenti interventi di supporto al settore con particolare riferimento alla tematica degli affitti che, con cali di fatturato di tale entità, non possono e non devono rimanere un costo fisso che rischia di travolgere anche aziende sane e con opportunità di crescita e occupazione nel medio periodo».

L’e-commerce, dopo l’exploit di novembre (+92,6%) rimane invece stabile come numeri assoluti rispetto a novembre, ma cresce pur sempre del +54,9% rispetto a dicembre di un anno fa. Le iniziative come il cashback sembrano aver funzionato per riportare i consumatori ad acquistare nei negozi fisici.

«Facciamo il bilancio di un anno molto difficile – dichiara Paolo Lobetti Bodoni, Med business consulting leader di EY –. Tuttavia, si registra uno scenario diverso rispetto al fisiologico +40% raggiunto usualmente nel mese di dicembre su novembre. Quest’anno le vendite nei negozi fisici sono più che raddoppiate (+110%), mentre le vendite online in valore assoluto sono rimaste simili (+2% vs novembre 2020). Da ciò possiamo ritenere che il consumatore tornerà ad acquistare nei negozi fisici, non appena le restrizioni si allenteranno, e che iniziative come il cashback hanno un effetto tangibile nel promuovere le vendite. Notiamo inoltre una ripresa per i negozi in centro città, che hanno rappresentato un’alternativa ai centri commerciali chiusi, per fare shopping nei grandi marchi del retail».

Analisi per regioni

A livello regionale i trend riflettono l’andamento delle aree geografiche. Cinque regioni lasciano sul terreno perdite superiori al 50% e sono Friuli-Venezia Giulia e Veneto -55,5%, seguite a breve distanza da Toscana -53,6%, Campania -51,5%, Emilia-Romagna -50,4%.

Tutte le altre subiscono perdite sotto il 50% ma pur sempre significative. A cominciare dall’area Sud con Abruzzo -48,6%, Umbria -47,6%, Puglia -47,2% Molise -47%, Basilicata -46%. Per proseguire con Centro e Nord: Lazio -45,6%, Lombardia -45,2%, Trentino-Alto Adige -43,7%, Liguria -43,2%, Valle d’Aosta -42,8%, Sardegna -42,3%, Sicilia -41,8%, Marche -41,3%. A sorpresa le regioni maggiormente agli antipodi dello Stivale, Piemonte e Calabria, se la cavano meglio delle altre, entrambe a -40,2%.

Analisi per città

Venezia, icona dell’arte nel mondo, collassa a dicembre a -62,4% e -46,9% su base annua. Ma a breve distanza c’è sempre Firenze -59,6%. Seguono Reggio Emilia -57,1%, Genova -55,6%, Verona -55,5% Parma -53,6%, Bologna -53%. Con perdite inferiori al 50% troviamo Roma -45,8%, Palermo -45,6%, Milano -40,3%, Napoli -38,3%, Torino -38,2%.

Analisi per province

Il trend delle province mostra la concentrazione dell’andamento peggiore a Caserta -63,4%, sede di importanti centri commerciali, meglio le province di Napoli -47,2% e Salerno -45,5%. Tuttavia, subito dopo ricompaiono le città simbolo dell’arte e del turismo italiano. In Toscana la provincia di Firenze chiude dicembre a -61,6%, Livorno -47,8%, Lucca -41,8%. In Veneto la provincia di Venezia è a -61,1%, Verona -55,2%, Vicenza -52,7%, Treviso -52%, Padova -51,5%. Male anche la provincia di Udine -59,1%. La situazione delle province lombarde riflette l’andamento su base annua: Como -57%, Pavia -54,2%, Brescia -53,1% Milano -46,4%, Monza Brianza -44,4%, Bergamo -38,6%.

Delle province liguri la peggiore è quella di Genova con -52,5%, molto staccate Savona -29,1% e Imperia -23%. Delle province emiliane la provincia di Reggio Emilia è la peggiore -59,1%, seguita da ForlìCesena -52,7%, Bologna -52,3%, Parma -49,2%, Modena -46,5%, Rimini -38,1%. Per le province piemontesi la peggiore è Biella -45,7% seguita da Alessandria -42,5%, Torino -41,6%, Novara -41,4%, Cuneo -30%. Tra le province siciliane la peggiore è Catania che lascia sul terreno una perdita secca del -50,7%, seguita da Palermo -43,6%, Ragusa -43%, Agrigento -41%. Staccate Trapani -30,5%, Messina -28,9% e Siracusa -24%. Nelle province laziali si distingue per performance negative Frosinone che con -46,4% precede Roma -45,8% e Latina -40,9%.

Chi si fida della catena alimetare? La ricerca internazionale

Gli effetti della pandemia da COVID-19, non hanno significamente modificato il livello di fiducia nella catena di approvvigionamento alimentare. Vi è apprezzamento per la sua capacità interrotta di fornire il cibo. Altri soggetti, invece, interpretano le scene di panico da acquisto e accumulo di scorte alimentari come una mancanza di fiducia nella sua abilità a mantenere adeguati livelli di fornitura. Ecco alcune delle evidenze emerse dal del progetto di ricerca internazionale EIT Food: Increasing consumer trust and support for the food supply chain and for food companies, e resi noti dall’équipe italiana, coordinata della prof.ssa Anna Miglietta del Dipartimento di Psicologia, con la collaborazione del Dipartimento di Filosofia (referente Prof.ssa Tiziana Andina).

In linea generale, consumatori dei 6 paesi affermano di avere maggior fiducia negli agricoltori/allevatori soprattutto piccoli produttori, locali e indipendenti. Per la ristorazione, il maggior grado di fiducia è dato alle attività di piccole dimensioni e locali.

Tra le principali azioni che vorrebbero veder implementate, per aumentare il loro grado di fiducia, i consumatori segnalano: la necessità di allevamenti di animali secondo elevati standard di benessere; l’equità dei prezzi; l’etichettatura e tracciabilità dei prodotti e la tutela dell’ambiente.

Nello specifico dei risultati emersi in Italia a partire da un questionario on-line sottoposto a 369 consumatori, 7 focus group con i consumatori, 1 workshop con 14 rappresentanti del mondo aziendale, accademico e giornalistico, 5 interviste con rappresentanti del mondo industriale, si rileva che i consumatori dichiarano di riporre maggiore fiducia, a fronte dell’incertezza e dei rischi derivanti dal virus, nei grandi rivenditori di prodotti di marca. Prevale, quindi, il consumo dei prodotti confezionati o anche surgelati, a discapito di quelli freschi.

Vi è una forte fiducia negli enti regolatori e di consulenza della filiera agro-alimentare ma si guarda con sospetto ai mass media, in particolare per le pubblicità che coinvolgono dei chef rinomati nonostante che il cooking entertainment guadagni sempre più spazio nelle piattaforme televisive e nel web.

Si crede che le aziende agro-alimentari facciano poco per garantire una reale trasparenza dei prodotti che commercializzano. Vi è una grande attenzione a due aspetti della responsabilità sociale delle aziende: il benessere degli animali coinvolti nella filiera agro-alimentare; lo smaltimento dei rifiuti (sia in fase di produzione che a seguito del consumo). Infine, sia tra le aziende sia tra i consumatori italiani prevale la percezione degli agricoltori come i soggetti più vulnerabili della filiera agroalimentare.

 

Il progetto

Increasing consumer trust and support for the food supply chain and for food companies, è un progetto triennale di ricerca internazionale EIT Food, parte della Consumer Trust Grand Challenge.

L’università di Torino partecipa al Consorzio del progetto guidato dall’Università di Reading, Regno Unito, e composto da 16 partner del mondo accademico (Universidad Autonoma de Madrid, Università di Helsinki, Queen’s University Belfast, Università di Varsavia e VTT), industriale (tra cui AZTI, CSIC, DouxMatok, Grupo AN, PepsiCo, Sodexo, Strauss Group, Technion) e organizzazioni non-profit come l’EUFIC.

L’indagine ha coinvolto 2.363 persone, tra consumatori e attori della catena alimentare, nei 6 paesi coinvolti dal progetto: Finlandia, Israele, Italia, Polonia, Spagna, UK.

Durst Habitat: il purificatore d’aria per negozi, bar e supermercati

Per contrastare gli aerosol, causa principale della propagazione di COVID-19, l’azienda altoatesina Durst ha progettato Durst Habitat, un sistema di sanificazione dell’aria che riduce la carica virale negli ambienti interni utilizzando lampade UV, rendendo quindi più sicura la permanenza di persone in ambienti come ristoranti, bar, negozi, uffici, scuole, banche, ma anche abitazioni private.

Sviluppato nei laboratori Durst Labs e testato da istituti europei indipendenti e accreditati, Durst Habitat combina in un unico sistema lo scambio dell’aria e l’irradiazione di raggi UV privi di ozono nocivo per la persona, riducendo efficacemente gli aerosol infettivi e sanificando gli ambienti interni da virus e batteri. L’aria viene convogliata in un sistema chiuso dove viene filtrata attraverso una membrana antivirale e irradiata con raggi UV per poi essere rilasciata nella stanza così sanificata. Durst Habitat, infatti, è dotato di 4 lampade UV-C ad alte prestazioni per un totale di 96 watt. Grazie ad elaborate simulazioni di flusso, i canali sono stati ottimizzati per irradiare l’aria da sanificare con luce UV-C fino a 2 secondi. È solo attraverso questo tempo di permanenza che virus e germi vengono effettivamente resi innocui, come dimostrano gli studi scientifici. I test di efficacia eseguiti da un istituto indipendente, confermano una decontaminazione superiore al 99% dell’aria dopo solo 30 minuti.

L’area di sanificazione di Durst Habitat raggiunge i 4 x 4 x 2,5 metri. Durst sottolinea che non è possibile fornire dichiarazioni specifiche sull’efficacia del sistema in termini di volume o di metri quadrati. Questo perché i risultati possono essere influenzati da fattori quali la temperatura interna, i flussi d’aria nella stanza, l’altezza del soffitto, il numero di persone presenti, ecc. A titolo indicativo sull’efficacia del sistema, Durst fornisce il seguente esempio: 4 persone siedono a un tavolo e sono circondate da un volume d’aria di 8 m³. Ogni soggetto inspira ed espira circa 0,5 m³ d’aria all’ora, per un totale di 2 m³. Durst Habitat sanifica 12,5 volte questo volume (circa 25 m³ in 15 minuti) e 50 volte il volume respiratorio di 4 persone (circa 100 m³ in un’ora). Se Durst Habitat venisse posto in una stanza più grande, si verificherebbe una costante miscelazione dell’aria attorno al sistema di sanificazione, il che significa che il rilascio permanente di aria purificata sarebbe in grado di ridurre la carica virale anche al di fuori della zona centrale.

Durst Habitat può essere personalizzato per integrarsi esteticamente adattandosi a qualsiasi ambiente. Il sistema, infatti, è contraddistinto da un design  moderno il cui rivestimento in tessuto antivirale può essere personalizzato con grafiche a piacere, utilizzando così la superficie di Durst Habitat per comunicare, informare o decorare gli spazi. Il tessuto antivirale può essere stampato direttamente da Durst con la grafica scelta dal cliente e fornito già in versione customizzata. Inoltre, la sostituzione del tessuto è molto semplice e può essere effettuata in pochi minuti: in qualsiasi momento è possibile decidere di aggiornare la grafica con nuove immagini.

Caratteristiche del sistema

Durst Habitat è stato testato presso il laboratorio per tecnologia medica e disinfettanti HygGen Germany, che ha confermato le misurazioni effettuate nei laboratori Durst e l’efficacia dell’intero sistema superiore al 99%. I moduli UV-C utilizzati in Durst Habitat sono sviluppati per applicazioni mediche e garantiscono un’efficacia pari al 99,998%.

Durst Habitat viene consegnato preinstallato e pronto per l’uso. Il tessuto antivirale è lavabile fino a 30 volte senza che lo stesso perda la sua funzione protettiva. Poiché non vengono utilizzati i filtri classici, che nel rispetto delle severe norme di sicurezza necessitano di trattamenti e sostituzione, i sistemi Durst Habitat non richiedono manutenzione. Le lampade UV-C hanno una durata di circa 9000 ore e possono essere sostituite in modo rapido e sicuro con l’aiuto delle istruzioni d’uso.

lI sistema di sanificazione dell’aria Durst Habitat, disponibile nei modelli Durst Habitat 100H e Durst Habitat 100V, è acquistabile o preordinabile online nell’e-commerce dedicato www.durst-group.com/Habitat oppure scrivendo a acquisti@durst-group.com

Le vie del nuovo marketing: il parere di Kantar

In un momento particolare dal punto di vista sanitario, personale ed economico, di grande difficoltà ed incertezza, è importante focalizzarci su quanto accade oggi, per attivare fin da subito comportamenti virtuosi che proiettino le nostre marche e le nostre aziende verso un futuro solido. Ne ha parlato Federico Capeci, CEO Italy, Greece & Israel – Insights Division – Kantar in conferenza plenaria allo IAB Forum.

“Come in un viaggio, sappiamo che tutto questo avrà una fine – ha aperto Federico Capeci. Ci sentiamo impotenti… ma possiamo fare molto: guardare all’oggi, focalizzandoci su quello che sta cambiando ora: il Consumatore, e come sta vivendo questo periodo di pandemia, i Marketer, e le Aziende, che reagiscono alla crisi pandemica in modalità diverse, le percezioni e le attitudini verso il Media. Avere una visione chiara del contesto in cui operiamo, ci aiuta a fare scelte più oculate per costruire valore per noi stessi, a livello personale, per le nostre famiglie e per le Aziende e marche per cui abbiamo responsabilità operative”.

La preoccupazione è l’elemento costante, per i Consumatori, così come per le Aziende, preoccupazione che si riflette negli impatti sulle top lines, così come sulle profittabilità per le Aziende e sulle riduzioni del reddito personale e famigliare, per i Consumatori.

“Su una cosa si è tutti d’accordo – ha continuato Federico Capeci: il consumatore, tutti noi, saremo diversi, dopo la crisi. Abitudini e comportamenti, attitudini e percezioni saranno fortemente impattate dalle emozioni, dall’insicurezza, dalle restrizioni che abbiamo vissuto e stiamo ancora vivendo”.

Se ci si focalizza su quanto rilevato in cambiamento, lo studio Kantar Covid-19 Barometer ha evidenziato cinque aree importanti di evoluzione del consumatore:

  • un focus sul miglioramento personale che diventa opportunità di empowerment, in diverse aree (lavoro, società, salute, wellnes, mindfulness)
  • una richiesta di presa in carico da Governi, Aziende, Marche da cui il Consumatore si aspetta una visione chiara e un’attivazione decisa
  • una maggior sensibilità sociale
  • l’attenzione alla “prossimità”, emozionale e fisica, anche in ambito di scelte d’acquisto
  • la diffusione del digitale e la permeabilità di questo in ogni ambito della quotidianità: la necessità di spostare le esperienze ed i momenti relazionali, ma anche di acquisto, dal fisico al digitale, ha accelerato la transizione di tutti i gruppi sociali verso un’adozione completa del digitale stesso.

Le Aziende hanno risposto a questa pandemia in modo negativo, in forte prevalenza (85%**), con blocchi di assunzioni, congelamenti e tagli di budget, blocco o dilazione nel tempo degli investimenti.

“Solo un 32%** delle Aziende intervistate nel nostro studio COMPASS** – ha spiegato Federico Capeci – ha attivato azioni in ottica proattiva, adattandosi velocemente al nuovo contesto e preparandosi a navigarlo al meglio, fin da subito, con focalizzazione chiara sulle aree di business che potevano giocare un ruolo cruciale, con miglioramenti nell’e-commerce e investimenti in marketing ed innovazione”.

Fra queste, le aziende che hanno saputo cavalcare meglio l’onda, in questo frangente critico, hanno sfruttato 3 leve principalmente:

  • Un grande attenzione al digitale in ogni sua declinazione, a partire dagli investimenti subito spostati sui canali online, previsti crescere ancora da tutta la community dei Marketers sia a livello Globale che Locale, su questi media, a scapito dei media più tradizionali, soprattutto della Stampa e del Cinema. TV e Radio sembrano evidenziare un saldo netto pressochè stabile dalle stime dei Marketers. Ma anche dal focus sull’e-commerce, come canale addizionale, alla capacità di operare in smartworking con la stessa (o con maggior) efficacia rispetto alle modalità tradizionali in ufficio.
  • La capacità di focalizzarsi sugli elementi chiave nelle proprie strategie (rivisitate) di Marketing: valutare su quali touchpoint concentrarsi, sapendo che il 20% dei touchpoint porta l’80% di impatto, individuando le creatività più adatte al nuovo contesto, così come i più adeguati piani media per garantire reach, frequency e sinergie e andare a parlare ai segmenti che anche in contesti più difficili potevano considerarsi attrattivi e potenziali. Un grande #focus quindi sugli elementi chiave, in grado di portare ritorno
  • La generazione di #valore nel breve e nel lungo termine, costruendo sul #brand. I Touchpoint hanno caratteristiche diverse e possono contribuire diversamente al raggiungimento degli obiettivi della marca. Con un mercato che stima di avere un peso della TV simile a quello del Online*** si apre oggi uno scenario in cui dobbiamo ripensare veramente al ruolo che vogliamo dare al Digitale, se (solo) di push sulle performance o anche con la possibilità di impattare in modo più importante anche sul Brand, lavorando quindi per attivare predisposizione alla marca e costruire opportunità di crescita futura. Ma questo implica un atteggiamento diverso verso il mezzo e verso la creatività che utilizziamo nei diversi contesti.

“Quello che rimane, dunque è la necessità di lasciare per un attimo lo scenario “pre-COVID” e anche quello “post-COVID” – ha concluso Federico Capeci – per concentrarsi sull’oggi, sul “durante” che sta dilatandosi come non avremmo voluto e che può rivelarsi, come le aziende più performanti ci stanno insegnando, foriero di opportunità e nuovi stimoli. Bisogna però imparare ad essere più #agili, #focalizzati, #digitali”, ad #agire rapidamente, come le aziende più performanti e rivolte al futuro stanno già facendo”.

AssoBirra propone due misure per sostenere la filiera

AssoBirra, a sostegno del Fuori casa, tra i settori più colpiti dall’emergenza sanitaria, avanza alle istituzioni due proposte di supporto all’intera filiera: una riduzione delle accise da un lato, e un sostegno immediato al canale Ho.Re.Ca. dall’altro.

Le proposte sono state presentate da AssoBirra durante un incontro istituzionale digitale che ha visto la presenza, oltre al Presidente Michele Cason e al Vice Presidente Alfredo Pratolongo di AssoBirra, anche dell’On. Fabio Melilli, Presidente della Commissione Bilancio della Camera dei Deputati, di Luciano Sbraga, Vice Direttore Generale di FIPE e di Luca Paolazzi, Partner di REF Ricerche e Ceresio Investors advisor per il punto sul settore, numeri alla mano.

Le accise

Nel nostro Paese, la birra è l’unica bevanda da pasto a pagare le accise. Un’anomalia che incide in maniera significativa su tutta la filiera e che ora più che mai non può essere ignorata. Tanto più che colpisce tutti: produttori, distributori e consumatori. E ancora: si tratta di una tassa regressiva e dunque ha un’incidenza maggiore sulle birre più popolari e un peso inferiore su quelle di fascia alta. Non solo. È tra le più alte d’Europa e penalizza le aziende che investono e producono in Italia. Per questo, AssoBirra chiede un intervento strutturale che, mediante la riduzione delle accise dall’attuale soglia di 2,99 euro per ettolitro e per grado Plato di birra consenta al comparto di rimanere competitivo. Assicurando una boccata d’ossigeno a tutta la filiera. Consumatori finali, compresi.

Michele Cason

“La birra arriva da un decennio di crescita. Anni in cui ha messo a segno record su record su tutti i fronti: dalla produzione, sostenuta da un export sempre più consistente, al numero di consumatori che sempre più prediligono abitudini moderate con prodotti a basso tenore alcolico. Il comparto ha generato una ricchezza tale da diventare uno dei settori strategici della nostra economia. Questo valore non può andare disperso e, anzi, va valorizzato affinché la filiera birraria possa essere uno dei pilastri strategici su cui costruire una roadmap chiara per affrontare la crisi attuale” commenta Michele Cason, Presidente di AssoBirra.

Il Fuori Casa

Nove miliardi di euro al 2018: a tanto ammonta il valore condiviso generato dalla birra in Italia e che esprime la ricchezza generata. Di questi, oltre 5,7 miliardi di euro sono da ricondursi al canale Ho.Re.Ca., una galassia di oltre un milione e duecentomila addetti e 340mila imprese che, prima dell’emergenza Covid-19, generava un fatturato di oltre 90 miliardi di euro ogni anno. E che oggi è messa a dura prova dalla seconda ondata pandemica e dal recente DPCM del 24 ottobre scorso che ha sancito la chiusura tassativa di tutti i punti di ristoro d’Italia dalle ore 18.00. Non a caso, il quadro disegnato dalla Federazione Italiana Pubblici Esercizi (FIPE) è drammatico: entro la fine dell’anno, chiuderanno 50.000 imprese. In altre parole: oltre 350.000 persone perderanno il posto di lavoro.

Ed è proprio per tutelare questo immenso valore economico e sociale generato in gran parte anche dal sodalizio birra e Ho.Re.Ca. che AssoBirra chiede un sostegno immediato al canale Ho.Re.Ca. tramite un apporto concreto di liquidità destinato ai punti di consumo. Non solo. Va studiata sin da ora una misura volta ad accompagnare la riapertura in toto dei locali, quando avverrà, volta a sostenere in maniera concreta i gestori. Tra le ipotesi sul tavolo: il riconoscimento di un credito di imposta sulla birra alla spina che ne migliori la marginalità.

Alfredo Pratolongo

“Siamo consapevoli di come i provvedimenti presi dal Governo siano necessari perché l’evolversi della pandemia nel nostro Paese sta mostrando segnali di crescita preoccupanti. Tuttavia è altrettanto importante sostenere il business dei singoli esercenti con azioni mirate. Seppure in questi giorni possa apparire prematuro, dobbiamo pensare a come aiutarli a ripartire. E su questo fronte crediamo che la birra possa essere parte della soluzione, non appena superato questo periodo, grazie al suo ruolo trainante nella creazione di valore” commenta Alfredo Pratolongo, Vice Presidente di AssoBirra con delega a Relazioni Istituzionali e Comunicazione. “Supportare la birra alla spina consentirebbe di agire in modo mirato aiutando chi è stato più colpito, ad esempio le oltre 125.000 pizzerie in Italia, che quando potranno riprendere a lavorare a pieno regime avranno seri problemi di marginalità. Per questo inserire un credito di imposta per la birra alla spina è una delle possibili soluzioni pratiche e applicabili concretamente, che porterebbe benefici proporzionali e consentirebbe agli esercenti di migliorare i margini e far fronte così al calo drastico dei consumi”, conclude Pratolongo.

Post- Covid: crescono del 10% i supermercati. L’analisi di Repower

Nello scenario post lockdown Repower ha affidato al Sole24 ORE e Infodata la ricerca “PMI. La ripresa post-Covid in 8 focus”, ricerca in cui vengono indagati 8 settori chiave del nostro tessuto imprenditoriale attraverso altrettanti focus dettagliati.

Ogni focus è composto da un sommario iniziale, da un’analisi dei vari cluster di cui si compone il settore, con numeri e dati aggiornati, e si conclude con i 10 consigli per battere il Covid-19 nei diversi business.

Il focus relativo a retail e gdo comprende circa 141.000 imprese appartenenti sia alla grande distribuzione organizzata (centri commerciali, ipermercati, supermercati e punti vendita analoghi) sia alla parte terminale della filiera automotive: autosaloni e concessionari, servizi di manutenzione, riparazione e commercio di accessori e ricambi.

Le evidenze rivelano che il settore della GDO, tra il 2010 e il 2018, ha visto una crescita per il comparto supermercati (negozi destinati alla vendita di beni alimentari, di solito di oltre 400 mq) di quasi il 10%, arrivando a superare i 45,5 miliardi di euro, mentre nello stesso periodo gli ipermercati (esercizi con superficie maggiore di 2.500 mq e che vendono anche il non- food) hanno invece registrato una flessione dello 0,23%, portando la cifra complessiva degli scontrini a 21,7 miliardi. I discount e la grande distribuzione specializzata negli ultimi venti anni hanno invece vissuto una crescita inarrestabile dovuta alla crisi economica a discapito dei piccoli negozi, che dal 2007 al 2015 hanno perso il 15% e dal 2016 al 2019 un ulteriore 3%. Come prevedibile, il commercio elettronico è volato, con un +60% registrato tra il 2015 e il 2019 anche a causa della modesta base di partenza.

Per quanto riguarda il settore automotive, dopo un’impennata di immatricolazioni nel 2017 secondo l’ACI e una brusca discesa nei 6 anni successivi, si è assistito ad un cambiamento delle abitudini del consumo soprattutto per i millennials delle grandi città, per i quali hanno preso piede forme flessibili di possesso e l’utilizzo sempre più diffuso del car sharing. Nel comparto auto elettriche, le immatricolazioni crescono a ritmi vertiginosi (+115% nel 2019), come evidenziato anche nel White Paper Repower “La mobilità sostenibile e i veicoli elettrici”, ed è destinato a mantenere e superare questi dati per parecchi anni, con una previsione di successo del mercato delle vetture elettriche che si riflette anche nella domanda di servizi correlati, come riparazioni e ricarica.

La pandemia ha colpito in modo diverso i settori GDO e automotive: i dati di marzo e aprile 2020 vedono una crescita della distribuzione del settore food, con la grande distribuzione a +6,9% mentre il settore non alimentare ha visto più che dimezzare il valore rispetto allo stesso mese dell’anno precedente, con una crescita del 27% del commercio elettronico.

Di segno diametralmente opposto, invece, il mercato dell’auto, con il settore del noleggio in generale e di quello a breve termine in particolare fortemente colpiti, ma la vendita a privati scesa relativamente meno degli altri settori (-35,2%). Continua la forte crescita delle vetture elettriche (+54,9%) e delle ibride plug-in (+145%).

La seconda metà del 2020 sarà fortemente segnata dall’impatto della crisi sull’economia: la riduzione del potere d’acquisto degli italiani e la crisi delle imprese potrebbe comportare un ulteriore abbassamento dei consumi, che per il settore food e retail sarà aggravato anche dalla diversa gestione della socialità.

Per ripartire sarà necessario concentrarsi di più sulla sicurezza del cliente, offrire possibilità di pagamento dilazionate o condizioni vantaggiose per incentivare gli acquisti, ampliare la gamma di prodotti e favorire delivery e commercio elettronico, anche con soluzioni innovative quali il pagamento senza casse. La sostenibilità sarà un fattore di scelta cruciale da parte dei consumatori, e la mobilità elettrica probabilmente beneficerà di questa nuova tendenza.

Consumi e consumatori: un rapporto da ripensare

L’emergenza COVID-19 ha profondamente influenzato le opinioni dei consumatori sulla spesa. Prima dell’epidemia, la fiducia dei consumatori era alle stelle, con quasi la metà (46%) degli intervistati globali che si aspettava di spendere di più nei prossimi 12 mesi. Dopo l’inizio dell’epidemia, il 40% a livello global ha riportato una riduzione del reddito e la percentuale di coloro che hanno dichiarato che avrebbero speso meno nei prossimi mesi è quasi raddoppiata mentre il numero di coloro che hanno dichiarato di voler spendere di più è diminuito di oltre il 10%.

La spesa futura

Le aspettative sulla spesa futura tuttavia differiscono notevolmente tra i paesi: con i consumatori europei molto più cauti mentre le prospettive di spesa diventano più positive nei paesi in cui vengono revocate le misure di isolamento, come la Cina e il Medio Oriente. A livello europeo sembra emergere il rischio che la pandemia faccia emergere un Europa a due velocità. Da una parte, infatti, troviamo i paesi del Nord in cui i redditi delle famiglie sono stati meno colpiti dalla pandemia (solo il 34% in Germania dichiara di aver subito una diminuzione del proprio reddito, seguito da 38% in Olanda e 48% in Francia) e in cui i consumatori che ritengono di ridurre le proprie spese nei prossimi mesi sono limitati (25% in Germania, 30% in Olanda e 30% in Francia). Dall’altra paesi come la Spagna e l’Italia duramente colpiti dall’emergenza COVID anche nella propria economia, in cui circa il 60% degli intervistati ha subìto una contrazione delle proprie entrate (57% in Italia e 61% in Spagna). In questi paesi il 42% degli italiani e ddirittura il 56% degli spagnoli intervistati prevede di ridurre significativamente le proprie spese nei prossimi mesi; a principale preoccupazione, infatti, riguarda le prospettive lavorative (57% in Italia, 60% in Spagna vs 33% in Germania).

L’impatto sulla domanda di beni e servizi

Le fasi più acute della pandemia i consumi sono state caratterizzate dall’acquisto compulsivo di prodotti necessari – come generi alimentari e prodotti per la cura della casa e della persona – con un costante aumento della spesa media. Secondo la GCIS Pulse Survey, la spesa per grocery è aumentata per il 64% degli italiani (seguita, a distanza, dal 35% che ha aumentato spese di Entertainment & Media e dal 27% che ha aumentato spesa per food delivery o pickup), e la metà degli intervistati ha acquistato generi alimentari con minor frequenza rispetto a prima dell’emergenza (ma con carrelli più grandi).

Andamento opposto invece avranno gli acquisto di beni non necessari come ad esempio l’abbigliamento. Questa categoria sempre secondo la GCIS Pulse Survey 2020, è stata tra le maggiormente penalizzate con il 58% del campione italiano che ha ridotto spese di abbigliamento e calzature, ma quando i consumatori si sentiranno di nuovo al sicuro, è ipotizzabile e auspicabile un effetto di revenge spending.

Il fuori casa

Se per grocery e apparel i consumatori di tutti Paesi intervistati sono stati concordi durante la pandemia nell’aumentare la spesa di food e ridurre quella di abbigliamento, al contrario la ristorazione ha registrato comportamenti totalmente differenti. Da una parte Italia, Francia e Germania, in cui pur di non rinunciare ai propri piatti preferiti gli intervistati hanno aumentato la spesa in pickup e delivery e la ristorazione è balzata fra le top 3 categorie di spesa in aumento (per il 27% degli italiani, il 24% dei tedeschi e il 32% dei francesi) Dall’altra Spagna, Cina e UK, in cui questa spesa è risultata fra le top 3 più penalizzate: con 49% degli spagnoli, il 47% dei cinesi e il 46% degli inglesi che hanno ridotto gli acquisti in food delivery e pickup.

Erika Andreetta, Partner PwC e Consumer Markets Consulting Leader, commenta: “Siamo di fronte a un forte momento di discontinuità che avrà ripercussioni sull’economia, sulle abitudini di consumo e sul paniere della spesa. In generale, ci attendiamo dai consumatori una tendenza ad acquistare sempre più Made in Italy, anche in un’ottica di solidarietà collettiva. Parallelamente, tra le aziende si verificherà un aumento della collaborazione volta a far ripartire l’economia del nostro Paese, aiutando in primis le filiere produttive e le piccole e medie imprese.”

Fisico e online

Il 64% degli italiani, per la ricerca GCIS Pulse 2020, continua ad acquistare grocery in store, ma analogamente agli altri paesi mediterranei come Francia e Spagna l’online è stato scelto durante la pandemia da quasi un terzo dei consumatori (31% in Italia, Francia e Spagna) e la quasi totalità di questi “nuovi” consumatori continuerà ad utilizzare questo canale anche nel “New Normal” (85% in Italia, 88% in Spagna e 90% in Francia). Questo trend dell’e-grocery è particolarmente rilevante in Medio Oriente in cui il 44% degli intervistati acquista online e in Cina in cui la % di acquirenti online supera quella degli shopper in store (69% vs 25%).

Al contrario rimangono più saldamente radicati verso un consumo tradizionale in store i Paesi di lingua germanica come la Germania (76%) e l’Olanda (70%).

Per il canale fisico in Italia, con le misure di limitazione degli spostamenti torna a essere importante la prossimità: è stata la rivincita del negozio di vicinato. Le piccole botteghe e i negozi di quartiere diventano così i punti vendita prediletti dal consumatore, rivalutati dal 29% degli intervistati nell’ambito dello studio GCIS Pulse 2020. Un trend destinato a restare anche dopo l’emergenza, grazie al riconsolidamento della relazione tra cliente e commerciante. E ancora, un 13% dei consumatori nel corso degli ultimi mesi ha sperimentato acquisti presso punti vendita “nuovi” per il consumatore, che prima dell’emergenza non vendevano generi alimentari al pubblico.

Per il canale online si è assistito e si assisterà ad un forte impulso dell’e-grocery: il 31% degli italiani secondo la GCIS Pulse 2020 ha scelto in Italia il canale on-line per il grocery e di questi il 70% ha acquistato online in quantità maggiori (rispetto al canale fisico) e l’85% continuerà a usare il canale anche dopo la pandemia. Il trend delle vendite di prodotti di largo consumo online dal 17 febbraio al 3 maggio (periodo di quarantena in Italia) è stato del +144,6% (con un picco del +304,6% nella quarta settimana di aprile) (fonte ANSA).

La crescita dell’e-commerce, tuttavia, non riguarda solo la vendita di beni essenziali: secondo i dati della ricerca GCIS Pulse 2020, il 60% dei consumatori italiani ha ridotto i propri acquisti di prodotti non alimentari presso gli store fisici e al contempo il 43% ha utilizzato il computer e il 36% il proprio smartphone.

“Nel brevissimo termine, le aziende del settore Consumer Markets dovranno adattarsi per rispondere alla nuova domanda dei consumatori, oltre che prepararsi per gestire diversamente diversi aspetti operativi al fine di garantire la sicurezza dei luoghi di lavoro e dei punti vendita” – commenta Erika Andreetta. “Tra i trend del medio periodo, invece, auspichiamo un ripensamento del canale dell’e-commerce, in particolare per quanto riguarda il business model delle consegne, ma anche in termini di potenziamento delle piattaforme”.

 

Metodologia

PwC ha svolto nei mesi di maggio e giugno lo studio GCIS Pulse Survey 2020, intervistando quasi 4.500 consumatori in 35 città.

 

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