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Export agroalimentare italiano a un passo dai 70 miliardi di euro

Il settore agroalimentare italiano resta competitivo sullo scacchiere internazionale, con numeri in crescita anche nel 2025 che dovrebbe chiudersi con un export superiore ai 70 miliardi di euro, soglia mai raggiunta finora. Ma ha un problema, reso ancora più di attualità dal protezionismo trumpiano: la sostanziale dipendenza da pochi grandi mercati. L’Italia è oggi il nono esportatore mondiale per valore (67,2 miliardi di euro nel 2024) e secondo Paese per crescita nell’ultimo quinquennio, con un aumento del 55%. Una crescita diffusa su quasi tutti i mercati, con risultati particolarmente rilevanti in Polonia (+112%), Spagna (+74%) e Stati Uniti (+69%). Ma la concentrazione geografica è forte: i primi cinque mercati di destinazione — Germania, USA, Francia, UK e Spagna — rappresentano ancora il 50% dell’export complessivo. Riuscire a diversificare sarà fondamentale in una fase caratterizzata da molteplici fattori di incertezza e complessità, in cui gli equilibri commerciali globali si stanno rivelando sempre più fragili.
Le stime del 2025 sono comunque positive: secondo uno studio Nomisma, i dati gennaio-settembre mostrano una crescita per l’export agroalimentare italiano del +5,7% rispetto allo stesso periodo del 2024, segnale che il comparto dovrebbe superare per la prima volta la soglia dei 70 miliardi di euro. Un record – se così sarà – trainato soprattutto dai mercati dell’Unione Europea (+9%), con ottime performance in Polonia (+17,3%), Romania (+11,1%), Repubblica Ceca (+9,1%) e Spagna (+14,5%). Meno brillante la crescita extra UE (+4%), frenata dai cali registrati negli Stati Uniti (-1,1%), in Russia (-8%) e in Giappone (-13%).

PESA LA SVALUTAZIONE DEL DOLLARO
Il calo dell’export agroalimentare negli USA è legato principalmente alla svalutazione del dollaro (oltre -10% da inizio anno) e all’incertezza generata dalle politiche daziarie dell’Amministrazione Trump, che hanno provocato un andamento altalenante: una forte crescita nei primi tre mesi dell’anno dovuto all’effetto scorte e un crollo fino al -22% in agosto, con l’introduzione del dazio aggiuntivo del 15% su alcuni dei nostri prodotti.
Nonostante ciò, gli Stati Uniti restano un mercato strategico e difficilmente sostituibile per il food & beverage italiano. Con un Pil pro capite prossimo ai 90.000 dollari e una spesa alimentare annua di oltre 4.500 dollari a persona, gli USA importano 211 miliardi di dollari di prodotti agroalimentari, con una crescita del 50% negli ultimi 5 anni. Gli acquisti di prodotti agroalimentari italiani sono aumentati del 66% tra il 2019 e il 2024 e oggi l’Italia è il terzo fornitore con una quota di quasi il 4%, dopo Canada e Messico che congiuntamente pesano per oltre il 40% sull’import agroalimentare statunitense.

IL DIFFERENZIALE DI PREZZO NEGLI USA
La rilevanza del mercato Usa per l’export italiano è stata analizzata da Nomisma attraverso il confronto incrociato – per singolo prodotto – tra la crescita nell’export a volume degli ultimi 5 anni, il differenziale esistente tra il prezzo medio all’export negli USA rispetto alla media mondiale e il peso assunto dal mercato statunitense sull’intera categoria. Dall’analisi è emerso come per due categorie di prodotti in particolare, ovvero i derivati della carne e la cioccolata, il differenziale di prezzo sia superiore al 40% così come la crescita nei volumi esportati risulti maggiore del 50%.
Per olio d’oliva, vini fermi e frizzanti imbottigliati, liquori e aceti l’incidenza del mercato USA è superiore al 25% del nostro export a livello mondiale, con un differenziale di prezzo intorno al 30%, a dimostrazione di quanto il mercato americano risulti “attrattivo” e profittevole per le imprese italiane.

DIVERSIFICARE È UNA PRIORITÀ
Per ridurre i rischi e rafforzarne la crescita futura, diventa quindi fondamentale ampliare la presenza dell’agroalimentare Made in Italy in altri contesti. “Per quanto il mercato statunitense sia insostituibile per il nostro export agroalimentare – premette Denis Pantini, Responsabile Agroalimentare Nomisma – vi sono paesi che nell’ultimo decennio hanno incrementato le importazioni di nostri prodotti food & beverage a tassi medi annui superiori al 12%, in particolare Messico, Polonia, Romania, Corea del Sud ma anche Australia e Brasile, dove i nostri prodotti possono fare leva, oltre che sull’elevata qualità, su asset di sviluppo come la presenza di una nutrita comunità di origine italiana ma anche di ristoranti di cucina italiana, oggi ad un passo dal diventare ufficialmente patrimonio culturale immateriale dell’umanità da parte dell’Unesco. In un contesto economico sempre più instabile, l’agroalimentare italiano conferma la propria forza e la capacità di espandersi oltre confine, ma la sfida per i prossimi anni sarà diversificare, innovare e cogliere le nuove opportunità offerte dai mercati esteri”.
In questo contesto, un ruolo decisivo potrà essere svolto dai nuovi accordi di libero scambio. L’intesa UE–Mercosur, che coinvolge 260 milioni di persone e oltre 3.000 miliardi di dollari di Pil, secondo Nomisma rappresenta un’opportunità per le aziende italiane, considerando che il nostro export agroalimentare verso quest’area già oggi vale 440 milioni di euro (+68% negli ultimi cinque anni). Ulteriori prospettive arrivano dalla chiusura del negoziato con l’Indonesia, mercato da 287 milioni di abitanti, dove l’export italiano ha già raggiunto i 90 milioni di euro, con una crescita del +58% dal 2019.

IL FATTURATO CRESCE PIÙ DELLA MARGINALITÀ
Altro aspetto interessante – messo in luce da Crif, che con Nomisma ha realizzato la piattaforma Agrifood Monitor – è l’andamento di alcuni fondamentali indicatori finanziari con riguardo all’industria alimentare italiana. Il fatturato del comparto mostra tassi di crescita superiori rispetto alla mediana italiana. Sul fronte della marginalità, anche per effetto dell’inflazione sulla componente di energia e materie prime, il progresso rispetto al pre-Covid è risultato meno marcato nel confronto con il dato nazionale.
Dal punto di vista finanziario, invece, il comparto ha solo parzialmente ampliato la propria flessibilità finanziaria, a dispetto di quanto avvenuto in modo più marcato in altri settori. Ciononostante, il debito finanziario continua a risultare sostenibile, con un rapporto debito finanziario lordo su Ebitda mediamente pari a 2,5x e un adeguato livello di copertura degli oneri finanziari prossimo a 8x, pur in presenza dell’incremento del tasso di interesse a partire dal secondo semestre 2022.

TASSO DI DEFAULT IN CALO
Le analisi prodotte da Crif Ratings segnalano che a fine 2024 il tasso di default delle società di capitali operanti nel settore alimentare ha registrato una riduzione di circa 25 punti base rispetto al 2023, a fronte di un lieve aumento di 15 punti base per l’intero universo delle società di capitali italiane. Sebbene tale tasso di default risulti leggermente superiore alla media dell’economia italiana, per quasi tutti i comparti del settore alimentare si è mantenuto su livelli inferiori rispetto a quelli osservati nel periodo pre-Covid.
Relativamente ai pagamenti commerciali, infine, le performance risultano molto eterogenee tra i diversi canali di sbocco anche se, mediamente, tutti mostrano percentuali di ritardi gravi superiori alla media nazionale, seppur senza segni preoccupanti di aumento negli ultimi semestri.
Pur in un contesto di incertezza, il settore alimentare italiano sta dimostrando una sostanziale stabilità dal punto di vista creditizio – commenta Simone Mirani, Managing Director di Crif Ratings –. L’attuale tasso di default delle società di capitali operanti nel settore si mantiene infatti nell’ordine del 3%, di poco sopra la media italiana e con dinamiche sostanzialmente omogenee nei diversi comparti. Tuttavia, la capacità di dotarsi e mantenere un’adeguata flessibilità finanziaria risulta un elemento chiave per affrontare con sufficienti margini di manovra il volatile contesto geopolitico e macroeconomico, ivi incluso l’impatto moderatamente negativo dei dazi USA”.

Export vino, più risorse per la promozione

La partita sui dazi Usa per il vino è definitivamente chiusa? Unione italiana vini (Uiv) si augura di no: “La speranza è che sui dazi si possa giocare un ‘secondo tempo’ – ha dichiarato Marzia Varvaglione, Vicepresidente di Uiv nel corso del convegno organizzato a Villa Madama a Roma dal ministero degli Affari esteri nell’ambito della Settimana della Cucina italiana – con l’esenzione del comparto wine and spirits. Ma in attesa che la diplomazia faccia il suo corso, bene ha fatto il Governo a inserire nel Ddl Bilancio ulteriori 100 milioni di euro l’anno per il triennio 2026-2028 in attività destinate a promozione e internazionalizzazione. Confidiamo che una buona fetta di queste risorse sia riservata al nostro comparto, che tra dazi, calo del dollaro e del potere di acquisto è a forte rischio ridimensionamento”.

SPEDIZIONI OLTREOCEANO CROLLATE DEL 23%
La situazione di mercato del vino verso i Paesi extra-Ue e in particolare gli Stati Uniti – ha aggiunto Varvaglione – è molto critica: in pochi mesi siamo passati da un export oltreoceano a +12,5% di un primo trimestre fortemente condizionato dal frontloading pre-dazi, a un -4% nei primi nove mesi, con un -23% solo nell’ultimo trimestre. Uiv è convinta che in questa fase di pesante incertezza sia necessario aumentare le risorse per la promozione all’estero e al contempo attivare progetti più efficaci e condivisi con le imprese del vino. Una terapia d’urto appoggiata dal Governo”.

PER NON PERDERE TERRENO LE AZIENDE ABBASSANO I PREZZI
Secondo l’Osservatorio Uiv, il calo del prezzo medio per i vini in uscita dalle cantine italiane e dirette oltreoceano nel trimestre luglio-settembre è stato del 15,5%. Un’auto-tassazione, operata per mantenere le quote di mercato, che però le imprese a giudizio dell’associazione non potranno sostenere oltre il breve termine. Per questo, rileva Uiv, è necessario aumentare ulteriormente il plafond destinato al capitolo internazionalizzazione e a progetti di promozione attuati mediante Agenzia Ice. Progetti straordinari, che dovranno essere sviluppati mediante una regia pubblico-privata con un lavoro sinergico tra imprese e agenzie pubbliche per calibrare al meglio gli strumenti più adatti, la comunicazione più efficace, i segmenti di mercato prioritari.

Filiera Madeo celebra con Mark & Spencer il Made in Italy

Un evento per riconoscere i giusti meriti di quanti hanno contribuito a promuovere con successo il food italiano nel Regno Unito. L’Hospitality Awards di Londra è un appuntamento che premia realtà inglesi suddivise in 15 categorie che abbracciano altrettanti settori dell’hospitality. E platinum sponsor dell’iniziativa è stata Filiera Madeo, azienda calabrese che oltre 40 anni fa ha salvato dall’estinzione il Suino Nero e che oggi lavora per valorizzarne le peculiarità culinarie e nutrizionali a livello internazionale di questa antichissima razza, con un’attenzione riconosciuta a livello istituzionale per il benessere animale e il rispetto dell’ambiente.

QUALITÀ DA ESPORTAZIONE
L’awards ceremony dell’Hospitality Awards, che ha dato il via alla decima edizione della Settimana della Cucina Italiana nel Mondo, ha visto premiata la catena Mark & Spencer come Best Retailer Food “Promoting Italian Products Abroad”. Un riconoscimento che conferma non solo il valore delle eccellenze italiane, ma anche la validità e l’importanza della storica collaborazione tra il retailer inglese e Filiera Madeo, un’impresa famigliare che da San Demetrio Corone in provincia di Cosenza esporta oggi in 27 Paesi nel Mondo.
“È stato un onore, oltre che un’emozione, incontrare tante persone unite dalla stessa passione: portare nel mondo la qualità e il gusto autentico dell’Italia – dichiara Anna Madeo, Ceo di Filiera Madeo –. Lavoriamo con Mark & Spencer da molti anni ed è stato sin dall’inizio un partner perfetto, in grado di valorizzare i nostri prodotti e raccontare la nostra realtà al di fuori dei confini nazionali”.
L’Hospitality Awards, giunto alla sua terza edizione, è organizzato dall’Associazione dei Cuochi Professionisti Italiani nel Regno Unito (Apci-UK) e da UK Confederation, con il patrocinio del Consolato Generale d’Italia a Londra.

I dazi sulla pasta al 107% sconvolgono i piani di Sgambaro

Stavolta tocca alla pasta: l’ombra dei dazi si allunga su un prodotto simbolo del Made in Italy. Tutto è nato da un’indagine del dipartimento del Commercio degli Stati Uniti e dall’accusa rivolta a vari produttori italiani di aver praticato dumping nell’ordine del 91,74% sul prezzo di vendita, che quindi sarebbe stato fortemente ribassato per conquistare quote di mercato a danno della concorrenza locale. Il dazio antidumping – su cui l’amministrazione Usa non ha però ancora preso una decisione definitiva – sarebbe di eguale entità e si sommerebbe al 15% previsto per tutte le merci provenienti dall’Europa. In pratica le aziende italiane del settore dovrebbero fronteggiare un superdazio pari a quasi il 107%.
Un fulmine a ciel sereno, come lo definisce Claudio Costantini, Direttore Generale del pastificio veneto Sgambaro, capace di sconvolgere tutti i piani: “Una stangata di queste dimensioni diventa insostenibile e quasi inverosimile. Stiamo parlando di un mercato export che vale 700 milioni di euro e che ha già subìto l’accordo sui dazi al 15%”.

FORTI CONSEGUENZE ANCHE SUL MERCATO INTERNO
Inevitabili le ripercussioni, anche perché secondo Costantini sulla pasta i margini sono già bassi: “Vendite bloccate, ma soprattutto ingenti volumi di merce da immettere su mercato interno e su quello europeo con conseguente impatto sui prezzi. Lavoriamo in un mercato già di per sé saturo, che segue un trend costante e rassicurante, ma lento nei suoi movimenti. È difficile ripensare a dei repentini cambi di strategia per affrontare la nuova situazione ed ecco perché riteniamo sia urgente aprire un tavolo di lavoro comune con la Farnesina e con le associazioni di categoria in modo da adottare un approccio comune e far sentire un’unica voce”.
Per il pastificio Sgambaro, il mercato americano pesa meno del 10% sui 24 milioni di euro di fatturato raggiunto nel 2024, ma rappresenta la priorità numero uno su cui investire nel 2026. “Abbiamo messo in programma, proprio dall’anno prossimo, dei piani di sviluppo – ribadisce Costantini – che prevedono sia l’espansione della struttura organizzativa e commerciale sia del portfolio di prodotti dedicati. Un cambiamento di questa portata ci costringerebbe a ripensare tutto il nostro business plan”.

Il Caseificio Fratelli Castellan ad Anuga nel segno del bio

Sarà un’edizione di Anuga all’insegna del biologico quella che attende il Caseificio Fratelli Castellan. L’imminente fiera di Colonia – in programma dal 4 all’8 ottobre – sarà l’occasione per lanciare sul piano internazionale la Linea Biologica del caseificio trevigiano. Stracchino, Robiola e Ricotta realizzati con latte 100% italiano proveniente da agricoltura biologica con una filiera controllata e certificata. In un mercato come quello tedesco ed in generale del Nord Europa, in cui il biologico è davvero diffuso, l’inserimento di questa linea di formaggi freschi potrebbe offrire occasione di ampliare l’offerta per tanti operatori dell’Horeca e del retail di qualità.
I tre prodotti appartengono alla tradizione italiana e sono accomunati da leggerezza e versatilità in cucina. Lo Stracchino ha un colore bianco latte e una pasta morbida e cremosa; la Robiola è spalmabile, senza crosta con una consistenza soffice e compatta; la Ricotta è saporita e leggera. I formati sono stati scelti pensando alle diverse esigenze del fuoricasa e degli acquirenti dei supermercati. Lo Stracchino è da 100 g e da 1.000 g, la Robiola è da 100 g e la Ricotta è da 1.000 g.
Accanto alla Linea Biologica il Caseificio Fratelli Castellan porterà all’Anuga anche la sua Casatella Trevigiana DOP, prima classificata alla XX edizione del Concorso Caseus Veneti. La Casatella Trevigiana a Denominazione di Origine Protetta viene realizzata solo con il latte convenzionale delle stalle ubicate nella provincia di Treviso seguendo un disciplinare di lavorazione molto preciso a tutela della qualità del formaggio che presenta una pasta morbida, fondente in bocca, di colore bianco latte e con un profumo lieve e fresco. Il suo sapore è dolce, tipico del latte, con venature lievemente acidule. Il Caseificio Fratelli Castellan è uno dei soci promotori del Consorzio per la Tutela del Formaggio Casatella Trevigiana DOP.

Made in Italy, gli stranieri lo trovano sui social media

Il presente e il futuro del Made in Italy passano dai social, diventati il principale canale utilizzato dai consumatori stranieri per scoprire le eccellenze tricolori. A rivelarlo è “Made in Italy in the Social Media Age – Insights: Powered by Pulse Advertising”, studio internazionale condotto da Pulse Advertising in collaborazione con Eumetra su oltre 2.500 consumatori in cinque mercati chiave (Regno Unito, Germania, Francia, USA, Cina). Il 56% dei cinesi, il 44% degli americani, il 38% dei tedeschi, il 37% degli inglesi e il 35% dei francesi dipendono dai social come principale fonte per trovare prodotti e contenuti Made in Italy.
I dati mostrano una leadership inequivocabile in tutti i mercati analizzati – dichiara Paola Nannelli, Chief Sales Officer di Pulse Advertising (nella foto a sinistra) –. Anche nei mercati dove i media tradizionali restano forti, i social media occupano stabilmente la posizione n.1. Non è una tendenza: è la nuova realtà alla base del comportamento dei consumatori quando cercano prodotti Made in Italy”.
Il potenziale economico emerge ancora meglio da un’altra considerazione contenuta nella ricerca: la discovery social sembra essere direttamente correlata alla disponibilità a pagare prezzi premium, dichiarata dal 61% degli intervistati in Cina, dal 40% negli USA e dal 25-35% in Europa.

GIOVANI E INFLUENCER
La necessità di presidiare le piattaforme social è ancora più evidente con riguardo ai giovani, perché il 64,4% della fascia 15-25 anni utilizza Instagram ogni giorno, mentre addirittura il 70,9% fa la stessa cosa con Tik Tok. “I brand che ritardano la riallocazione dei budget rischiano di perdere i futuri acquirenti premium – avverte Alberto Stracuzzi, Direttore Ricerche di Mercato di Eumetra –. I dati generazionali mostrano lo schema dei prossimi dieci anni di consumo nel settore del lusso Made in Italy. Investire per primi crea vantaggi competitivi impossibili da replicare in seguito”.
Altro elemento fondamentale è il passaggio dalla creazione amatoriale a quella professionale, che apre nuove opportunità di partnership. Anche in questo caso i numeri sono inequivocabili: a creare contenuti è solo il 23% degli intervistati in Francia, mentre il 77% consuma contenuti professionali. La quota è ancora più bassa in altri Paesi: 15% in Germania, 18% negli USA, 12% in UK, 9% in Cina. Questa professionalizzazione si traduce in vantaggi strategici per i brand che collaborano con creator affermati e riconosciuti invece di puntare solo sulla reach organica.

ROTTA SULLA CINA
L’opportunità più convincente e immediata per i brand Made in Italy, secondo gli autori dello studio, è la Cina. Una valutazione legata alle dimensioni di quel mercato, dove il total trade vale 66 miliardi euro (+30% rispetto al 2022), il cross-border e-commerce cresce del 20% annuo, il live-shopping market è arrivato a 4,5 miliardi dollari nel 2024, con proiezioni a 24 miliardi entro il 2030.
Tra i vantaggi nel comportamento dei consumatori in Cina, la ricerca elenca il fatto che il 56% si fida delle raccomandazioni degli influencer (contro il 24% negli USA e il 15-20% in Europa); il 58% scopre il Made in Italy tramite i creator che segue; il 61% è disposto a pagare un premium price per prodotti italiani autentici.
L’Italia ha comunque un patrimonio in termine di immagine non trascurabile nei mercati analizzati, visto che un terzo dei consumatori negli USA (38%) e in Cina (32%) associa l’Italia esclusivamente al segmento del lusso, con il Regno Unito in linea con questa percezione premium (29%). Tra i marchi più citati emergono gerarchie chiare e anche sorprese: Armani e Ferrari restano ambasciatori globali del lusso italiano, mentre Barilla conquista una posizione di rilievo, soprattutto in Cina. Altri brand menzionati frequentemente sono Gucci, Dolce & Gabbana, Prada e Versace.

LE AZIONI DA METTERE IN CAMPO
Ma come dovrebbero muoversi le aziende e in particolare i Chief Marketing Officer per sfruttare i social in ottica export? La ricerca suggerisce una serie di azioni immediate. La prima è riallocare almeno il 35% dei budget dedicati alla discovery verso le piattaforme social, in linea con i comportamenti dei consumatori, destinando oltre il 55% ai mercati in cui la scoperta via social supera il 45%. I tassi di discovery sui social vanno poi verificati mensilmente per ottimizzare gli investimenti. Un secondo spazio di intervento è quello delle partnership con i creator: in Cina la priorità è collaborare con i mega-influencer sfruttando il vantaggio di fiducia del 56%, mentre nei Paesi occidentali bisogna costruire reti di creator professionali man mano che i mercati maturano.
Il terzo punto riguarda i consumatori di domani: è necessario dare priorità a TikTok e Instagram per intercettare i futuri acquirenti del lusso; adeguare i budget ai pattern di utilizzo quotidiano dei diversi social, con l’obiettivo di costruire strategie social-first, aggiudicandosi un vantaggio strategico sui concorrenti che restano legati ai canali tradizionali. La quarta e ultima azione suggerita consiste nel focalizzare le campagne premium sui mercati con alta discovery social, valorizzando il concetto di Made in Italy.
In sintesi, i brand tradizionali italiani dovrebbero trasformare i social media da centro di costo a driver di profitto. “Il Made in Italy rappresenta un patrimonio di valore straordinario a livello globale – conclude Claudio Burchi, Managing Director di Pulse Advertising Italia (nella foto in alto) – ma per sbloccarne il pieno potenziale di profitto serve un investimento immediato nei social media. Ritardare significa competere per i consumatori di ieri con i canali di ieri”.

Effetto dazi sull’export di vino negli Usa: prezzo medio cala del 13,5%

L’Osservatorio di Unione italiana vini lancia l’ennesimo allarme: il conto dei dazi lo stanno pagando le imprese. A provarlo sarebbero i dati sulle importazioni delle dogane americane e precisamente la media a listino del vino italiano, passata dai 6,52 dollari/litro di luglio 2024 ai 5,64 dollari del pari periodo di quest’anno, quindi con un ribasso del 13,5% del prezzo medio. E questo, sottolinea l’associazione, nonostante una fase di deprezzamento del dollaro Usa che dovrebbe invece spingere gli americani a spendere mediamente di più per comprare in euro.
Secondo l’Osservatorio, dall’attivazione delle nuove tariffe a fine luglio il vino italiano ha subito tariffe aggiuntive pari a 61 milioni di dollari, circa un terzo rispetto al totale import di prodotti provenienti dall’estero. Una classifica ad handicap, che vede primeggiare di poco la Francia (62,5 milioni di dollari), seguita dall’Italia e, in lontananza, dalla Spagna.

LE IMPRESE COMPRIMONO I MARGINI PER RIMANERE COMPETITIVE
Dobbiamo evidenziare il sacrificio importante sui margini che stanno facendo le nostre imprese per fare fronte ai dazi statunitensi – dice Lamberto Frescobaldi, Presidente di Unione italiana vini –, il vino sta uscendo dalle cantine a prezzi inferiori, e questo testimonia che buona parte delle imprese si sta assumendo in toto il dazio per rimanere competitive”. Ma c’è di più: secondo Uiv si stanno paradossalmente riscontrando ingiustificati aumenti nei punti vendita americani. “Ci risulta che i prodotti allo scaffale facciano parte degli stock pre-dazi accumulati nei primi mesi dell’anno – aggiunge Frescobaldi -; dispiace, perciò, assistere ad aumenti che non hanno ragion d’essere. Speculazioni di alcuni che non aiutano le nostre imprese, ma nemmeno i partner del trade statunitense che si oppongono anch’essi alle tariffe”.
A fronte di queste difficoltà Uiv auspica l’attivazione di una promozione straordinaria per il vino proprio a partire dalla piazza a stelle e strisce già a partire dal 2026. Una reazione concepita a regia pubblico-privata e basata sull’unicità del bere italiano, che oltre agli Stati Uniti dovrebbe concentrarsi su mercati promettenti come Uk, Canada, Brasile.

Conapi-Mielizia, il miele italiano si racconta all’Expo di Osaka

Il miele italiano non è solo dolcezza: è strategia economica. Nell’anno agricolo 2024-25, Conapi-Mielizia, Consorzio Nazionale Apicoltori, filiera del miele biologico e convenzionale con oltre 600 apicoltori e 100.000 alveari, ha sviluppato un fatturato di 23,5 milioni, di cui circa 3,2 milioni provenienti dall’export. Il Giappone da solo pesa il 30% dell’export, pari a quasi 1 milione di euro, confermando il Sol Levante come mercato chiave per la cooperativa di Monterenzio e il suo storico marchio Mielizia. In occasione dell’Expo Osaka, Mielizia celebra 25 anni di presenza nel mercato nipponico con installazioni interattive dedicate alle api, simbolo dell’eccellenza italiana e della capacità di trasformare tradizione e innovazione in valore internazionale.
Una crescita costante che verrà celebrata a Expo Osaka 2025, dove il 29 agosto il Padiglione Italia ospiterà il Convegno Internazionale “Biodiversità a rischio: il ruolo fondamentale degli impollinatori per il futuro della vita sul pianeta”. All’iniziativa internazionale, trasmessa anche in diretta streaming, interverranno esperti, produttori ed esponenti delle istituzioni italiani e giapponesi, tra cui Giorgio Baracani e Nicoletta Maffini, rispettivamente Presidente e Direttore Generale di Conapi, gli entomologi Gianumberto Accinelli e Masahiro Mitsuhata e i rappresentanti di Nichifutsu Boeki, distributore di Mielizia in Giappone. Confermata anche la partecipazione di Mario Vattani, Ambasciatore e Commissario Generale per l’Italia a Expo Osaka 2025.

UNA FILIERA A DIFESA DELLA BIODIVERSITÀ
Il miele biologico Mielizia è presente da oltre 25 anni in Giappone. Un mercato altamente competitivo, attento ad aspetti come la salute e l’autenticità, nel quale – secondo Conapi – il marchio Mielizia si distingue per via di una filiera certificata e tracciata che, oltre alla qualità, garantisce rispetto per l’ambiente, per le api e per la biodiversità, temi centrali nel dibattito globale. Grazie alla propria filiera, infatti, Conapi-Mielizia contribuisce all’impollinazione diretta di una parte significativa del territorio italiano. “Portiamo in Giappone non solo miele – sottolinea Giorgio Baracani, Presidente di Conapi – ma la storia di centinaia di apicoltori italiani che custodiscono ogni giorno la biodiversità del nostro Paese”.
Il Padiglione Italia, progettato dall’architetto Mario Cucinella e situato nel distretto “Saving Life”, ospiterà nel Giardino del terzo piano cinque installazioni interattive – tra cui bee-hotel e arnie – per far conoscere da vicino il ruolo cruciale delle api negli ecosistemi e il percorso che dal fiore porta al miele. Expo Osaka, attesa da oltre 28 milioni di visitatori, sarà il palcoscenico globale per raccontare come le api, e con loro il miele italiano, possano diventare ambasciatori di un futuro sostenibile.

Dazi USA, Coldiretti all’attacco di Ursula Von der Leyen

L’accordo stipulato tra Ursula Von der Leyen e Donald Trump non piace al sistema produttivo italiano. Già alla vigilia dell’intesa, che introduce un’aliquota tariffaria di base del 15% sulla maggior parte dei prodotti europei che entrano negli Stati Uniti, il Centro Studi Confindustria aveva diffuso una simulazione sui danni che ne sarebbero derivati, mentre ora è Coldiretti ad attaccare in maniera dura la Presidente della Commissione Europea. In base a un’analisi dell’organizzazione di imprenditori agricoli condotta su dati del Centro Studi Divulga, i dazi al 15% rischiano di far perdere oltre 1 miliardo di euro al comparto agroalimentare italiano. Con un valore che nel 2024 ha sfiorato gli 8 miliardi di euro, gli USA rappresentano il primo mercato extra-Ue per il settore. Negli ultimi cinque anni, l’export verso gli Stati Uniti è cresciuto in media dell’11% l’anno, arrivando a toccare un +17% negli ultimi 12 mesi. Una dinamica positiva, sottolinea Coldiretti, che ora rischia di invertirsi bruscamente.

I SETTORI PIÙ COLPITI
Il vino è il primo prodotto agroalimentare esportato negli USA, con 1,9 miliardi di euro, e con i dazi subirà un impatto stimato in oltre 290 milioni di euro. Per l’olio extravergine di oliva l’export verso gli Stati Uniti vale oltre 937 milioni di euro e il peso stimato dei dazi è superiore ai 140 milioni di euro. Andrà male anche per la pasta di semola: ad oggi esente da dazi, che ora incideranno per 74 milioni di euro. Restano stabili, invece, molti dei formaggi, che erano già tra il 10% e il 15%, ma l’incertezza sull’abolizione delle quote rischia di avere conseguenze sull’export, che nel 2024 ha superato i 486 milioni di euro.
La Presidente della Commissione Europea Ursula Von der Leyen si sta dimostrando totalmente inadeguata al ruolo che ricopre – dichiara senza mezzi termini Ettore Prandini, Presidente di Coldiretti –. Dopo aver già colpito duramente il mondo agricolo con tagli senza precedenti alla Pac, oggi assistiamo all’ennesimo danno provocato da una gestione improvvisata e debole del negoziato commerciale con gli Stati Uniti. L’accordo siglato con Washington è chiaramente più vantaggioso per l’economia americana che per quella europea. Stiamo assistendo anche al fatto che il documento a base dell’accordo non coincide nemmeno con quello statunitense, una situazione lesiva della credibilità stessa dell’Europa. La Von der Leyen ha mancato ancora una volta l’obiettivo di difendere la produzione europea, il lavoro degli agricoltori e la sovranità alimentare dell’Unione. A pagare il prezzo di questa politica remissiva non sarà solo l’agricoltura, ma l’intero sistema produttivo europeo”.

L’IMPATTO SUL WINE BUSINESS A STELLE E STRISCE
Conseguenze negative ci saranno anche sull’altra sponda dell’Atlantico: per quanto riguarda il mondo del vino, l’Osservatorio Uiv stima danni complessivi per 25 miliardi di dollari. L’analisi prende in considerazione impatto diretto, indiretto e indotto di tutto il vino negli USA nella sola fase distributiva, retail e di trasporto, quantificato nel “2025 Economic Impact Report” da Wine America in 144,4 miliardi di dollari. Questa cifra comprende non solo i fatturati delle vendite, ma anche il valore generato lungo la catena distributiva, nonché gli effetti positivi dei salari e del conseguente potere di acquisto e dell’aumento della domanda di beni e servizi in altri settori correlati. Un effetto spillover su cui le tariffe al 15% sui vini europei andrebbero appunto ad inibire – secondo i calcoli Uiv – 25 miliardi di dollari. “Il vino – afferma Lamberto Frescobaldi, Presidente di Unione italiana vini – deve essere inserito nel pacchetto di prodotti agricoli europei a tariffa zero o a dazio ridotto in corso di definizione da parte dei negoziatori, lo chiediamo noi ma anche i nostri partner americani, come testimoniano le comunicazioni che stiamo ricevendo dalla US Wine Trade Alliance e dai nostri importatori oltreoceano”.
Secondo le stime dell’Osservatorio del Vino Uiv, infatti, i dazi determineranno un calo del valore al consumo di vino italiano, francese e spagnolo pari a circa 3 miliardi di dollari, che a sua volta genererà una voragine nei conti di distributori e retailer. La riduzione del valore al consumo è infatti solo la punta dell’iceberg di un effetto valanga che influirà sull’impatto complessivo socio-economico del wine business negli Stati Uniti, con evidenti ripercussioni in termini di salari, domanda di beni e servizi e posti di lavoro, anche oltre il comparto vino.
L’effetto dei dazi al 15%, secondo l’analisi Uiv, porterà nel giro di un anno l’impatto (diretto, indiretto e indotto) del vino da 144,4 a 120 miliardi di dollari, -17% rispetto al valore attuale. In questo scenario, la riduzione del valore dei consumi di vino italiano pesa sul calo in maniera determinante, per 13,5 miliardi di dollari. Sul fronte dei valori al consumo, se per il vino italiano si prevede una flessione del 20% in un anno, anche i vini domestici, già in perdita da tre anni abbondanti, dovrebbero segnare -13% ad agosto 2026. Altrettanto negative le performance degli altri vini comunitari (-19%), così come dei vini esteri non-Ue (-16%) – argentini, australiani e cileni – anch’essi già in calo e soggetti a nuovi dazi.

UN’INTESA PER EVITARE IL PEGGIO
A parlare di compromesso squilibrato – ma che scongiura il peggio – è Coface, player mondiale nella gestione del rischio credito commerciale. L’aliquota del 15% si applicherà a circa il 70% delle esportazioni dell’UE verso gli Stati Uniti. L’accordo evita la minaccia di una tariffa del 30% inizialmente prospettata dal Presidente statunitense, ma rimane comunque ben al di sopra dell’aliquota dell’1,2% applicata nel 2024. L’UE dovrebbe inoltre investire 600 miliardi di dollari negli Stati Uniti e acquistare prodotti energetici statunitensi per 750 miliardi di dollari in tre anni, impegni la cui fattibilità viene messa in discussione. L’accettazione da parte dell’Europa di un accordo giudicato sfavorevole dalle forze produttive si spiega con la volontà di evitare il peggio e ripristinare una certa stabilità commerciale. I paesi esportatori (Germania, Italia, Irlanda) e le nazioni dell’Europa orientale, preoccupati per le ripercussioni geopolitiche, hanno spinto per un rapido compromesso invece di rischiare un’escalation.
Coface precisa però che l’UE resta in una posizione relativamente privilegiata. Solo il Regno Unito gode di un trattamento più favorevole, mentre anche il Giappone affronterà un’aliquota del 15%, l’Indonesia e le Filippine del 19% e il Vietnam del 20%. Per i paesi senza accordo – Canada, Messico, Corea del Sud e Brasile – Trump minaccia dazi compresi tra il 25% e il 50%.
Ampliando lo sguardo all’intero settore manifatturiero, la situazione è molto complicata per l’industria siderurgica, soggetta a tariffe del 50%, mentre automotive, chimico e macchinari si trovano ora di fronte al 15%. Per il settore automobilistico, già indebolito dalla concorrenza cinese, questa tassa rappresenta un ulteriore ostacolo su un mercato statunitense cruciale. C’è poi da considerare l’apprezzamento del 13% dell’euro rispetto al dollaro da gennaio, che sta esacerbando la perdita di competitività di prezzo.

PER ORA IL CONTO LO PAGANO I CONSUMATORI
Chi si farà carico dei maggiori costi lungo la catena del valore, gli esportatori europei (e i loro fornitori) o i consumatori statunitensi? Coface evidenzia che recenti indagini condotte dalle banche regionali della Federal Reserve suggeriscono che le imprese e i consumatori statunitensi stanno assorbendo quasi il 90% dei costi aggiuntivi derivanti dagli aumenti tariffari. Tuttavia, per alcuni prodotti facilmente sostituibili, l’impatto potrebbe essere maggiore per gli esportatori europei e la capacità delle aziende continentali di sobbarcarsi il peso delle tariffe appare già limitata in settori come acciaio, chimico e automobilistico.
L’accordo commerciale raggiunto tra UE e Stati Uniti appare come una soluzione pragmatica per evitare un’escalation ancora più dannosa – conclude Pietro Vargiu, Country Manager Coface Italia (nella foto in alto) – ma lascia emergere un evidente squilibrio che incide negativamente sulla competitività delle imprese europee, in particolare nei settori strategici per l’Italia come automotive, siderurgico e chimico. In questo contesto di maggiore pressione tariffaria e di volatilità valutaria, è cruciale per le aziende italiane implementare strategie mirate per gestire efficacemente i rischi commerciali e finanziari”.

Dazi USA al 15%: il food & beverage perderebbe 2,9 miliardi di export

A fare i conti è stato il Centro Studi Confindustria e il risultato non lascia molto spazio all’ottimismo: dazi USA al 15% si tradurrebbero in una riduzione dell’export italiano pari a 22,6 miliardi di euro, mandando in fumo oltre un terzo del valore delle vendite nel mercato statunitense. Fortemente danneggiati alimentari e bevande che nel loro insieme perderebbero quasi 2,9 miliardi di euro di esportazioni.
La simulazione prende le mosse da quello che al momento si profila come lo scenario più probabile. La tariffa unica del 15% sembra infatti essere il punto di approdo tra Usa e Ue, capace di scongiurare una guerra commerciale dagli esiti imprevedibili. L’intesa ricalcherebbe l’accordo stipulato dall’amministrazione Trump con il Giappone solo qualche giorno fa e stando a quanto riportato da vari organi di stampa, sarebbe ritenuto un compromesso sostanzialmente accettabile dai 27 Paesi membri dell’Unione europea. Va detto che eventuali esenzioni di specifici settori – tra quelli citati in queste ore ci sono anche i prodotti agricoli e gli alcolici – cambierebbero non poco lo scenario, in particolare per un Paese esportatore come l’Italia.

LE STIME DEL CENTRO STUDI CONFINDUSTRIA
La simulazione del Centro Studi Confindustria si basa su una serie di ipotesi, a cominciare da quella di dazi USA al 15% su tutti i prodotti UE (senza differenze settoriali) e del 10% sulle merci del resto del mondo; a seguire, una svalutazione del 13,5% del dollaro sull’euro da inizio 2025 (equivalente a -10% sulla media 2024) e un’incertezza geoeconomica ai massimi storici, soprattutto negli USA (+300% all’inizio di luglio rispetto a fine 2024). Fatte queste premesse, il risultato è quello già anticipato: -22,6 miliardi di euro di export negli Stati Uniti. Parte di queste perdite sarebbero compensate da maggiori vendite degli esportatori italiani nel resto del mondo (fino a circa 10 miliardi).
In valore assoluto, i settori più colpiti sarebbero macchinari e farmaceutica (rispettivamente -4,3 miliardi e -3,4 miliardi di euro). L’alimentare è quarto e lascerebbe sul terreno 1,820 miliardi di euro, che vorrebbero dire -3,9 sull’export settoriale totale. La perdita per le bevande sarebbe inferiore in valori assoluti (-1,068 miliardi di euro), ma più che doppia se calcolata come percentuale sul totale delle esportazioni: -8,4% e cioè la flessione più importante tra quelle stimate nella simulazione. Cifre che giustificano pienamente la levata di scudi di filiere come quella del vino, per le quali i dazi al 15% avrebbero un impatto devastante.

L’IMPATTO DELLA SVALUTAZIONE DEL DOLLARO
C’è un ultimo aspetto messo in luce dal Centro Studi Confindustria e che chiama in causa le politiche monetarie europee: una riduzione delle tariffe USA o un minore deprezzamento del dollaro, a parità di altre condizioni, avrebbero un effetto quantitativamente simile. In pratica, ciascun punto percentuale in meno di dazi equivale a circa 1 miliardo di export italiano negli Stati Uniti in più, ma lo stesso effetto si otterrebbe con un punto in meno di svalutazione del dollaro. Per esempio: con dazi al 10% o dollaro in risalita del 5% sull’euro, l’export italiano negli USA ridurrebbe le perdite a -17,6 miliardi. Come a dire che il futuro dei settori manifatturieri europei passa sì da Washington e Bruxelles, ma anche da Francoforte. Ovvero, da cosa deciderà il Presidente Donald Trump, dalla capacità negoziale dell’Unione e dalle mosse della Banca Centrale Europea.

 

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