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Flavio Ferretti è il nuovo Presidente di IBC per il prossimo triennio

Flavio Ferretti, Presidente e Amministratore Delegato di Nims, azienda del Gruppo Lavazza, è stato eletto dal Consiglio Direttivo Presidente di IBC – Associazione Industrie Beni di Consumo per il prossimo triennio. Nel corso del suo mandato sarà affiancato da tre Vice Presidenti: Renato Bonaglia (Amministratore Delegato Alcass), Marco Travaglia (Presidente e Amministratore Delegato Nestlé Italiana), Aldo Sutter (Amministratore Delegato Sutter).

Il percorso manageriale di Ferretti si è sviluppato integralmente nel Gruppo Lavazza dove ha iniziato a operare nel 1983 alla Direzione Sales. Tra il 1996 e il 2002, in qualità di Direttore, guida il Trade e Consumer Marketing Italia. Passa successivamente ad altri incarichi dirigenziali in Italia (Direttore Vendite) e all’estero (Home Business Emea Director). Nel 2012 è chiamato alla guida della Business Unit Italia del brand Lavazza, incarico che ricoprirà fino al 2017, anno del suo passaggio alla guida della neoacquisita Nims, specializzata nella distribuzione e vendita diretta di caffè in capsula, che oggi genera un giro d’affari di 112 milioni di euro. Nel corso della sua carriera il manager ha seguito diverse acquisizioni, curando poi l’incorporazione e l’integrazione delle aziende nel Gruppo Lavazza.

Ferretti è membro del Comitato di Presidenza e del Consiglio Direttivo di Centromarca – Associazione Italiana dell’Industria di Marca e del Consiglio Direttivo di GS1 Italy.

Vittorio Cino è il nuovo Direttore Generale di Ibc

I consigli direttivi di Centromarca e Ibc, presieduti rispettivamente da Francesco Mutti e Alessandro d’Este, hanno nominato Vittorio Cino direttore generale delle associazioni. Il manager, 54 anni, laureato a Firenze in relazioni internazionali, proviene da Federvini dove ha ricoperto per due anni la carica di direttore generale.

In precedenza ha trascorso sette anni a Milano, alla guida della direzione comunicazione e public affairs di Coca-Cola Italia – in questo periodo è stato per tre anni presidente di Assobibe e vice presidente di Federalimentare – prima di essere chiamato a Bruxelles in qualità di EU affairs director, mantenendo anche il ruolo di direttore government relations per l’Europa centrale e orientale.

Vittorio Cino è stato per cinque anni responsabile relazioni esterne del gruppo britannico BG (già British Gas) in Italia. Ha lavorato per società di consulenza e agenzie di comunicazione di rilievo nazionale e internazionale (FB Associati, Weber Shandwick) prima di assumere in Federvini la gestione delle attività di rappresentanza del mondo del vino e degli spirits in Italia e a Bruxelles. Adjunct professor alla Luiss business school di Roma e docente in strategic communication allo IULM di Milano, Cino ha presieduto il Comitato public affairs dell’American chamber of commerce in Italia.

Ibc, Associazione Industrie Beni di Consumo, riunisce aziende attive in Italia e all’estero nei settori alimentare, bevande, prodotti per la cura dell’ambiente domestico e della persona, tessile e abbigliamento, arredo, prodotti e accessori per la casa. 33mila imprese che generano un giro d’affari stimato in 100 miliardi di euro.

Industria e Distribuzione: accordo contro le pratiche sleali

Le imprese appartenenti al comparto industriale, rappresentate in Centromarca, Federalimentare e IBC – Associazione Industrie Beni di Consumo, e le imprese del comparto distributivo, rappresentate in Federdistribuzione, ANCC-Coop, ANCD-Conad, insieme ad ADM Associazione Distribuzione Moderna, hanno raggiunto un’intesa per proporre ai legislatori alcune linee guida sull’integrazione della Direttiva UE 2019/633 nell’attuale quadro normativo nazionale per contrastare le pratiche sleali e anticoncorrenziali nel mercato italiano. L’accordo è un importante tassello, concordato da distribuzione e industria del largo consumo, per affermare con sempre maggior impegno la legalità e la correttezza delle relazioni commerciali e il contrasto a qualunque pratica sleale a tutti i livelli della filiera agroalimentare, anche a vantaggio del consumatore finale.

Per le aziende della distribuzione e del largo consumo la libera e leale concorrenza e il rispetto della legalità sono due principi portanti della filiera, fondamentali per continuare a offrire ai consumatori prodotti di qualità al giusto prezzo, per tutelare la sana occupazione e per sostenere la rete delle PMI, in particolar modo in campo agricolo, favorendone l’efficienza e dunque la crescita, anche attraverso una maggiore competitività, sia nel mercato italiano sia a livello internazionale.

Entrando nel dettaglio, l’intesa tra distribuzione e industria propone la creazione di un ampio ambito di applicazione della norma, coinvolgendo tutti i soggetti della filiera senza limiti di fatturato, in un contesto di reale reciprocità, quindi di tutela sia dei “fornitori” che dei “clienti” di tutti i comparti interessati. È necessario che a vigilare sull’applicazione della normativa venga individuato un soggetto superpartes rispetto ai diversi comparti interessati, che sia dotato delle adeguate risorse e completamente autonomo. Il nuovo quadro normativo dovrebbe valorizzare la concorrenza e salvaguardare la libera contrattazione, diventando un punto di riferimento per comportamenti corretti da parte di tutti i soggetti. È perciò utile approfondire l’ipotesi di opportune modalità di conciliazione. Infine si ribadisce la necessità di garantire la riservatezza in eventuali fasi istruttorie, il diritto alla difesa e sanzioni dissuasive commisurate alla gravità dei fatti, ma che non compromettano la continuità delle imprese e il loro equilibrio economico.

L’accordo si inquadra dunque in una più ampia intesa tra i due comparti, che puntano sempre più alla modernizzazione delle filiere, ad una equilibrata remunerazione degli operatori, al rispetto dei diritti delle persone e dei lavoratori nella produzione, raccolta, trasformazione e distribuzione dei prodotti alimentari. In coerenza con questa prospettiva, distribuzione e industria dei beni di consumo sono impegnate da anni in un percorso di buone pratiche di sostenibilità sociale, ambientale ed economica.

L’eleganza (agile) del piraña: perché crescono le chances delle piccole aziende

L’innocenza non c’entra. Questa è – piuttosto – “l’età dell’incertezza” in cui, obtorto collo, ci troviamo ad “essere naviganti che scrivono mappe”. Poetica, acuta (e non proprio rassicurante) è
l’immagine evocata da Antonio Calabrò, direttore della Fondazione Pirelli e vice presidente di Assolombarda, durante l’Assemblea annuale IBC.
Incertezza, dunque, generalizzata: sia sul fronte dell’industria, sia sul piano sociale.
Pesano la carenza infrastrutturale, il costo del lavoro e quello dell’energia, le inefficienze di filiera e – spada di Damocle che urge sterilizzare – l’aumento dell’IVA con il suo portato negativo sui consumi. Non riuscire a bloccare questo aumento – spiega infatti Aldo Sutter, presidente IBC – avrebbe un impatto negativo sulle famiglie e sull’economia (come emerge dalla ricerca
Demopolis, infatti, l’88% del campione vorrebbe venisse bloccato). Da qui il suo appello alle forze politiche a ”compiere scelte responsabili e non demagogiche” visto che le priorità sono “la riduzione del debito pubblico, la crescita e la creazione di nuovi posti di lavoro”.

L’Italia dell’industria
L’Italia dell’industria Per raccontare il tessuto produttivo, le sue potenzialità e le criticità
più evidenti, Pierpaolo Mamone di Deloitte prende spunto da due numeri estremamente indicativi: 8 e 43. Dove 8 indica il posizionamento (lusinghiero) dell’Italia nella classifica dei paesi industrializzati a livello mondiale, mentre il secondo (di cui c’è poco da gioire, invece) si
riferisce al livello di competitività, ambito in cui l’Italia soffre specialmente in relazione a: innovazione, istituzioni, mercato del lavoro e sistema finanziario.
Le potenzialità però ci sono, come si evince dall’export, vero motore delle nostre imprese, che nel 2017 ha toccato quota 40 miliardi e che per il 2020 si proietta verso il traguardo dei 50.
Quindi quello che occorre fare per aumentare la competitività del sistema Italia è colmare il gap tra industrializzazione e competitività. Come? Innovando. Per questo serve investire nei settori
in cui il nostro paese eccelle: Fashion, Agroalimentare, Automotive, Turismo, Nautica, Macchinari Industriali. La condicio sine qua non, però, è che si innovi in maniera organica in tutti i processi aziendali e che l’innovazione assurga al ruolo di approccio culturale, frutto di una metodologia specifica.
Sul fronte dimensionale, le PMI italiane hanno delle chances da non sottovalutare.
È questa la tesi propugnata da Lamberto Biscarini (Boston Consulting) che – capovolgendo
il vecchio adagio del pesce grande che mangia il pesce piccolo – arriva addirittura a tessere un elogio del piraña, apprezzato perché agile, scattante e imprevedibile, ma capace, proprio per
questo, di dare scacco ai simili di grossa taglia. Sono queste stesse prerogative – precisa Biscarini – le qualità in grado di rendere competitive e vincenti sul mercato anche aziende di piccole dimensioni (persino a scapito delle grandi).
La “revanche del piraña”, secondo Biscarini, trova dei riscontri chiari nel settore del Fast Moving Goods europeo e statunitense già da qualche anno. Negli States, infatti, le aziende con un fatturato superiore ai 5 miliardi hanno perso nell’ultimo lustro il 3% di quota di mercato. Situazione speculare in Europa dove si sono registrati, di contro, aumenti di ricavi importanti per “pesci
piccoli” come Innocent (+17%) e Michel et Augustin (+26%).
E sulla falsa riga del successo internazionale possono muoversi anche le (non grandi) aziende nostrane: cogliendo con rapidità i nuovi spazi di domanda e dando una risposta ai bisogni insoddisfatti dei consumatori, adottando un posizionamento indifferenziato e sfruttando l’appeal del made in Italy fuori dai confini nazionali.

La società civile
Anche sul fronte sociale non esistono certezze assolute, conferma l’indagine* Demopolis presentata nel corso del convegno dal presidente Pietro Vento.
Emerge, per esempio, una percezione di peggioramento in diverse aree: dalla sicurezza (specialmente al Sud) alla sanità, dalle opportunità di lavoro alle condizioni familiari. Insoddisfazione e desiderio di cambiare sono dunque, in questo scenario, i sentimenti predominanti e i segnali chiari di una precarietà diffusa.
Connotazioni perfettamente leggibili anche nella scarsa fedeltà del consenso elettorale che dal 2013 caratterizza il nostro paese e che corrisponde al 66%.
Dal macro scenario politico questa fragilità di equilibri si riverbera anche sui consumi: il 46% del campione, infatti, ammette che il suo attuale reddito gli permette di vivere con “qualche” difficoltà che diventa “tanta”, invece, per il 21%.
Quando poi si chiede di fare una previsione sul futuro si nota che la disponibilità all’incremento dei consumi è più accentuata (24%) rispetto alle previsioni di aumento del reddito disponibile  15%).Tra i capitoli di spesa più gettonati: alimentare, viaggi, abbigliamento, tecnologia e
beni durevoli.
Tuttavia, sono molti quelli infedeli al medesimo punto vendita: 75% per il food, ma si sale all’88% per il non food. E questo perché i criteri di scelta oggi sul podio sono il prezzo, la brand equity
e l’italianità.

 

 

 

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