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Debutta BUN, l’hamburgeria 3.0: a tu per tu con Danilo Gasparrini

“C’era ancora spazio. Un piccolo grande mondo inesplorato tra McDonald’s e il burger gourmet. E’ lì che siamo approdati con il nostro format – esordisce così Danilo Gasparrini, fondatopre e ad di BUN, l’hambugeria 3.0 che ha da poco aperto i battenti al Centro di Arese, grazie a un fundrising di 600 mila euro.

[Not a valid template]“L’hamburger è un prodotto standarizzato e quindi consente un business scalabile – spiega Danilo -.  Innestandoci su questo filone, abbiamo poi optato delle peculiarità, adottando la tecnica americana smash (quella della polpetta schiacciata in cottura, per internderci) e scegliendo un pane dolce realizzato con farina di patate. E poi non dimentichiamoci delle tre nostre salse, realizzate con ricetta esclusiva.”

E per i vegetariani?

“La possibilità di scegliere la versione beyond meat”.

Altre innovazioni?

“Burger vegani senza pane, sostituito da foglie d’insalata. E menù ad hoc anche per i cani, perché è giusto  che anche loro  se la spassino un po’. E poi la scelta di eliminare completamente la plastica: acqua rigorosamente in lattina e palette per il gelato tassativamente plastic free.”

Primi riscontri?

“Positivi, la proposta beyond meat sta raccogliando consensi, sviluppando tra il 15 e il 20% del totale vendite.”

Obiettivi di crescita?

“Raggiungere i 5 milioni e aprire nei prossimi mesi altri punti vendita”.

 

Algoritmi, realtà virtuale e AI: a tu per tu con Stefania Bandini

Tra assistenti vocali, robot sempre più autonomi e realtà virtuale diffusamente implementata, l’impressione è che l’Intelligenza Artificiale sia materia prettamente contemporanea, tema di rottura netta con il passato. E invece…

“E invece – sorride paziente Stefania Bandini – costretta dai sui doveri di docente universitaria a fare la spola tra l’Ateneo di Milano Bicocca  e l’Università di Tokyo – sarà proprio il caso di sfatare un mito.

L’intelligenza Artificiale ha sì una data di nascita, ma non è certo recente: per trovarla dobbiamo andare indietro nel tempo, e precisamente   all’ agosto del 1956 (Conferenza di Dormouth), per l’esattezza, quando un pool di ingegneri, psicologici, linguisti e informatici, decise di partire da là: dalle possibilità offerte dai neonascenti computer, metterlo in condizioni di eseguire performances tipiche del problem solving umano, soprattutto nel ragionamento logico. L’ambizione, insomma, era quella di avere macchine che, in modo ingenuo, potremmo definire ‘pensanti’”.

Obiettivo mancato, però…

“Infatti. Negli anni del suo sviluppo l’Intelligenza Artificiale ha vissuto alti e bassi. Ad esempio, c’è stato un momento di grande interesse verso questa disciplina negli anni ’80, con il fiorire dei cosiddetti Sistemi Esperti, che, invece di trattare del ragionamento in generale (che opera su tutti i settori del sapere) si sono concentrati verso ambiti circoscritti del problem solving umano (diagnostica, configurazione di sistemi complessi, pianificazione automatica, etc.) .

Come si spiega allora il boom di oggi?

Semplice: nasce dal combinato disposto di un’enorme mole di dati, delle fitte reti sociali e dell’evoluzione tecnologica. Algoritmi già messi a punto, per esempio, nell’apprendimento automatico oggi possono essere applicati perché abbiamo a disposizione una grande quantità di dati digitali (Big Data). A questo vanno aggiunti i progressi tecnologici (velocità e memoria) e telematici. Senza questo tipo di progresso generale del mondo dell’informatica l’Intelligenza Artificiale rischiava di rimanere all’interno del laboratori di ricerca.

Foto di Gerd Altmann da Pixabay

Con un pizzico di marketing, magari…

Beh, in qualche caso. Specialmente quando le implementazioni di AI sono settoriali, relative ad un singolo settore, ad un aspetto specifico (per esempio, la visione automatica, o la profilazione dei clienti). A quel punto è chiaro che si punti a dargli il massimo della visibilità, per ottenerne i maggiori ritorni possibili.

In quest’ambito, in che ruolo gioca il nostro Paese?

Senz’altro primario. Siamo molto avanti nel campo della ricerca e siamo molto richiesti all’estero. Il problema è sempre lo stesso: chi esce non sempre è incentivato a ritornare. La mancanza di fondi per la ricerca è ormai molto congenita e bisognerà pensare in modo più sistemico per valorizzare al massimo le potenzialità che il nostro Paese esprime.

In prospettiva, quali saranno le prossime frontiere dell’Intelligenza Artificiale?

Il ventaglio di possibilità è ampio e ricco di prospettive: di queste, ne abbiamo diffusamente discusso durante la settimana dell’International Summer School “Advances in Artificial Intelligence”. Di fatto sono emerse 5 tracce operative verso cui si aprono le nuove frontiere dell’Intelligenza Artificiale:

–        Combinare le tecniche di apprendimento automatico con quelle di ragionamento, per essere sempre più aderenti all’operare umano;

–        Sviluppare algoritmi e tecniche di rappresentazione per il trattamento della “conoscenza incerta”, altra peculiarità del problem solving quotidiano negli esseri umani;

–        Studiare e creare nuovi modelli di Intelligenza Collettiva, come i fenomeni di aggregazione sociale fisica (crowd) e virtuale (reti sociali);

–        Coniugare l’Intelligenza Artificiale con la realtà virtuale e i sistemi adattivi (robotica umanoide, tecnologia sensoristica) fino ad arrivare a una conoscenza più profonda dei fenomeni emozionali;

–        Promuovere l’ingegnerizzazione applicativa di risultati promettenti verso il mondo produttivo.

Queste le macro tematiche. Ma quali saranno i prossimi traguardi dell’AI nell’ambito dell’industria e del retail?

Diciamo che in questo settore l’ambito applicativo più ricercato oggi è quello relativo alla profilazione dell’utente, in modo da assecondarne gusti, preferenze e bisogni, personalizzando e indirizzando al massimo l’offerta.

E la privacy?

Purtroppo molto spesso è a rischio. Della questione si dibatte da tempo. Se ne è parlato al G20 di Osaka due anni fa, quando fu redatto un decalogo sull’AI, e se ne continua a parlare in sede UE, con la pubblicazione di documenti di indirizzo. A parte questi embrionali tentativi di regolamentazione, il rischio di un’automazione deresponsabilizzata non è stato disinnescato, e quindi siamo all’alba del disegno di nuovi scenari nell’interazione tra uomo e macchina.

Tra le branche di sviluppo lei ha citato l’intelligenza collettiva, che poi è lo specifico ramo di studio che l’ha condotta in Giappone. Ce ne può parlare?

Studiare l’intelligenza collettiva mi ha portato ad osservare gli aggregati sociali (siano essi fisici o virtuali) per trarne dati e strumenti predittivi e poi proporre soluzioni “confortevoli o sicure” da cui la massa numerica possa trarre giovamento. In Giappone stiamo lavorando all’accoglienza dei visitatori previsti per le prossime Olimpiadi, e che – inevitabilmente – andranno ad impattare (con il rischio di sovvertirli) sui ritmi quotidiani degli abitanti locali. Il nostro obiettivo è quello di trovare algoritmi in grado di ottimizzare l’offerta e garantire il massimo del comfort.


Photo by Moose Photos from Pexels

Le criticità maggiori fino ad oggi riscontrate nel suo lavoro?

Per quanto riguarda la specifica ricerca della realizzazione di strumenti di supporto alla gestione delle folle, manca una figura professionale di riferimento come il “crowd manager “ (a livello nazionale e internazionale), in modo da mettere a disposizione strumenti e competenze per attivare una sinergia tra esperienza umana e analisi provenienti da tecniche come sentiment analisys e machine learning. Attualmente abbiano a disposizione una gamma molto ampia di possibilità combinatorie delle tecnologie esistenti: per usare una metafora, abbiamo in “frigorifero” tanti ingredienti, ma solo le capacità di  combinarli da parte di uno “chef” permette di realizzare pietanze eccellenti. Oggi noi abbiamo a disposizione una grande quantità di dati e le tecnologie per trattarli, ma occorre un piano strategico “naturalmente intelligente” per il loro uso efficace, su tutti i settori dello sviluppo sociale ed economico.

Market research: la svolta è il digitale. Intervista con Gastaut di Toluna

Impostare le proprie strategie di business su ricerche di mercato è una prassi sempre più diffusa, come emerge da una recente ricerca effettuata da Toluna, su un campione di 52 aziende italiane nel mese di giugno. L’indagine evidenzia infatti come  il 94% degli intervistati confermi di utilizzare servizi digitali di market research.

Abbiamo chiesto a  Marco Gastaut, Managing Director Southern Europe & Latam di Toluna di disegnarci uno scenario dei trend delle ricerche di mercato a livello globale.

Velocità, internalizzazione del processo di ricerca, capacità di unire dati da fonti diverse,  soprattutto on e offline, azionabilità in modo da ridurre il time-to-market dei nuovi prodotti, automazione per creare efficienze operative, ovviamente senza compromettere la qualità degli output di ricerca, capacità di combinare – e leggere – insieme dati dichiarati, come quelli dei sondaggi, e dati sul comportamento digitale dei consumatori: a livello internazionale la market research è considerata un investimento strategico che permette di avere il controllo nel processo di generazione dei consumer insight, fondamentale in un momento di cambiamenti veloci, anche delle abitudini dei consumatori.

In Toluna stimiamo che nei prossimi 10 anni il mercato dell’Insight on-demand aumenterà esponenzialmente creando nuove opportunità di business.

Come sta evolvendo in Italia la domanda delle aziende in tema di ricerche di mercato? Quali le richieste più frequenti?

Le tendenze globali non sono molto diverse da quelle in atto in Italia. Un recente sondaggio di Toluna, su un campione di marketer responsabili di brand italiani, ha mostrato che 4 su 10 svolgono ricerche in azienda utilizzando piattaforme digitali DIY come Toluna, che ne è stato pioniere del mercato e oggi mantiene la leadership; 5 su 10 chiedono velocità e 6 su 10 agilità; il 54% si attende invece report in grado di esprimere in modo chiaro e sintetico gli insight più rilevanti.

Quali le principali novità rispetto al passato?

Si può dire che anche in Italia il market research è ormai ad un punto di svolta: del passato rimane la qualità delle ricerche e l’affidabilità dei consulenti, per il resto le modalità di un tempo non sono più applicabili, se si vuole essere rilevanti. Accennavo prima della velocità: oggi non siamo ancora al ‘real time’, ma – per fare un esempio – i professionisti del marketing e dell’advertising sanno di dover lanciare le loro campagne pubblicitarie a una velocità 10 volte superiore rispetto anche solo a 10 anni fa. Credo però che l’automazione, resa possibile dal digitale, sia la differenza più significativa, non solo perché permette di accelerare i tempi e ottenere importanti efficienze operative, ma soprattutto perché democratizza l’approccio alla ricerca di mercato, rendendola potenzialmente accessibile all’intero comparto marketing (qundi non solo a figure specializzate nella ricerca di mercato) e anche alle PMI che sono il tessuto connettivo dell’industria italiana.

Nell’approccio tradizionale, l’80% del tempo era assorbito dalla gestione dei diversi stadi della ricerca (proposta, progettazione del questionario, impostazione delle dimensioni del campione, rilevazione, analisi dei dati, reportistica) e solo il 20% dalla collaborazione con gli stakeholders interni in azienda per la corretta interpretazione dei risultati e renderli azionabili. Oggi Toluna ha invertito questo rapporto. Ma non solo: anche se la piattaforma di Toluna è automatizzata e permette di impostare le ricerche in modalità D.I.Y., non abbiamo mai trascurato l’aspetto consulenziale e siamo sempre a disposizione dei nostri clienti per rispondere a qualsiasi curiosità.

Foto di Wynn Pointaux da Pixabay

Perché si punta più di un tempo sull’internalizzazione dei processi?

Perché i consumatori sono cambiati. Come ha detto di recente Kirti Singh, Head of Consumer Market Knowledge di Procter and Gamble, è sempre più importante avere “occhi sui consumatori, mani sulla tastiera”. Questo non significa che le ricerche più complesse spariranno, ma sottolinea l’importanza di interagire con la target audience in tempo reale, per testare i prodotti velocemente, identificare le idee vincenti, bocciare subito i progetti senza futuro. L’internalizzazione aumenta anche la velocità: dal momento che il time-to-market si è ristretto passando dai 18-24 mesi di un tempo ai 3-6 mesi di oggi, che il largo consumo deve anche affrontare la nuova sfida dei brand D2c e che viviamo nell’era dell’economia on-demand, anche le ricerche cambiano paradigma.

Quali i vantaggi attesi?

Nell’era dell’immediatezza digitale i requisiti di cui parlavo prima sono sempre più importanti per chi si occupa di ricerche di mercato e rientrano, più in generale, in un’innovativa visione di business che in Toluna abbiamo battezzato Insight on Demand. Oggi i consumatori sono più consapevoli che mai delle opzioni a loro disposizione: con lo smartphone fanno ricerche, quando sono nel punto vendita scartano i contenuti non rilevanti, accettano solo i messaggi più pertinenti per loro in quel dato momento e per comprare si affidano a più canali e device. Ecco che velocità e accuratezza diventano un vantaggio competitivo estremamente importante quando i brand cercano di ottenere l’attenzione di questi consumatori esperti.

Quali soluzioni propone Toluna?

Per dare ai marketer un vantaggio competitivo significativo, anticipando le domande dei consumatori, Toluna ha affinato una serie di strumenti digitali che danno accesso a insight in real-time, gestiti con una tecnologia in grado di automatizzarne la consegna per accelerare il processo di decision making. Grazie a Toluna QuickSurveys, per esempio, si ha accesso in tempo reale all’opinione di oltre 20 milioni di consumatori in più di 70 Paesi per lanciare ricerche di mercato on-demand 24/7. QuickSurveys può essere utilizzato per sviluppare nuove campagne marketing, misurare la propria brand awareness, effettuare concept test, pack test, U&A, oltre che lanciare community di consumatori di corto-medio termine. Permette di trovare nuove opportunità in mercati non ancora esplorati dall’azienda, creando sondaggi e studi di posizionamento a una frazione del costo di altri strumenti per la ricerca di mercato.  Di recente abbiamo lanciato la nostra soluzione di permission-based digital tracking che permette ai nostri clienti di creare profili dei consumatori ancora più ricchi e di produrre insight sempre più robusti perché si tratta di comportamenti osservati, e non solo quelli dichiarati dal panel.

Si tratta di formule modulabili in base alle varie realtà aziendali?

Assolutamente sì. QuickSurveys è facile da usare in totale autonomia o con l’aiuto del nostro digital team in Italia, si è interfacciata con la community di Toluna per costruirne di più piccole ad hoc per il brand, geo-localizzate, su mobile grazie all’App di Toluna disegnata per coinvolgere i panelisti. Idealmente, ogni azienda, di qualsiasi dimensione e in qualsiasi settore, dovrebbe poter disporre di un tool di ricerca e ottenere dati in tempo reale: Toluna rende reale questa idea democratizzando le ricerche di mercato.

Potrebbe fornirci un esempio di soluzione già implementata, indicando la tipologia di intervento e i benefici prodotti?

Per ispirare in azienda e supportare il ciclo di sviluppo di nuovi prodotti (NPD), P&G utilizza il nostro tool qualitativo QuickCommunities per ottenere l’opinione dei propri consumatori attraverso community online di corto-medio periodo. Il design di QuickCommunities è ispirato agli ambienti delle chat in tempo reale, questa familiarità si associa un’estrema facilità d’uso che permette ad i partecipanti di esprimersi liberamente, spesso auto-ingaggiandosi tra loro, restituendo insights preziosi per il business.

 

Ai confini della realtà virtuale. A tu per tu con Matteo Esposito di inVRsion

Tutta colpa (ma forse, col senno di poi, sarebbe più giusto dire merito) di una cartolina. Meglio: DELLA cartolina. Quella che gli aprì la strada del servizio civile e, quindi, del mondo del lavoro. Fu così che Matteo Esposito, oggi CEO di inVRsion, mosse i suoi primi passi professionali.

“Dopo un debutto (breve ma intenso) nella facoltà di ingegneria informatica – ci racconta Matteo – e una prosecuzione in direzione “eccentrica” nel ramo della filosofia, in seguito (grazie al richiamo al dovere da parte della Patria) riuscii ad operare una sintesi delle due esperienze (apparentemente incompatibili)”.

Dopo i primi passi nella comunicazione digitale e nello sviluppo di applicazioni multimediali, sarà nei primi anni del Duemila tra i fondatori della nota agenzia digital Imille, dove ricoprirà il ruolo di amministratore delegato fino al 2015. Sarà sul finire di questa esperienza che nascerà l’idea per una nuova startup, inVRsion.

Può spiegarci inVRsion?

“Beh, potremmo dire che la sua forza risiede nella simulazione di spazi retail. Fin dalla sua nascita nel 2015, infatti, la startup si è focalizzata su soluzioni realistiche e scalabili di realtà virtuale per simulare negozi, prodotti e shopping experience.
Nel 2016 abbiamo sviluppato il nostro software, ShelfZone, che consiste in una web application da cui si possono progettare gli spazi retail e visualizzare dati e analytics, e in un simulatore di realtà virtuale immersiva pensato per un hardware di fascia enterprise.
In un crescendo scandito dal passare del tempo, la nostra tecnologia si è evoluta consentendoci di simulare spazi sempre più grandi, prodotti sempre più realistici e di studiare il comportamento dei consumatori in realtà virtuale integrando sistemi neuroscientifici d’avanguardia.”

Il vostro obiettivo oggi?

“Quello di continuare a crescere, essenzialmente in due direzioni: quella del trade marketing e della ricerca, estendendo quindi il ricorso alla realtà virtuale per misurare del gradimento del consumatore, grazie all’ottenimento di specifici KPI come il percorso di navigazione in store, le fissazioni oculari sullo scaffale, l’attivazione mentale ed emotiva rispetto a un determinato stimolo. Tuttavia, la strategia a lungo termine della nostra società è quella di pensare in un modo completamente nuovo l’e-commerce, potenziando la user experience che da troppo tempo è ferma a una banale scheda prodotto. Noi lo chiamiamo v-commerce e pensiamo che, grazie ai dispositivi VR di prossima generazione come quelli prodotti da Facebook o da Sony, possa arrivare presto in tutte le case.
Per perseguire questi due obiettivi ci siamo specializzati nel perfezionamento dei processi di digitalizzazione dei prodotti in 3D, con l’obiettivo di migliorare la qualità e di abbattere i costi. A questo proposito, nel 2016 abbiamo depositato un nostro brevetto per la riproduzione di prodotti tridimensionali, ricorrendo a un sistema di intelligenza artificiale basato su Computer Vision e reti neurali”.

Le vostre soluzioni vengono comprese dalle aziende?

“L’interesse verso soluzioni in grado di accrescere la visibilità dei brand, ottimizzare le attività in store o testare l’efficacia espositiva di un prodotto sul punto vendita, non manca. Serve ancora tuttavia da parte di molte aziende una maggiore organizzazione per strutturarsi a livello di processi. La digitalizzazione dei prodotti 3D, per esempio, non è funzionale solo alla realtà virtuale, ma presto potrà servire diversi casi d’uso che vanno per esempio dal social media marketing al web 3D commerce”.

In termini di scenario competitivo, qual è il panorama?

“I nostri competitor appartengono a realtà con massa critica decisamente più grande della nostra e lavorano all’interno di sezioni dedicate al trade marketing. Realtà dinamiche, agili e piccole (diciamolo pure) come la nostra, non sono attualmente molto diffuse”.

Come vede inVRsion nel prossimo futuro?

“Ancora più proiettata all’estero, come dimostra infatti l’imminente apertura di una nuova sede negli States. Il nostro effort principale continua a essere la ricerca e sviluppo per creare una piattaforma SaaS sempre più evoluta che consenta a brand e retailer di entrare nel futuro di questa tecnologia dalle infinite opportunità che è la VR”.

Materassi, un mercato sempre più fast retail. L’intervista a Filipa Guimarães

Non ci sono più i letti di una volta. E’ proprio il caso di dirlo. In un mercato in cui tutto evolve sempre più velocemente, infatti, anche la domanda e l’offerta di materassi ha iniziato a percorrere nuove strade. Come quella del bed in box. Ne parliamo con Filipa Guimarães – Head South Europe di Emma®, azienda leader nella vendita on line di materassi “in scatola”.

Come è nata l’idea della start up Emma® e come si sta evolvendo il mercato oggi?

Il settore bedding continua la sua crescita, grazie allo sviluppo dell´industria che ha consentito una rapidità in fase di produzione e una conseguente ottimizzazione della logistica. In passato l´industria del materasso richiedeva dei tempi di consegna di circa 45-50 giorni. Ad oggi i tempi di consegna si aggirano sui tre giorni lavorativi. Il mercato dei materassi si sta sviluppando tanto velocemente quanto il mercato del food&beverage e della moda, diventando quindi “fast retail”.

Il mercato del materasso è sempre stato molto “tradizionale” e al momento le aziende che producono materassi investono moltissimo in ricerca e sviluppo. I nuovi materiali superano di gran lunga quelli di una volta, così i brand come Emma® si impegnano a trasmettere ai propri clienti quanto sia importante avere un materasso che faccia bene al proprio benessere psico-fisico.

Emma® Materasso è nata per rispondere a tutte le esigenze dei consumatori, infatti, la nostra mission è sempre stata quella di offrire il meglio ad un prezzo accessibile a tutti poiché avere un buon materasso non deve essere un lusso ma un bene accessibile a tutti.

Quando nasce il brand?

Emma® è stata fondata in Germania nel dicembre del 2015 con l’intento di semplificare l’acquisto di un nuovo materasso. Il brand è parte del gruppo Bettzeit GmbH. Fin dal suo lancio l’obiettivo dell’azienda è stato sviluppare un materasso che si adattasse perfettamente a qualsiasi tipo di struttura corporea e posizione di sonno, usando solamente materiali di alta qualità che offrono il perfetto equilibrio tra sostegno e comfort. Ad oggi, Emma® è presente in 16 Paesi tra cui Regno Unito, Francia, Spagna, Portogallo, Germania e Italia dal 2017.

Nel comparto del bed in a box, vi sono altri attori?

Fin dalla nostra ascesa sul mercato siamo leader nel settore in tutta Europa e lo dimostrano i riconoscimenti ottenuti in diversi Paesi, per esempio in Italia vantiamo il Premio di Altroconsumo come miglior materasso. Confermo che il comparto diventa sempre più competitivo e ogni giorno si avvicinano nuovi attori. Un elemento stimolante per noi, che indica il fervore positivo dell’Industry del bed-in-a-box e il cambio strategia dei produttori tradizionali che hanno deciso di avvicinarsi al nostro business model innovativo.

Quali i vostri punti di forza?

La forza di Emma® sta principalmente nell’aver rivoluzionato il modo di acquistare il materasso, riducendo il catalogo prodotti e puntando sulla qualità Made in Germany con due materassi di alta gamma: Emma Original ed Emma Air. Un altro punto di forza è di certo la possibilità di provare il materasso a casa propria per un lungo periodo ovvero 100 notti, alleviando così ogni dubbio sull’acquisto online. Il reso è sempre gratuito. Inoltre, il brand offre 10 anni di garanzia, con consegna rapida direttamente a casa nel compatto e innovativo box.

A che ritmo crescete a livello globale?

Nel 2018, il brand ha registrato un fatturato di oltre 80 milioni di euro. Stiamo continuando a crescere in modo esponenziale, ricevendo la nomina di Tech-Startup 2018 in più rapida crescita in Europa, grazie anche alla collaborazione di oltre 200 dipendenti. La percentuale di crescita dell’ultimo anno è di oltre il 139%. Inoltre, in questi mesi stiamo lavorando all’apertura di nuovi mercati.

In quale paese le migliori performances?

I nostri dati ci mostrato un andamento di crescita costante in diversi Paesi quindi è difficile dire quale sia quello che sta crescendo di più al momento. La nostra crescita costante in diversi stati è anche riconducibile ai riconoscimenti di alta qualità assegnatici in tutta Europa, che giocano un ruolo importante nella scelta dei consumatori. Per quanto riguarda l´Italia, grazie alla strategia omnicanale prevediamo uno sviluppo del business da sei mesi a questa parte. Siamo entusiasti del trend positivo che stiamo riscontrando. E’ motivo di orgoglio vedere come stia cambiando l’idea tradizionale dell’acquisto del materasso, soprattutto nel consumatore italiano che è solito comprare prodotti per la casa di importante valore solo offline.

Quali gli obiettivi di crescita nel nostro Paese?

Uno dei nostri obiettivi è continuare ad educare il mercato italiano alla rivoluzione del bed-in-a-box , che porta con sé prodotti altamente selezionati e di alta qualità studiati per il benessere diurno generato dal buon sonno ristoratore.

Recentemente si sta avendo un’apertura verso l’omnichannel: come si configura?

Solo pochi mesi fa, gli addetti ai lavori definivano il mercato offline e il mercato online come competitors: ovviamente si trattava di una concezione negativa e analogica. Grazie alla lungimiranza di società strutturate e innovative come Emma® il trend sta cambiando. Infatti, noi abbiamo sposato la strategia omnichannel perché rappresenta la centralità del consumatore a cui offriamo una user experience completa anche a sostegno della crescita del nostro business.

In termini di nuovi canali di acquisto, come si pone il consumatore?

Il consumatore moderno è curioso e tende a fidarsi sempre di più. Il 2018 ha mostrato un tasso di crescita importante degli acquisti online quindi siamo fiduciosi che sarà un trend sempre più in aumento anche per il prossimo anno.

Nel nostro Paese a quali target di consumatori vi rivolgete ?

Emma® racchiude un target di acquirenti molto ampio, poiché offre differenti metodi di pagamento, tra cui la possibilità di ratealizzare l’importo dell’acquisto direttamente nella pagina di check-out. I nostri prezzi sono competitivi e accessibili a un ampio bacino di consumatori anche grazie al nostro prezzo accessibile a molti.

Recente la partnership con materassimagastore.it: ce ne spiega la ratio?

Siamo felici di aver stretto la partnership con Materassi Megastore, una collaborazione che conferma la nostra strategia omnicanale anche per il mercato italiano. Crediamo fermamente che Materassi Megastore sia un socio strategico veramente importante. Siamo orgogliosi di fare parte della loro famiglia ed entrambi siamo convinti che insieme potremo crescere considerevolmente.

Sono in cantiere altre partnership simili?

Certamente sì, stiamo lavorando ad estendere la nostra presenza offline su tutto il territorio nazionale, così da offrire a nostri clienti un’esperienza a 360°.

Può raccontarci un po’ delle recenti innovazioni tecnologiche?

Emma® non è solo un brand e-commerce ma una vera e propria tech company.  Grazie al lavoro del nostro reparto di Ricerca&Sviluppo, che elabora i feedback ricevuti dai nostri clienti, cerchiamo ogni giorno di realizzare prodotti all’avanguardia che rispondono alle esigenze del consumatore finale. In questo momento, i nostri esperti si stanno concentrando sullo sviluppo di un nuovo materasso che al suo interno contiene particelle sensibili alla pressione in grado di regolare la temperatura corporea. Un nuovo prodotto realizzato per raggiungere più rapidamente la fase di sonno profondo e a mantenere costante la temperatura del corpo durante le ore di riposo

Made in Italy e denominazioni: ne parliamo con Mauro Rosati

Quando Mauro Rosati, nella sua introduzione al XVI Rapporto Ismea-Qualivita sulle In­dicazioni Geografiche, parla di consolidamento della #DopEconomy lo fa a ragione veduta. In qualità di direttore generale della fondazione Qualivita, infatti, gode di un osservatorio privilegiato sul comparto e – negli anni – ha potuto costatarne l’evoluzione. Oggi, spiega dunque, le IG – oltre che volàno dei principali di­stretti agroalimentari italiani (valgono alla produzione 15,2 miliardi e pesano per il 18% sul valore totale agroalimentare) – svolgono pure un ruolo culturale, come megafono del nostro “gastronazionalismo” e come punto di sintesi nei vari distretti sia in termini di promozione, sia in termini di esperienze di viaggio.

A lui abbiamo chiesto quali siano le denominazioni con le migliori prospettive di crescita.

“Diciamo che sono tante le “promesse” nel settore delle IG. Tra le produzioni con le prospettive migliori mi piace ricordare la pasta di Gragnano che attraverso l’IGP ha avuto un rilancio dei volumi. Bene anche l’aceto balsamico, che cresce su tutti i mercati e ha conquistato l’estero, divenendo un prodotto globale. E ottimi risultati pure per il cioccolato di Modica, il primo certificato in Italia e in Europa. Restando in tema dolci, infine, è giusto evidenziare la crescita di prodotti secchi come Cantucci, Panforte e Ricciarelli.

Sempre più apprezzati sono prodotti di nicchia come la burrata di Andria IGP o la Piadina romagnola, prodotto ricercatissimo, quasi iconico, ma con una struttura produttiva ancora fragile e un brand ancora non pienamente utilizzato. Se poi guardiamo all’ortofrutta vediamo un consolidamento delle mele (Valtellina e Val di Non) e delle Arance di Ribera.”

Fonte: Rapporto 2018 Ismea-Qualivita

Cosa può dire delle IG nei trasformati?

E’ un settore ampio, che sta muovendo adesso i primi passi decisivi e che potrebbe dare ancora tantissimo. Penso, per esempio, al segmento delle creme spalmabili, che oggi vede in competizioni tre grandi attori. Se solo si utilizzasse materia prima certificata (e penso alle nocciole), si potrebbe aprire un ulteriore importante sbocco per questa denominazione che fa già registrare una crescita al consumo del 29%. Un po’ come è successo per il pistacchio di Bronte che continua a crescere da anni e che nel 2017 ha segnato +11% sull’anno precedente.

Sempre a proposito di trasformati, voglio ricordare come nuovi lanci nel settore dei minestroni surgelati con cipolla di Tropea IGP, abbiano aperto nuove vie alle denominazioni. Un po’ come è successo con il Radicchio di Treviso in IV gamma: in questo caso l’elevato contenuto di servizio ha contribuito a portare al successo il prodotto.

Quali, invece, i prodotti in crisi?

Tra questi (e purtroppo è storia recente) ricordiamo il Pecorino Romano, consumato prevalentemente in America e utilizzato per il 90% nella trasformazione.

In calo anche il pane tradizionale certificato, penalizzato dalla richiesta sempre maggiore di pane con farine speciali e grani antichi come il Senatore Cappelli. Ed infine l’Olio Extra Vergine di Oliva ad Indicazione Geografica che nonostante un consumatore sempre di più alla ricerca di prodotto italiano non riesce a crescere e trovare un proprio spazio di mercato.

Quali le IG che vanno più forte in horeca?

In primis tutte quelle che possono essere ingredienti per la pizza, oggi piatto sempre più gourmet. Penso per esempio ai Pomodoro del Piennolo del Vesuvio DOP, al Parma o al San Daniele DOP, ma anche allo Speck Alto Adige IGP e alla Mozzarella di Bufala Campana DOP.

E poi, ovviamente, gli hamburgher con chianina IGP, che per i giovani sono un po’ come la fiorentina al ristorante. E sempre in horeca vanno alla grande affettati e salumi e aceti balsamici come condimento: tanto appeal e forte leva di marketing.

Quindi il cibo di qualità ha vinto?

Diciamo che è sulla buona strada: i presupposti perché arrivi nel piatto del consumatore ci sono, anche se è indispensabile rafforzare e rendere costante il connubio tra produzione e distribuzione. Un’alleanza tra industria e ristorazione potrebbe dare ancora tanto di più all’alimentare di qualità.

Come intercettare le nuove istanze dei consumatori. L’intervista a Domenico Brisigotti

La sostenibilità – etica ed ambientale – è sempre più un driver di scelta per i consumatori: i responsabili d’acquisto, decisamente più consapevoli di una volta, hanno infatti le idee ben chiare. E basta compulsare il Rapporto Coop 2018 per avere un’idea delle dimensioni del fenomeno: emerge per esempio che nel primo semestre del 2018 il segmento dei prodotti ecologici ha fatto segnare un aumento nelle vendite del 3,6% rispetto allo stesso periodo nel 2017, con un giro di affari di oltre 188,6 milioni di euro. Il marchio “green” spopola: 68 milioni di euro nel periodo gennaio-giugno 2018; e vanno molto bene anche il biodegradabile (33 milioni di euro), il vegetale (30 milioni di euro) e il senza nichel (26 milioni di euro).

E non basta: nel primo semestre del 2018, sono cresciuti anche i prodotti con packaging con “meno plastica” (+14,3%) e i prodotti a marchio etico, che hanno fatto registrare un aumento delle vendite dell’1,8% nei primi sei mesi del 2018, per un valore complessivo di quasi 1,7 miliardi di euro.

Il quadro, insomma, è chiaro: i valori etici ed ecologici portano il consumatore a scegliere.

E la vera novità è che la scelta non riguarda più solo cosa comprare, ma anche dove effettuare l’acquisto, in base alla tipologia e al mix dell’offerta.

Da questo quadro discende, inevitabile, una domanda: cosa fanno le insegne per rispondere in modo adeguato alle nuove istanze di questa domanda evoluta?

Ne abbiamo parlato con Domenico Brisigotti, direttore commerciale di Coop Italia, che ha anticipato alcuni dei temi che verranno dibattuti nel corso del convegno “Da consumatore consapevole a cliente etico: il nuovo ruolo del responsabile d’acquisto” che si terrà durante TUTTOFOOD l’8 maggio (dalle 10,30 alle 11,30) nello spazio Retail Plaza.

“Il cambiamento è epocale – ammette Brisigotti – ma non nasce dal nulla: alle spalle ha un lungo processo di maturazione, che in questi ultimi anni ha subito una fortissima accelerazione. Il risultato è che ora è diventato un tema realmente trasversale, capace di interessare fasce molto ampie di consumatori. Industria e distribuzione devono rispondere a tono, proponendo prodotti adeguati”.

Come si può fidelizzare oggi il cliente?

Le linee guida sono sempre quelle di ridurre l’impatto ambientale, aumentando la sostenibilità sociale. Poi ogni operatore le declina in modo peculiare.

Per Coop, in particolare, si tratta di tematiche “antiche”, mi passi il termine, in quanto già da moltissimi anni abbiamo adottato partiche virtuose sulla filiera.

Oggi la sfida si è complicata perché i fronti sui quali operare sono molteplici

Come risponde Coop?

Concentrandosi sulla propria attività, per dare il meglio, partendo dai propri prodotti a marchio, per poi estendere questa strategia anche a quelli dell’IDM.

L’importante è enunciare meno slogan e dare – invece – risposte concrete. Per questo serve impegnarsi concretamente.

In termini di sostenibilità ambientale, cosa chiedono maggiormente i clienti?

Riduzione delle plastiche, controllo della filiera, maggior sicurezza alimentare. Si tratta di tematiche molto dibattute sui social, in alcuni casi persino virali.

Su altri temi, invece, si nota ancora meno reattività e una sensibilità ancora sopita.

Qualche esempio?

L’abuso di antibiotici negli alimenti: un problema fin troppo sottovalutato, forse perché poco visibile e non immediatamente percepibile, ma – potenzialmente – vettore di conseguenze gravose se non disinnescato tempestivamente.

Coop, al contrario, ha deciso di affrontarlo già da tempo, coerentemente con la propria responsabilità d’impresa.

Un compito arduo, le assicuro, perché comporta il bilanciamento di due istanze se non  proprio contrapposte, quanto meno non certo unisone: da una parte portare avanti l’impegno preso (con gli inevitabili costi aggiuntivi che ciò possa comportare), dall’altra tutelare il potere d’acquisto dei propri soci.

Questo atteggiamento non vi mette a rischio di perdere il primato conquistato negli anni?

Non è un mistero per nessuno che oggi spesso gli atteggiamenti più spregiudicati paghino. Ma Coop non li può seguire per spuntare il prezzo più basso; non può modificare un modello che è la sua ragione d’impresa. Anche a costo di subirne il contraccolpo.

Il discorso è semplice e vecchio come il mondo: si può agire senza responsabilità o essere virtuosi. La scelta è libera, certo. Bisogna però essere consapevoli che se tutti scegliessero la prima opzione, la prospettiva sarebbe paurosa.

Le nuove frontiere del marketing: a tu per tu con Nicoletta Polliotto

«Quando diceva che “La musica è solo di due tipi: quella buona e quella cattiva” Louis Armstrong era già sul pezzo.

Perché il succo del discorso è proprio quello: è la qualità che fa la differenza. In ogni cosa. In ogni attività umana. Compresa l’accoglienza. Al di là delle varie tipologie e dei diversi stili che contraddistinguono il variegato mondo horeca, infatti,  tutto si risolve in una essenziale dicotomia: accoglienza buona vs accoglienza cattiva.»

E’ un fiume in piena Nicoletta Polliotto, anche perché questi argomenti sono la sua quotidianità da tempo. Per la precisione da quando fondò (12 anni fa) la società Muse Comunicazione, per occuparsi di accoglienza turistica e di ristorazione, sempre più volano del turismo.

«L’accoglienza buona – prosegue Nicoletta – è quella capace di  individuare e soddisfare i bisogni dei clienti, e di sapersi raccontare senza mai rinunciare all’autenticità del proprio brand. Soprattutto oggi, in un panorama in cui le abitudini alimentari e di customer journey sono sempre più frammentate ed evolute.»

Quindi cosa cambia nelle modalità di narrazione?

I media, essenzialmente. Basti pensare che quattro utenti su cinque vanno on line, in cerca di soluzioni soddisfacenti e appaganti: dallo sfogliare il catalogo cartaceo si è passati a scrollare le pagine virtuali.

E tutto questo ha impattato anche sulle modalità di fruizione: più veloci e “contaminate”, sempre più improntate alla ricerca di stimoli, spunti e parametri di confronto.

Un cambio epocale, dunque?

Già; una vera rivoluzione copernicana, che ha reso oggi il cliente (anche se preferirei parlare di ospite), assolutamente centrale rispetto alla scelta del prodotto.

Se ancora negli anni ’80 del secolo scorso comunicare equivaleva a pubblicizzare la merce da piazzare, oggi il consumatore deve (e vuole) essere coinvolto. Si deve entrare in empatia con lui per condividere nuovi valori.

Non più e non solo, dunque, marketing esperenziale. Parliamo piuttosto di marketing esistenziale. Il che significa che per ottenere un vero  e profondo coinvolgimento si deve andare là dove si trova il consumatore: on line. Conquistarlo e fare branding.  Anche nel food & beverage.

Come dimostra il crescente successo del food delivery e di certo e-commerce (penso per esempio a quello più tradizionale di Esselunga, ma anche a esperimenti come Cortilia e Foodscovery).

Il mondo horeca è variegato e ricco di sfaccettature, ma esiste un fil rouge unico gli operatori del settore possono seguire in rete?

Capire quali elementi tecnologici siano facilmente applicabili nel proprio quotidiano e individuare verso quale direzione viaggiare. Il rischio, specialmente per le realtà più piccole, è quello di essere travolti dal web mobile marketing e dai social. Per questo è fondamentale un canale di proprietà, facilmente gestibile e indissolubilmente connesso con il proprio brand. E qui la scelta è ampia:  si va dal sito web, all’app (consigliata a realtà più grandi e con maggiore massa critica) sino ad arrivare – sul mobile – al local marketing, argomento che approfondirò il 9 marzo durante TUTTOFOOD.  

Solo successivamente, forti di questo strumento identitario (e magari con il supporto di un consulente che aiuti a declinare e mettere a frutto questa presa di coscienza), si potrà accedere all’immensa piazza del web,  creare commistioni e confrontarsi con altri soggetti anche al di fuori del proprio settore. Perché indossare occhiali altrui e cambiare prospettiva  è sempre fonte di arricchimento. E segno di apertura al nuovo, al diverso, al cambiamento.

 

 

Bottone Cannoli: quando la tradizione si rifà il look

IL RACCONTO DI ALFONSO

«Il mio mantra? Non toppare. Mai».

Alfonso Bottone di sicuro non eccede in indulgenza (specialmente nei confronti di se stesso).

Perchè lui al suo business ci tiene. L’inizio di tutto?

3 anni fa, con la decisione di dare forma e sapore alla sua passione più grande: i cannoli siciliani.

Prima per gli amici, poi in un laboratorio ben strutturato a Ragusa (abilmente gestito dal fratello Alessandro, deus ex machina della produzione) e poi via: il punto vendita nell’aeroporto di Comiso, lo sbarco a Milano, in Via Volta (zona Moscova), le spedizioni in tutta Europa e pure due nuove aperture in cantiere (anche se le location sono ancora top secret).

A chi gli chiede come mai tanto rigore, Alfonso spiega:«Ho scelto di concentrarmi su un’unica specialità e non posso permettermi di farla male.»

E allora?

Alora ho deciso di realizzare un prodotto di alta qualità. Gli altri ricorrono ai semi lavorati producendo 1000 cialde al minuto?

Io rispondo con un prodotto interamente artigianale e con 1000 cialde al giorno, impastate con Nero d’Avola e riempite con ricotta rigorosamente vaccina prodotta con latte di vacche Modicane.

Ovviamente brandizzate…

Ovviamente. Là dove combaciano i due lembi della cialda, come suggello di fabbrica, appongo un bottone di pasta di cacao coppata a mano.

Soddisfatto oggi, a tre anni dal lancio del progetto?

Decisamente sì. Il primo mese a Milano, non è stato facile: non entrava nessuno. Ma poi il passa parola ci ha premiato. Delle cose buone si parla ed evidentemente di Bottone  si è parlato. Tanto che nel 2018 è stato inserito da Vogue tra le tappe obbligate della capitale meneghina.

 

 

 

VISTO DALL’ARCHITETTO

Ma come è nato lo store di Milano? Quale l’idea ispiratrice, quali gli input del cliente e come si concretizzato l’estro artistico degli architetti?

Lo abbiamo chiesto a Marta Grosoli Interior Designer di Daaahaus che ha seguito la genesi dei Bottone Cannoli, passo dopo passo.

«Le informazioni che Alfonso ci ha fornito sono state chiare e concise, fin dal primo incontro – racconta Marta -. Ci ha detto  senza giri di parole:  “Il mio cannolo è speciale, come un gioiello, pertanto vorrei che il locale si avvicinasse più a una gioielleria che a una pasticceria tradizionale siciliana”.

E non basta, ha aggiunto un’altra indicazione: “Nessun richiamo alla Sicilia, mi raccomando. Solo un’attenzione totale per il prodotto stesso, che di per sé esprime già la “sicilianità “.

Acquisite queste poche ma preziose informazioni, abbiamo elaborato il concept con questi elementi chiave: CENTRALITA’ del prodotto, MINIMALISMO, ASSENZA DI COLORI (se non il rosso del Bottone), GIOCHI DI MATERIALI DIVERSI ed utilizzo DELL’OTTONE in quanto materiale che richiama il lusso ed impreziosisce l’ambiente». Da qui la nascita del concept BOTTONE.

Il locale occupa una superficie di 25 mq, ma sembra più ampio: quale soluzioni sono state implementate per dare l’idea di spazio aggiuntivo?

«Per riuscire a concentrare tutto quello che serve in un ambiente così ridotto, dovevamo sfruttare lo spazio al meglio, dando però l’impressione di un’ampiezza maggiore.

Da qui la scelta di utilizzare alcuni “trucchi” architettonici: concentrare lo sguardo sul centro del locale, posizionandovi la vetrina con il prodotto e creare dei “giochi di prospettiva”.

Per ottenere ciò, abbiamo realizzato “una scatola” in effetto cemento, con la parte superiore inclinata che dà una sensazione di profondità.

Questa “scatola” è stata poi messa in risalto da una fascia di LED frontali che, oltre ad accentuarla, creano un’atmosfera molto accogliente nelle ore serali.

Un altro elemento che ha contribuito ad allargare lo spazio è l’inserimento di specchi neri all’ingresso del locale su entrambi i lati e sul soffitto. Questi ultimi creano un effetto avvolgente appena si entra nell’ambiente». 

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Scelta dei materiali e dei colori:quali soluzioni e perché?

«A terra abbiamo realizzato una gettata unica di resina, in modo da eliminare le fughe che avrebbero distolto l’attenzione dalle due barre inclinate in ottone, inserite nella resina stessa. Queste barre partono dall’ingresso e si restringono fino alla vetrina centrale del banco, per portare ancora una volta l’attenzione sul punto focale del locale.Il bancone è realizzato in ottone lucido ( effetto specchio ), per donare ricchezza, eleganza e calore allo spazio, in contrasto con gli altri materiali presenti, “poveri” e dalle tonalità fredde, come il cemento e la resina.

L’ottone è richiamato anche nelle illuminazioni sopra il bancone, nella libreria e nella facciata.

Il colore rosso è stato inserito come ultimo elemento caratterizzante: negli sgabelli, nella macchina del caffè e nel bottone ”inciso” sulla lastra frontale alle spalle del bancone, dove è raccontata la storia dei fratelli Bottone.

La vetrina, inizialmente ribassata, è stata modificata in modo da creare un ingresso che già dall’esterno mostrasse la maestosità dell’interno.

Per questo abbiamo utilizzato tutta l’altezza disponibile, creando una vetrata da pavimento a soffitto, incastonata in un profilo di ottone il più sottile possibile. Per completare il tutto, abbiamo inserito una maniglia a forma di Bottone, che richiama il logo, nonché il “cuore” dell’azienda.

Nel complesso, l’uso dei materiali e il gioco di luci hanno creato quell’atmosfera accogliente che oggi caratterizza e rende unico BOTTONE».

Evolvation: come cambia il settore alimentare. A colloquio con Daniele Tirelli

Stili alimentari in profondo mutamento, complici i nuovi trend, le tecnologie sempre più raffinate e i complessi equilibri su scala mondiale, capaci di innescare processi inediti, pervasivi e  – in molti casi – persino destabilizzanti.

Una rivoluzione a tal punto radicale e imprevedibile che, per definirla in modo appropriato e rispettoso delle sue peculiarità, si è ricorsi a un neologismo: Evolvation.

Una crasi intrigante che sarà oggetto del convegno “FOOD EVOLVATION: learning to sell future’ nourishment”, in programma il prossimo 8 maggio all’interno di Retail Plaza, l’arena di dibattito organizzata durante TUTTOFOOD (fieramilano 6-9 maggio).

Per capire la portata dei cambiamenti in atto e le possibili ripercussioni sui mercati, abbiamo incontrato Daniele Tirelli, che in qualità di presidente del Retail Institute Italy, porterà sul palco del convegno la sua visione, frutto di un programma di ricerca d’avanguardia.

Professor Tirelli oggi il cambiamento ha un nuovo nome: Evolvation. Perché ricorrere a questa crasi?

Questa definizione esprime un concetto difficile, che fonde il termine EVOLution con quello di innoVATION. Il settore alimentare si differenzia per molti versi. Rispetto ad altri, è oggetto di un cambiamento molto ampio, diffuso e veloce. Osserviamo, così, un continuo mutamento dei tratti dei prodotti esistenti sul mercato, che rimanda al concetto di evoluzione epigenetica o lamarckiana. Si tratta di un adattamento continuo e progressivo all’ambiente, cioè ai gusti mutevoli dei consumatori. D’altra parte, non mancano innovazioni radicali, che potremmo paragonare alla ‘speciazione’, ovvero alla comparsa di nuove entità prima inesistenti. Questi due aspetti sono molto confusi nella teoria e nella prassi corrente del marketing e generano fraintendimenti nelle tecniche di lancio di nuovi prodotti, che possiamo definire semplicistiche e confuse, allo stesso tempo. Infatti, gli 8 lanci su 10 che falliscono dipendono dai grandi malintesi sul loro time-to-market, e vengono, pertanto, uccisi prematuramente dai loro creatori.

Come, in che misura e a quale velocità sta cambiando il settore alimentare?

La velocità del processo evolutivo-innovativo, in questo campo, è influenzata dalla pressione di molteplici forze: a) la ricerca scientifica e tecnologica applicata all’agro-alimentare; b) la propulsione commerciale dei mercati globalizzati; c) la cultura popolare influenzata dal sistema mediatico. In breve, è più facile creare nuovi prodotti con i loro processi produttivi. Le diverse “civiltà alimentari” operano, sempre di più, scambi reciproci delle proprie risorse. Il tema dell’alimentazione è al centro dell’attenzione di miliardi di consumatori e assume, a volte, anche forme parossistiche grazie ai formati televisivi e alle altre forme di comunicazione.

Su scala mondiale, che sono sono i vessilliferi del cambiamento?

Certamente le grandi multinazionali del settore sono ancora gli artefici della Food Evolvation. Infatti, sono in grado di cogliere molti elementi destrutturati di novità e di inglobarli nel loro portafoglio-prodotti e, quindi, di commercializzarli su ampia scala secondo le tecniche del marketing internazionale. L’elenco sarebbe lungo, ma basterà citare ciò che accade nel campo delle bevande, sempre più orientate al funzionalismo. Per quanto riguarda lo scenario internazionale, è  certo che i flussi più importanti stanno scaturendo dalle nazioni del Far East e anche dal Sud America, almeno dal punto di vista dell’ingredientistica e delle ricettazioni. Penso  agli epicentri quali l’India, l’Indonesia o le Filippine.

Si punta sulla funzionalità

E chi i gregari?

Sono convinto che, pur nella reciprocità degli scambi consentiti dalla “globalizzazione”, il mondo Occidentale riceverà molti più contributi di quanti ne possa fornire alle gigantesche realtà demografiche dei paesi in pieno sviluppo. Al di là dei pregi delle tradizioni gastronomiche europee, le produzioni agricole asiatiche combinate alle soluzioni culinarie di quelle nazioni, incideranno sempre di più sulle diete del Vecchio Continente oltre che degli USA. A me piace dire che le tradizioni degli altri, agli occhi di chi le scopre e impara ad apprezzarle, diventano delle “innovazioni”, anche se tali non sono.

 

Acini oblungi e apireni, frutto di un’attenta selezione

Quanto le nuove abitudine al consumo sono condizionate dalla Evolvation e quanto, al contrario, la condizionano?

La spettacolarità dell’evolvation è la sua spontaneità. La cultura neo-positivista che prevale in Occidente tende a vedere le abitudini di consumo come frutto di una razionalità che deve essere controllata attraverso la precettistica calata dall’alto dai vari esperti. In realtà, la combinazione di varie soluzioni ristorative e di canali specializzati nell’alimentare nelle grandi città, fa sì che, impercettibilmente, ogni giorno, si creino delle occasioni esperienziali grandi e piccole verso cibi meticciati, diversi da quelli abitudinari. Un esempio è il successo tra i giovani del melange della Hawaiian Poke Bowl. Un altro aspetto è la frattalizzazione che avviene in tutte le classi di prodotto. Pensiamo al sale. La commodity per antonomasia, in poco tempo, si è frazionata in tante alternative legate all’origine: le Hawaii, l’Himalaya, la Persia, ecc. Pensiamo ai mieli monoflorali: di ciliegio, anice, mandarino, cotone, erica, ecc. Il numero delle alternative cresce in modo più che proporzionale in ogni comparto, mentre la distribuzione classica evidenzia grandi difficoltà nel fronteggiare questa esondazione di referenze.

Come cambieranno, da qui a qualche anno, gli schemi gastronomici mondiali?

Il fenomeno di maggior rilievo, nella storia dell’alimentazione moderna, è stato indubbiamente lo “scambio colombiano” conseguente alla scoperta di un altro continente. Per realizzarsi pienamente ha impiegato alcuni secoli. La caduta del comunismo, che ha aperto la via ai liberi commerci su scala planetaria, ha fatto sì che, in poco tempo, tutti i continenti abbiano cominciato ad interagire con tutti gli altri. Vi sono state condizioni per cui (si pensi ai decenni di prezzi del petrolio contenuti) sono cambiati i vettori  del commercio (si pensi alla crescita ininterrotta dell’ortofrutta in contro-stagione, consegnata per via aerea e raccolta al giusto punto di  maturazione). Insomma, assisteremo ad una grande fusione di stili e di basi gastronomiche. Se in Asia si comincia ad apprezzare l’olio d’oliva, in occidente si diffonderà la cucina a base di cocco. Egualmente le sofisticatissime ricette ayurvediche colonizzeranno l’arcipelago delle culture occidentali vegetariane e salutiste. Il fenomeno grandioso consiste nel fatto che i popoli si conosceranno sempre meglio, scambiandosi le ricette e le soluzioni ritenute migliori.

Recente incrocio di prugna e albicocca

Quali i principali asset di questa trasformazione?

Superfluo dire: una distribuzione adattata a queste enormi pressioni commerciali. Io prevedo un grande ruolo per aziende come Amazon.com e Ali Baba che oltre al network con i consumatori finali hanno un asset straordinario nella loro organizzazione logistica. La loro vera forza si esprimerà non tanto e non solo nel servizio “globalizzato” ai consumatori finali. Il grande impatto verrà dalla capacità di sostituirsi al “grossismo” tradizionale, per servire una fitta rete di piccoli punti di vendita specializzati, che opereranno nel tessuto sempre più intricato e inaccessibile dei centri metropolitani culturalmente e umanamente cosmopoliti. La loro strana inversione strategica, che è consistita nel cercare prima la clientela familiare che non il piccolo dettaglio, li ha messi in grado di risolvere, meglio di altri, il problema logistico che risulta molto più rilevante del CRM e delle problematiche del front-end. Spostare i prodotti alimentari da ogni parte del mondo, in quantità crescenti, mantenendoli integri e sani e a prezzi accessibili è una conquista spettacolare e stupefacente. Ed è questa il fondamento della Food Evolvation.

 

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