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Amazon e le istituzioni firmano un accordo per la tutela del Made in Italy

Promuovere e tutelare l’autenticità dei prodotti Made in Italy, contrastando fenomeni di contraffazione a danno delle aziende italiane e dei consumatori: è quanto previsto dal Protocollo d’Intesa tra il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale (MAECI), il Ministero delle Imprese e del Made in Italy (MIMIT), il Ministero dell’Agricoltura, della Sovranità Alimentare e delle Foreste (MASAF) e Amazon, che prevede una stretta collaborazione tra le parti per sensibilizzare le aziende e i consumatori sui rischi della contraffazione e sugli strumenti di tutela disponibili, oltre a iniziative congiunte di formazione e supporto alle Pmi italiane per l’internazionalizzazione attraverso il canale e-commerce.

Agenzia ICE e Amazon si impegnano inoltre a rinnovare l’accordo che permetterà a ulteriori 300 aziende di aprire il proprio account sulle vetrine Amazon internazionali dedicate al Made in Italy e targate ICE, ricevendo una consulenza strategica dedicata tramite i programmi Incubator e attraverso uno specifico supporto logistico e legale negli Stati Uniti. Le vetrine target dell’accordo sono quelle di Francia, Germania, Spagna, Regno Unito, Paesi Bassi, Svezia, Polonia e Stati Uniti.

Per l’occasione, Amazon ha rinnovato il suo impegno nel sostenere l’export delle imprese italiane che vendono sul suo negozio online. Amazon ha annunciato di avere già superato l’iniziale impegno assunto nel 2022 di supportare le piccole e medie imprese italiane che vendono sul suo negozio digitale con l’obiettivo di aiutarle a raggiungere 1.2 miliardi di euro di vendite all’estero entro il 2025. Ad oggi, infatti, le vendite all’estero di tutti i partner di vendita – incluse sia le aziende che vendono tramite Amazon Marketplace, in qualità di partner di vendita terzi, sia le aziende partner di vendita di Amazon Retail, in qualità di vendor – sono pari a oltre 3 miliardi di euro e l’azienda annuncia la sfida di supportare le realtà italiane che hanno scelto Amazon come finestra verso il mondo aiutandole a raggiungere 4 miliardi di euro di vendite all’estero, sempre entro il 2025.

Amazon inoltre mette a disposizione delle imprenditrici e degli imprenditori italiani un evento gratuito di formazione dal titolo “Accademia Virtuale Accelera con Amazon, Come vendere su Amazon e Vetrina Made in Italy”, che si terrà online il prossimo 23 aprile, dalle ore 14:00 alle ore 15.30. Durante il webinar, gli esperti di Amazon spiegheranno come vendere sullo store digitale in pochi passaggi e come utilizzare al meglio gli strumenti offerti, come ad esempio la vetrina Made in Italy. “I Made in Italy Days sono tra le nostre più importanti iniziative di promozione dell’eccellenza italiana in tutto il mondo: oltre il 50% delle vendite dell’edizione dell’anno scorso sono derivate dall’estero, e auspichiamo risultati positivi anche quest’anno”, ha commentato Anna Bortolussi, General Manager Brand Owner and Seller Success, Amazon EU. “Strumenti come la vetrina Made in Italy, che oggi conta più di 2 milioni di prodotti a livello internazionale, e il percorso formativo gratuito Accelera con Amazon, aiutano le aziende a sviluppare il loro business in un’ottica di digitalizzazione e internazionalizzazione”.

Agroalimentare italiano sotto scacco del cibo straniero: l’allarme di Coldiretti

Il 2023 ha segnato un record storico degli arrivi di cibo straniero che hanno raggiunto la quota di 65 miliardi di euro, in aumento del 5% rispetto all’anno precedente. A denunciarlo è la Coldiretti sulla base dei dati Istat sul commercio estero delle regioni italiane, sottolineando che si tratta di prodotti spesso provenienti da Paesi che non rispettano le regole di sicurezza alimentare e ambientale.

Coldiretti sostiene che si possa parlare di un vero e proprio attacco al patrimonio agroalimentare dell’Italia favorito dalle follie europee che stanno facendo calare la produzione agricola nazionale spingendo il deficit alimentare del Paese che è arrivato a produrre appena il 36% del grano tenero che le serve, il 53% del mais, il 51% della carne bovina, il 56% del grano duro per la pasta, il 73% dell’orzo, il 63% della carne di maiale e i salumi, il 49% della carne di capra e pecora mentre per latte e formaggi si arriva all’84% di autoapprovvigionamento.

Il prodotto simbolo di questa invasione è il grano. In Italia, nel 2023, sono più che raddoppiate, per un totale di ben oltre il miliardo di chili, le importazioni di cereale dal Canada trattato con glifosato secondo modalità vietate a livello nazionale. Ma se il Paese dell’acero resta il primo fornitore, la vera invasione che ha segnato il 2023 è quella di grano russo e turco aumentati rispettivamente del +1004% e del +812% secondo un’analisi pubblicata dal Centro Studi Divulga. Un fenomeno mai registrato nella storia del nostro Paese e che ha fatto calare in maniera significativa le quotazioni del prodotto italiano.

Aumentano anche gli arrivi di frutta e verdura dall’estero, in ascesa del 14% in quantità con punte del 39% per le patate, con una vera e propria invasione di prodotto francese, tedesco ed egiziano, Paese quest’ultimo che ha più che raddoppiato le importazioni in Italia, secondo l’analisi Coldiretti su dati Istat.

A pesare, rimarca ancora Coldiretti, sono anche gli accordi commerciali agevolati che portano in Italia prodotti coltivati spesso con l’uso di pesticidi vietati nell’Unione Europea che fanno concorrenza sleale a quelli nostrani, deprimono i prezzi pagati ai produttori e rappresentano una minaccia per la salute dei cittadini. Si va dal riso asiatico che viene coltivato utilizzando il triciclazolo, potente pesticida vietato nell’Unione Europea dal 2016, ma che entra in Italia grazie al dazio zero, alle lenticchie canadesi, anch’esse fatte seccare con il glifosato, che rappresentano i 2/3 del totale importato nel nostro Paese.

Ci sono poi le arance egiziane, oggetto di notifiche dal Rassf, il sistema di allerta rapido dell’Ue, per la presenza di Clorpirifos un pesticida bandito nell’Unione Europea dal 2020; le nocciole turche su cui pesa anche l’accusa del Dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti di essere coltivate con lo sfruttamento del lavoro minorile; i limoni argentini coltivati usando pesticidi tra cui propiconazolo, vietato dal 2019. Senza dimenticare il concentrato di pomodoro cinese che costa la metà di quello tricolore grazie allo sfruttamento dei prigionieri politici e fa abbassare le quotazioni del prodotto nazionale.

Coldiretti chiede dunque un netto stop all’ingresso di prodotti provenienti da Paesi fuori i confini Ue che non rispettano gli standard garantendo il principio di reciprocità delle regole: “si tratta di concorrenza sleale, che mette a rischio la salute dei cittadini e la sopravvivenza delle imprese agricole” afferma il Presidente della Coldiretti Ettore Prandini.

Parmigiano Reggiano, nuova vittoria contro il fake a Singapore

Dopo la vittoria di metà marzo in Colombia, Paese in cui è stato fermato il sesto tentativo del gruppo Alpina di registrare il marchio “Parmesano”, il Consorzio del Parmigiano Reggiano festeggia un altro successo. Il giudice dell’Alta Corte di Singapore ha infatti respinto il ricorso di Fonterra Brands che, in seguito alla registrazione nel Paese del nome Parmigiano Reggiano come Indicazione Geografica, ha presentato un’istanza per richiedere che il termine “Parmesan” non venisse considerato una traduzione del nome della DOP. Scopo dell’azienda era, evidentemente, limitare la portata della protezione dell’IG Parmigiano Reggiano al fine di commercializzare senza contestazioni a Singapore, con il nome “Parmesan”, un formaggio con il marchio “Perfect Italiano”, che adotta i colori del tricolore italiano sulla sua confezione benché prodotto in Nuova Zelanda e/o Australia.

Il Consorzio si è subitaneamente opposto, ottenendo una decisione favorevole dall’ufficio IPOS (Intellectual Property Office of Singapore). L’appello da parte di Fonterra Brands davanti all’Alta Corte di Singapore è stato rigettato: il giudice ha stabilito che “Parmesan” va considerato una traduzione di “Parmigiano Reggiano”, come dimostrato dal Consorzio.

A pochi giorni dal caso della Colombia, è stato dunque fermato un ulteriore tentativo di approfittare indebitamente della notorietà, della qualità e delle caratteristiche di eccellenza della DOP che può essere prodotta esclusivamente nella sua zona d’origine comprendente le province di Parma, Reggio Emilia, Modena, Mantova alla destra del fiume Po e Bologna alla sinistra del fiume Reno. Nel 2008, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha stabilito che solo il formaggio Parmigiano Reggiano DOP può essere venduto con la denominazione Parmesan all’interno dell’Unione Europea. Tuttavia, la normativa che protegge il nome Parmigiano Reggiano all’interno dell’UE non vale in tutti i Paesi del mondo, aprendo la porta a usi non corretti del nome per formaggi prodotti negli Stati Uniti e in altre nazioni. Il Consorzio stima che il giro d’affari del falso Parmesan fuori dall’Unione europea sia di 2 miliardi di euro, circa 200mila tonnellate di prodotto, ossia oltre 3 volte il volume del Parmigiano Reggiano esportato.

«A Singapore, il Consorzio ha riportato un’altra importante vittoria nella sua lotta globale contro l’uso illegittimo del termine Parmesan, a un anno da quella conseguita in Ecuador e a pochi giorni dal caso della Colombia», ha dichiarato Nicola Bertinelli, presidente del Consorzio. «La decisione della dell’Alta Corte di Singapore rappresenta un risultato importante per il sistema delle Indicazioni Geografiche nel Sud-Est Asiatico, poiché viene ribadita l’importanza fondamentale del legame tra prodotto, territorio e Denominazione di Origine. L’azione del nostro Consorzio viene portata avanti nell’interesse sia di tutta la filiera del Parmigiano Reggiano, sia dei consumatori nel mondo, che da oggi anche a Singapore non correranno più il rischio di essere ingannati al momento dell’acquisto. Stiamo portando avanti una battaglia per costruire una strategia più ampia a livello globale, che vada a beneficio non solo della DOP Parmigiano Reggiano, ma di tutte le Indicazioni Geografiche; è una lotta che non terminerà a breve e che richiederà coraggio e dedizione, ma non per questo smetteremo di affrontarla».

Boom dell’agroalimentare italiano negli Emirati Arabi, +38,8% nel 2022

Vola l’export agroalimentare italiano negli Emirati Arabi Uniti e fa segnare 416 milioni di euro su base annua, +38,8% rispetto al 2021. Agenzia ICE, nel contempo, continua l’attività a supporto del settore nel territorio emiratino sviluppando la collaborazione con Euromercato, uno dei maggiori distributori di prodotti agroalimentari italiani negli Emirati Arabi Uniti.

Un accordo stretto per portare a Dubai i prodotti dell’eccellenza gastronomica Made in Italy, che funziona. Sono già 86 le aziende italiane che hanno trovato ospitalità sugli scaffali degli “shop in shop” corner Italia, a testimonianza che il progetto avviato lo scorso anno comincia a dare concreti risultati.

Per fare il punto e a rilanciare la collaborazione pochi giorni fa a Milano si sono incontrati il Presidente dell’Agenzia ICE Matteo Zoppas e Mohammed Alsheihhi, Presidente di Euromercato. “È un modello di progetto ad altissimo potenziale che posiziona direttamente sul mercato i prodotti del Made in Italy e Agenzia ICE ritiene che questo tipo di progetti possa favorire un ritorno immediato sulle esportazioni dell’Italia” ha commentato il Presidente Matteo Zoppas.

Euromercato è uno dei maggiori distributori di prodotti agroalimentari italiani negli Emirati Arabi Uniti e dispone di “shop in shop” corner all’interno dei principali punti vendita dei seguenti grandi distributori: Union Coop, Abu Dhabi Coop, Ajman Coop, Sharjah Coop, Emirates Coop,Lulu Hypermarket, Falcon City Dubai, Carrefour – Cuisines of the world.

Il progetto, della durata di 8 mesi da ottobre 2022 a giugno 2023, consiste in un’attività di promozione multichannel di eventi sia fisici che digitali e social e la campagna si dipana durante le principali festività locali per massimizzare il coinvolgimento dei clienti e il ritorno dell’operazione promozionale in termini di vendite di prodotti Made in Italy.

Le azioni sono finalizzate a promuovere la conoscenza, l’immagine e la qualità dei prodotti agroalimentari italiani, contrastare l’italian sounding e, indirettamente, a stimolare le vendite del settore agroalimentare già fornitrici della catena, oltre che favorire l’ingresso di nuove aziende nel mercato emiratino. Il ritorno atteso dalla campagna è pari a 400.000 euro di acquisti aggiuntivi.

In Giappone crescono i consumi e le richieste del bio made in Italy

In Giappone il biologico rappresenta ancora una nicchia di mercato. Il trend però è decisamente positivo, con una crescita media annua post-Covid pari al 8-10%, tanto che il Paese asiatico rappresenta uno tra i mercati più promettenti per il bio Made in Italy, come confermato anche dal panel di imprese alimentari e vitivinicole italiane intervistate da Nomisma in occasione del quinto forum Ita.Bio.

L’interesse verso il bio è in fermento in Giappone, lo conferma il “segno più” che contraddistingue in modo trasversale tutti i numeri del settore: 11,9 mila di ettari coltivati secondo il metodo biologico, in crescita del +13% in 10 anni, nonostante rappresentino ancora solo lo 0,5% sul totale della superficie agricola complessiva. Il piano di sviluppo del Ministero dell’agricoltura giapponese punta ad arrivare ad una quota del 25% entro il 2050. In questo scenario, oggi in Giappone il canale retail, rappresenta oltre i due terzi delle vendite. Il mercato degli alimenti “naturali” – healthy, naturali, sostenibili e vegetariani/vegani – è invece stimato a circa 6 miliardi euro, suggerendo come il mercato biologico per le sue caratteristiche abbia un enorme potenziale di crescita.

L’interesse per il bio è però ancora molto concentrato su specifici target (famiglie dell’upper class con figli al di sotto dei 12 anni e residenti nella regione di Tokyo), tanto che l’incidenza complessiva del bio sul totale del carrello alimentare è ancora assolutamente marginale. Dimensioni, dunque, ancora piccole ma che sottintendono enormi potenzialità da crescita, da ricondurre soprattutto ad un graduale cambiamento delle famiglie giapponesi verso uno stile di vita più sano (il 64% afferma di scegliere prodotti biologici perché più sicuri per la salute).

I dati della consumer survey originale realizzata da Nomisma rilevano che la consumer base oggi è ancora limitata ad una quota di acquirenti regolari, con i non user rappresentano il 68% della popolazione). I target in cui è molto forte il richiamo del bio sono quelli dei nuclei familiari in cui sono presenti bambini in età prescolare e delle famiglie ad alto reddito (1 su 4 consuma prodotti biologici regolarmente). Tuttavia, se si analizzano i principali driver di scelta dei prodotti alimentari per il consumo domestico, vi sono nello specifico due leve che guidano le scelte del consumatore giapponese: l’origine nazionale del prodotto e il prezzo . Solo l’8% sceglie come primo criterio di scelta per la spesa alimentare il marchio biologico (18% risposta multipla): i consumatori hanno una forte sensibilità al prezzo e, al tempo stesso, forti difficoltà a riconoscere i reali valori sottostanti alle produzioni biologiche. A differenza di quanto accade in altri mercati, i consumatori giapponesi non scelgono il biologico per motivi legati alla sostenibilità ambientale di questo metodo produttivo quanto. Piuttosto. per la sicurezza e la qualità che il bio trasmette.

Il monitoraggio realizzato da Nomisma fa emergere alcune aree di lavoro fondamentali per incrementare conoscenza, consapevolezza e interesse verso la categoria. Oltre 1 consumatore su 3 dichiara infatti di non aver informazioni sufficienti e dettagliate sulle caratteristiche e i valori degli alimenti biologici (quota che supera il 70% per i non user di bio). Nello specifico, più di 1 consumatore su 2 vuole avere informazioni più dettagliate sul contributo alla sostenibilità (ambientale, sociale ed economica) e, analogamente, vuole saperne di più sui benefici salutistici e sulla distintività del biologico rispetto al convenzionale.

Nel percepito dei consumatori giapponesi, l’Italia si posiziona al terzo posto, dopo Francia e Australia, tra i Paesi che producono i prodotti bio di maggiore qualità. “Supportare i protagonisti dell’agroalimentare biologico italiano è il primo obiettivo della piattaforma Ita.Bio dove Nomisma rappresenta la struttura di market intelligence in grado di monitorare dimensioni, trend e opportunità dei principali mercati internazionali” illustra Silvia Zucconi, Responsabile Market Intelligence Nomisma S.p.A. “Nello scenario giapponese sono due le leve per la penetrazione del mercato: la ristorazione fuori casa, da sempre ambito di forte sperimentazione per il consumatore, e la possibilità di conoscere i prodotti tramite assaggi e materiali sul punto vendita. Un’area di lavoro fondamentale per il mercato è il packaging dei prodotti: riciclabile nei materiali, di alta qualità sia nella grafica che nella precisione del confezionamento”.

“Pasta, olio extra-vergine, formaggi e vino sono i prodotti italiani a marchio bio più acquistati dai consumatori giapponesi ma anche le categorie per i quali il consumatore è più interessato al binomio bio-Made in Italy. In ottica futura il vino è sicuramente uno dei prodotti che presenta le maggiori opportunità di crescita per l’Italia, anche in virtù del fatto che dal 1° ottobre 2022 la certificazione biologica JAS è stata estesa anche alle bevande alcoliche, vino incluso” afferma Emanuele Di Faustino, Responsabile Industria, Servizi e Retail Nomisma S.p.A.

“Grazie all’analisi dei mercati in collaborazione con Nomisma, al sistema Ice e a un desk dedicato attivato da FederBio, siamo in grado di aiutare le imprese fornendo informazioni e contatti utili per orientare le proprie strategie commerciali e consolidare lo sviluppo nei mercati esteri”, conclude Paolo Carnemolla, Segretario Generale di FederBio.

Inflazione in calo ma occorre sostenere i consumi per salvaguardare il Made in Italy

I dati diffusi da Istat relativi ai prezzi al consumo del mese di febbraio evidenziano un’inflazione in rallentamento rispetto a quella del mese precedente: l’indice generale segna +9,2%, mentre il carrello della spesa registra un +13%.

“Nonostante si inizino a rilevare i primi segnali di un rallentamento dell’aumento generalizzato dell’inflazione, per effetto del sostanziale calo dei costi dei beni energetici, permane un sentiment diffuso di incertezza sul piano economico e servirà ancora diverso tempo per attenuare gli effetti dell’aumento dei prezzi, che resta tra le preoccupazioni principali delle famiglie italiane” ha commentato Carlo Alberto Buttarelli, Direttore Ufficio Studi e Relazioni con la Filiera di Federdistribuzione.

“Il potere d’acquisto è stato fortemente messo sotto pressione in questi ultimi mesi e oggi continuiamo a registrare una contrazione dei consumi nel comparto del food, con un calo a volume tra i 4 e i 5 punti percentuali rispetto a un anno fa. È una situazione alla quale si deve porre la massima attenzione, con l’obiettivo di sostenere i consumi ed evitare impatti significativi sulle tante filiere agroalimentari di qualità ed eccellenza del Made in Italy.

Nel corso dell’ultimo anno le aziende della distribuzione moderna hanno fatto uno sforzo economico significativo, assorbendo parte degli aumenti generalizzati sui beni di consumo, per attenuare l’impatto sui prezzi e tutelare il potere di acquisto degli italiani. Oggi da parte delle nostre aziende non ci sono le condizioni per assorbire nuovi incrementi dei prezzi, ci auguriamo che i chiari segnali di rallentamento sui costi dell’energia e delle materie prime di queste settimane portino anche il sistema industriale ad agire in questo senso e porre un freno alla spinta agli aumenti che ha caratterizzato il mercato in questi mesi”.

Prodotti biologici fake, FederBio applaude all’indagine della Procura di Santa Maria Capua Vetere

Da sempre al fianco delle forze dell’ordine per combattere le truffe nel biologico, FederBio ringrazia la Procura di Santa Maria Capua Vetere, gli investigatori della Guardia di Finanza e dell’ICQRF del MASAF per la recente operazione che ha consentito di scoprire una rilevante frode nella commercializzazione di prodotti falsamente dichiarati biologici. L’indagine comprende note aziende, al momento sono sette le persone indagate, per cui sono scattate le misure cautelari. Otto le realtà coinvolte con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata al falso ideologico e alla frode aggravata.

La più importante organizzazione del biologico italiano sottolinea che, se confermata, l’inchiesta può consentire di fare pulizia in comparti agroalimentari tipici del Made in Italy come le conserve a base di pomodoro e le mandorle.

Da anni FederBio è parte attiva nel segnalare alle autorità competenti situazioni a rischio frode, in particolare in alcuni comparti e territori critici come quelli che sono stati oggetto delle indagini da parte della Procura di Santa Maria Capua Vetere. La Federazione propone soluzioni concrete per migliorare il sistema dei controlli che integrano le moderne tecnologie digitali per garantire un monitoraggio, preciso e in tempo reale, delle tecniche di produzione e una vera tracciabilità anche nel caso di filiere complesse.

“In questa delicata situazione congiunturale, in cui anche il mercato dei prodotti biologici risente delle difficoltà delle famiglie italiane è ancora più importante garantire la massima trasparenza e rassicurare i consumatori sul rigore con cui vengono scoperti e perseguiti coloro che frodano – sottolinea Paolo Carnemolla, Segretario Generale di FederBio -. Episodi come questi nel casertano costituiscono un grave danno di concorrenza sleale per tutti i produttori biologici onesti, pregiudicando anche i cittadini che scelgono un’alimentazione sostenibile a base di prodotti bio. Recentemente abbiamo sollecitato il Governo affinché dia attuazione alla delega sulla riforma del sistema di certificazione dei prodotti biologici, e questa indagine dimostra come non ci sia più tempo da perdere”.

Export agroalimentare italiano alle stelle ma occorre tutela contro l’agropirateria

Con un aumento del 17%, è record storico per l’export agroalimentare italiano nel mondo che ha raggiunto i 60,7 miliardi di euro nel 2022 trainato dai prodotti simbolo della dieta mediterranea come vino, pasta e ortofrutta fresca che salgono sul podio dei prodotti italiani più venduti all’estero. I dati emergono dall’analisi della Coldiretti sulla base dei dati Istat sul commercio estero relativi al 2022 che evidenziano un balzo a doppia cifra per l’alimentare nonostante la guerra in Ucraina e le tensioni internazionali sugli scambi mondiali di beni e servizi.

A livello generale la Germania resta il principale mercato di sbocco dell’alimentare con un valore di 9,4 miliardi davanti agli Stati Uniti con 6,6 miliardi che superano di misura – sottolinea la Coldiretti – la Francia che si piazza al terzo posto 6,5 miliardi. Risultati positivi anche nel Regno Unito con 4,2 miliardi che evidenzia come l’export tricolore si sia rivelato più forte della Brexit, dopo le difficoltà iniziali legate all’uscita dalla Ue. Tra i prodotti il re dell’export tricolore si conferma il vino per un valore stimato vicino agli 8 miliardi di euro nel 2022, secondo le stime della Coldiretti, grazie ad una crescita a due cifre delle vendite all’estero. Al secondo posto si piazzano la pasta e gli altri derivati dai cereali con un volume di vendite all’estero che volano oltre i 7 miliardi di euro mentre al terzo ci sono frutta e verdura fresche con circa 5 miliardi e mezzo di euro di export, ma ad aumentare in modo consistente sono anche l’extravergine di oliva, oltre a formaggi e salumi.

L’andamento sui mercati internazionali potrebbe però ulteriormente migliorare – sottolinea la Coldiretti – con una più efficace tutela nei confronti della “agropirateria” internazionale il cui valore è salito a 120 miliardi, anche sulla spinta della guerra che frena gli scambi commerciali con sanzioni ed embarghi, favorisce il protezionismo e moltiplica la diffusione di alimenti taroccati che non hanno nulla a che fare con il sistema produttivo nazionale. In testa alla classifica dei prodotti più taroccati secondo la Coldiretti ci sono i formaggi partire dal Parmigiano Reggiano e dal Grana Padano con la produzione delle copie che ha superato quella degli originali, dal parmesao brasiliano al reggianito argentino fino al parmesan diffuso in tuti i continenti. Ma ci sono anche le imitazioni di Provolone, Gorgonzola, Pecorino Romano, Asiago o Fontina. Tra i salumi sono clonati i più prestigiosi, dal Parma al San Daniele, ma anche la mortadella Bologna o il salame cacciatore e gli extravergine di oliva o le conserve come il pomodoro San Marzano. Ma tra gli “orrori a tavola” non mancano i vini, dal Chianti al Prosecco – spiega Coldiretti – che non è solo la Dop al primo posto per valore alla produzione, ma anche la più imitata. Ne sono un esempio il Meer-secco, il Kressecco, il Semisecco, il Consecco e il Perisecco tedeschi, il Whitesecco austriaco, il Prosecco russo e il Crisecco della Moldova mentre in Brasile nella zona del Rio Grande diversi produttori rivendicano il diritto di continuare a usare la denominazione prosecco nell’ambito dell’accordo tra Unione Europea e Paesi del Mercosur. Una situazione destinata peraltro a peggiorare se l’Ue dovesse dare il via libera al riconoscimento del Prosek croato.

A pesare sul Made in Italy a tavola nel mondo ci sono anche il probabile arrivo delle prime richieste di autorizzazione alla messa in commercio di carne, pesce e latte sintetici alla minaccia delle etichette allarmistiche sul vino fino al semaforo ingannevole del Nutriscore che boccia le eccellenze tricolori. Si tratta di un sistema di etichettatura fuorviante, discriminatorio ed incompleto che – sottolinea la Coldiretti – finisce paradossalmente per escludere dalla dieta alimenti sani e naturali che da secoli sono presenti sulle tavole per favorire prodotti artificiali di cui in alcuni casi non è nota neanche la ricetta. I sistemi allarmistici di etichettatura a semaforo – continua la Coldiretti – si concentrano esclusivamente su un numero molto limitato di sostanze nutritive (ad esempio zucchero, grassi e sale) e sull’assunzione di energia senza tenere conto delle porzioni, escludendo paradossalmente dalla dieta ben l’85% in valore del Made in Italy a denominazione di origine.

“Il contributo della produzione agroalimentare Made in Italy alle esportazioni e alla crescita del Paese potrebbe essere nettamente superiore con un chiaro stop alla contraffazione alimentare internazionale” ha affermato il presidente della Coldiretti Ettore Prandini sottolineando che “serve cogliere l’opportunità del Pnrr per modernizzare la logistica nazionale ed agire sui ritardi strutturali dell’Italia sbloccando tutte le infrastrutture per migliorare i collegamenti tra Sud e Nord del Paese, ma anche con il resto del mondo per via marittima e ferroviaria in alta velocità, con una rete di snodi composta da aeroporti, treni e cargo”.

Bio made in Italy, è boom nei Paesi scandinavi

Danimarca e Svezia, ottavo e nono mercato al mondo per vendite di prodotti bio, con un incremento rispettivamente del +183% e del +176% negli ultimi 10 anni e un tasso di penetrazione del bio dell’87%, sono tra i mercati più promettenti per il bio Made in Italy – come confermato anche dal panel di imprese alimentari e vitivinicole italiane intervistate da Nomisma. Il dato emerge dalla survey sui consumatori danesi e svedesi presentata in occasione del quarto forum Ita.Bio, la piattaforma online di dati e informazioni per l’internazionalizzazione del biologico Made in Italy curata da Nomisma e promossa da ICE Agenzia e FederBio.

IL RUOLO DELL’EXPORT NEL BIO MADE IN ITALY
Molto positiva la performance dell’export agroalimentare bio: nel 2022 le vendite di prodotti agroalimentari italiani bio sui mercati internazionali hanno raggiunto i 3,4 miliardi di euro, mettendo a segno una crescita del +16% (anno terminante a giugno) rispetto all’anno precedente. Il riconoscimento del bio made in Italy sui mercati internazionali è testimoniato anche della crescita di lungo periodo (+181% rispetto al 2012, un valore quasi triplicato) e dalla quota di export sul paniere Made in Italy, con un peso del 6% sull’export agroalimentare italiano totale nel 2022. La gran parte delle esportazioni riguarda il food ma è rilevante anche il ruolo del vino.

I NUMERI CHIAVE DEL BIO IN SCANDINAVIA
Tutti i numeri del bio in Scandinavia sono positivi. La Danimarca è l’ottavo mercato al mondo per valore delle vendite di prodotti bio sul mercato interno con 2.240 milioni di euro e una quota di vendite bio sul totale della spesa alimentare pari a ben il 13% (quasi raddoppiata rispetto al 2010). Segue a pochissima distanza la Svezia – nono consumatore mondiale di prodotti bio – con un valore di 2.193 milioni di euro e un peso del bio che sfiora quasi il 9%. Per non parlare della spesa pro-capite per prodotti bio: 384 euro in Danimarca e 212 euro in Svezia che fanno sì che i due Paesi si collochino ai vertici della classifica mondiale, rispettivamente al secondo e quinto posto.

IL CONSUMATORE BIO IN SCANDINAVIA (DANIMARCA & SVEZIA)
I dati della consumer survey originale realizzata Nomisma confermano un forte interesse per il bio in Scandinavia: quasi 9 famiglie su 10 hanno consumato un prodotto alimentare o una bevanda a marchio biologico nel corso del 2022. Tra gli altri fattori che fanno della Scandinavia un mercato ad alto potenziale per il bio ci sono, da un lato, la quota di heavy user (il 40% delle famiglie acquista bio in ogni spesa o quasi) e, dall’altro, la centralità della caratteristica bio come driver di scelta, tanto che 1 consumatore su 5 dichiara di considerare il marchio bio come primo criterio di scelta quando acquista prodotti alimentari, quota che aumenta per alcune categorie di prodotti come ortofrutta fresca, olio extra-vergine di oliva, alimenti per bambini e formaggi.

Dalla survey di Nomisma risulta anche che la sostenibilità ambientale e sociale rappresenta la principale motivazione dei consumatori scandinavi alla base della scelta di prodotti biologici e coinvolge quasi ben la metà degli user. Gli ulteriori motivi che guidano gli acquisti di prodotti bio tra i consumatori di Svezia e Danimarca sono la sicurezza per la salute e le qualità e le proprietà nutrizionali differenti rispetto ai prodotti convenzionali.

Il marchio biologico non è l’unico attributo che conta nella scelta dei prodotti da mettere nel carrello e il consumatore richiede coerenza e sostenibilità a 360°. A conferma di ciò, ben il 28% degli user bio ritiene importante che la confezione sia eco-friendly o che il prodotto sia stato fatto rispettando l’ambiente (minori emissioni di CO2, zero sprechi, uso di energia rinnovabile ecc …).

“Supportare i protagonisti dell’agroalimentare biologico italiano è il primo obiettivo della piattaforma Ita.Bio dove Nomisma rappresenta la struttura di market intelligence in grado di monitorare dimensioni, trend e opportunità dei principali mercati internazionali” dichiara Silvia Zucconi, Responsabile Market Intelligence Nomisma S.p.A. “Il forum è stato dedicato ai Paesi scandinavi, mercati dove il bio italiano ha un’importante opportunità di sviluppo: la Danimarca è prima per quota di consumi bio sul totale (12%) con un consumo pro capite che sfiora i 400 euro, la sostenibilità è primo driver di scelta dei prodotti agroalimentari – precedendo l’interesse verso prezzo e convenienza, l’Italia è il primo Paese a cui i consumatori riconoscono alta qualità delle produzioni alimentari – premesse che unite al supporto del desk dedicato attivato da ICE Agenzia e FederBio rappresentano formidabili opportunità per le imprese italiane”.

IL MADE IN ITALY BIO PER IL CONSUMATORE SCANDINAVO
Nel confronto internazionale, l’Italia si posiziona al primo posto tra i Paesi che producono i prodotti bio di maggiore qualità: a pensarla così è il 38% degli user bio. Nel caso della Svezia, il nostro Paese si contende la leadership con la Danimarca: in tal caso la quota di user che indica l’Italia quando pensa ai prodotti bio di maggiore qualità è pari al 37%. A ulteriore conferma dell’ottima reputazione del bio italiano, per ben 6 consumatori scandinavi su 10 i prodotti alimentari bio Made in Italy hanno una qualità superiore rispetto ai prodotti di altri Paesi mentre per 7 consumatori 10 il bio italiano ha un percepito maggiore anche sul fronte delle garanzie di tracciabilità e di metodi produttivi rispettosi dell’ambiente. Grazie a questa ottima percezione, i prodotti bio italiani trovano larga diffusione in Scandinavia: il 65% delle famiglia ha acquistato un prodotto alimentare made in Italy a marchio biologico nel corso del 2022 e il 30% li ha acquistati almeno una volta a settimana.

Quali sono i prodotti più promettenti per il bio Made in Italy?
Olio extra vergine d’oliva, formaggi, conserve di pomodoro, salumi, formaggi e vino sono i prodotti italiani a marchio bio più acquistati dai consumatori scandinavi ma anche le categorie per i quali il consumatore è più interessato al binomio bio-made in Italy.

IL RUOLO DEL VINO BIO
Dal rapporto presentato da Nomisma risulta anche che il vino è uno dei prodotti bio più diffusi sul mercato scandinavo. Se ci si focalizza sul mercato svedese – sulla base dei dati del Systembolaget, il monopolio svedese che gestisce le vendite di bevande alcoliche (vino incluso) – ben un quarto delle vendite di vino è costituito proprio da vini a marchio bio per un valore di 600 milioni di euro nell’ultima rilevazione. In tale scenario, l’Italia è leader assoluto con un peso sul totale delle vendite di vino bio del 42% sia a valore che a volume nel 2021; un successo da ricondurre in primis all’ottimo posizionamento di alcuni territori quali Veneto (grazie al Prosecco che rappresenta la denominazione a marchio bio più venduta in Svezia), Sicilia e Puglia.

«Il vino italiano gode di un’ottima reputazione sul mercato scandinavo e l’Italia figura al primo posto tra i Paesi che producono i vini di maggiore qualità. Tale forte apprezzamento nei confronti del vino made in Italy trova riscontro anche con riferimento al biologico: ben il 38% degli wine user beve vino a marchio bio di origine italiana e il 20% lo fa con cadenza settimana. E le opportunità per le aziende vitivinicole italiane sono ancora ampie su tale importante mercato, al punto che quasi la metà dei consumatori sarebbe interessato a provare un nuovo vino italiano a marchio bio mentre in un terzo dei casi sarebbe disposto a spendere un differenziale di prezzo superiore al 5% rispetto ad un vino italiano non bio” afferma Emanuele Di Faustino, Responsabile Industria, Servizi e Retail Nomisma S.p.A.

IL POTENZIALE DEL MADE IN ITALY BIO
Nessun ostacolo per il binomio bio e made in Italy neanche per il futuro: il 30% dei consumatori si dice interessato all’acquisto di un prodotto alimentare italiano a marchio bio, quota che sale al 46% in merito al vino. Gli indecisi sarebbero attratti, oltre che da promozioni e prezzi bassi, anche da brand famosi, da informazioni sul basso impatto ambientale e dalla presenza di confezioni eco-sostenibili. Più della metà degli attuali non user vino, infatti, non ha ancora mai provato il bio italiano perché non lo trova in assortimento mentre in 1 caso su 5 non ne conosce ancora le caratteristiche distintive. Le stesse motivazioni del mancato acquisto riguardano anche i prodotti alimentari: il 26% di chi non consuma food bio made in Italy dichiara di non conoscerne le caratteristiche distintive e, in 1 caso su 10, non li trova nei punti vendita abituali.

“Negli ultimi 10 anni, le esportazioni di biologico made in Italy sono letteralmente esplose (+ 181%), facendo diventare l’Italia il principale esportatore di alimenti bio a livello internazionale dopo gli USA. I Paesi Scandinavi sono mercati dove la richiesta di prodotti biologici made in Italy è in crescita, prodotti che uniscono attenzione alla sostenibilità con la qualità elevata delle produzioni agroalimentari italiane e incorporano valori culturali, sociali e ambientali riconosciuti e apprezzati in tutto il mondo. La piattaforma Ita.Bio, nata dalla collaborazione fra l’Agenzia ICE e FederBio con il supporto del Ministero Affari Esteri e Cooperazione Internazionale, intende supportare le imprese anzitutto fornendo informazioni e conoscenza dei mercati indispensabili per potervi operare e mettendo a disposizione una piattaforma integrata di iniziative promozionali. Anche attraverso questa iniziativa FederBio conferma il proprio impegno per supportare lo sviluppo del settore biologico italiano e la sua internazionalizzazione” dichiara Paolo Carnemolla, Segretario Generale di FederBio.

“In Scandinavia l’attenzione ai prodotti biologici è molto elevata e le vendite di prodotti bio superano il valore di 2 milioni di euro sia in Svezia che in Danimarca. L’export italiano nel settore è in costante crescita negli ultimi anni ed ha superato i 3 miliardi di euro nel 2022; i nostri prodotti biologici godono di un’ottima reputazione sul mercato scandinavo e di quote di mercato rilevanti, sia nel settore agroalimentare che in quello del vino. Il Focus Nomisma Svezia/Danimarca rappresenta un’ottima occasione per illustrare trend e dinamiche del settore, al fine di approfondire la conoscenza dei due mercati ed evidenziarne le opportunità commerciali. L’ufficio ICE di Stoccolma può sostenere nel modo più efficace le imprese italiane nel cogliere al meglio tali opportunità e rafforzare la loro presenza sul mercato scandinavo, con la propria offerta di servizi personalizzati ed attività promozionali dedicate” dichiara infine Andrea Mattiello, direttore dell’ufficio ICE di Stoccolma.

Agroalimentare italiano, in aumento i prodotti riconosciuti dalla Ue

Prosegue la crescita delle eccellenze nel settore agroalimentare di qualità del cibo. Nel 2021 il settore si arricchisce di tre prodotti food: Olio di Roma di Indicazione geografica protetta (Igp) nel Lazio, la Pesca di Delia (sempre Igp) e il Pistacchio di Raffadali di Denominazione di origine protetta (Dop) le cui zone di produzione, in questi ultimi due casi, si estendono tra diversi comuni in Provincia di Caltanissetta e Agrigento in Sicilia.

Ma è nel 2020 che si è registrata un’impennata nelle certificazioni, quando nel mercato sono entrati 12 prodotti di cui: uno di Specialità tradizionale garantita, Stg (l’Amatriciana tradizionale), cinque prodotti Dop (Mozzarella di Gioia del Colle, Provola dei Nebrodi, Cappero delle Isole Eolie, Pecorino del Monte Poro e Colatura di Alici di Cetara) e sei Igp (Südtiroler Schüttelbrot/Schüttelbrot Alto Adige, Rucola della Piana del Sele, Limone dell’Etna, Pampepato di Terni/Panpepato di Terni, Olio lucano e Mele del Trentino).

Si conferma la predominanza del settore degli Ortofrutticoli e cereali che, di fatto, rimane quello con il maggior numero di riconoscimenti: nel 2021 si attestano a 118, di cui 38 Dop e 80 Igp. Segue il settore dei Formaggi con 56 prodotti e l’Olio extravergine di Oliva con 49 prodotti. A livello territoriale l’Emilia-Romagna è la regione con il maggior numero di riconoscimenti Dop e Igp, seguita dal Veneto, dalla Sicilia e dalla Lombardia.

In crescita gli operatori del food di qualità
Nel 2021 si registra rispetto al 2020 un aumento degli operatori soprattutto tra i produttori (+1,9%), i trasformatori restano invece pressoché stazionari (+0,2%). La crescita interessa soprattutto le regioni del Mezzogiorno (+2,8% per gli operatori e +2,9% per i produttori). Al Nord la variazione è di +1,6% sia per i produttori che per gli operatori, che al Centro hanno invece una situazione più stazionaria (entrambi +0,8%).

Più variegato è lo scenario dei trasformatori che comunque raggiungono l’incremento maggiore sempre nel Mezzogiorno (+2%), all’opposto nel Nord la variazione è negativa (-2%). Ad incidere positivamente sui risultati del Mezzogiorno troviamo il settore delle Carni fresche, dei Formaggi e dell’Olio extravergine di Oliva. A livello regionale, nelle aree meridionali del Paese si colloca il 40,5% dei produttori, di cui la quota più alta (19%) nella sola Sardegna, seguita dalla Sicilia (7,4%). Nel Nord opera il 37,7% dei produttori presenti in Italia (il 14,3% nel solo Trentino-Alto Adige), mentre nel Centro (21,8%) è particolarmente attiva la Toscana (14,3%).

Il forte legame tra il territorio di origine e i prodotti agroalimentari di qualità certificati dall’Unione europea si traduce nella tipicità e specializzazione del territorio stesso oltre che nella sua valorizzazione in determinati settori. È così che in Sardegna è presente soprattutto una tradizione lattiero casearia, con il 66,7% dei produttori che operano in questo settore e gestiscono il 67,2% degli allevamenti certificati della regione. Analogo discorso vale per la Valle D’Aosta-Vallée d’Aoste, dove tutti i produttori sono attivi nel settore dei Formaggi, che vede in Lombardia una quota del 66% e in Emilia Romagna del 52,5%.

La Toscana ha una spiccata vocazione nell’attività olivicola-olearia: l’86,2% dei produttori e il 96,5% della superficie investita coinvolta. La specializzazione olivicola-olearia è forte anche in Liguria e in Puglia (la quota di produttori del settore è, rispettivamente, del 94,3% e dell’87,4%), così come in Sicilia (59,8%), anche se in quest’ultima regione è rilevante anche la produzione ortofrutticola (38,8%). In Trentino Alto-Adige quasi il 90% dei produttori lavora nel settore ortofrutticolo al quale è dedicata quasi tutta la superficie certificata nella regione. Nel 2021 il 41,2% dei trasformatori si ripartisce tra l’Emilia-Romagna (18%), la Toscana (13,8%) e la Campania (9,4%). In Emilia-Romagna il 19,7% dei trasformatori è attivo nella Preparazione di carni, il 33,4% nel settore lattiero-caseario, mentre il 33,7% opera nel comparto degli ‘Altri settori’. In Toscana si conferma la forte specializzazione nel settore olivicolo-oleario anche per l’attività di trasformazione (molitore e/o imbottigliatore) svolta dal 62,7% delle imprese della regione. In Campania il 46,5% dei trasformatori opera nel settore delle Carni fresche.

Carni fresche: un settore in crescita
Con 10.177 operatori presenti il settore delle Carni fresche segna nel 2021, rispetto al 2020, una crescita (+2,3%) che interessa sia i produttori (+2,1%) che i trasformatori (+2,6%). Tra la Sardegna e il Lazio si concentra il 61,3% degli operatori. Questo valore aumenta se si considerano i soli produttori che, in queste regioni, rappresentano il 67,1% del totale nazionale del settore e conducono il 66,8% degli allevamenti. Più varia è la situazione per i trasformatori articolati diffusamente sul territorio, in particolare tra la Campania (29,4%), la Toscana (16,6%) e le Marche (11,4%). Nel complesso, i trasformatori si attestano a 1.130 unità e gestiscono 2.311 impianti (con un rapporto medio di circa due impianti per impresa). In ordine per numero di produttori al primo posto troviamo l’Agnello di Sardegna, seguito dal Vitellone Bianco dell’Appennino Centrale.

In calo la Preparazione di carni
La Preparazione di carni opera in una logica di filiera ramificata in cui lo stesso operatore può partecipare alla realizzazione di uno o più prodotti. Le aziende di questo comparto segnano una flessione rispetto al dato del 2020 (-4,5% per gli operatori) che, in misura variabile, interessa quasi tutti i prodotti di qualità del settore. Questa flessione diventa ancora più evidente se si guarda ai produttori (-6,6%). I prodotti a base di carne contano, nel 2021, 3.010 produttori con 3.620 allevamenti localizzati prevalentemente in Lombardia (40,9% dei produttori e 41,8% degli allevamenti), in Piemonte (23,6% e 22,7%) e in Emilia-Romagna (14,6% e 15,7%). Oltre il 40% delle imprese di trasformazione e degli impianti si concentra in Emilia-Romagna.

In lieve flessione il settore dei Formaggi
Come per la Preparazioni di carni, anche il settore dei Formaggi si sviluppa lungo un’articolata e densa rete di rapporti tra gli allevatori e i trasformatori in quanto il latte di un medesimo allevamento può essere destinato alla preparazione di formaggi diversi. Nel 2021 il settore può contare su 24.637 operatori, 23.644 produttori e 1.436 trasformatori. I primi prodotti di qualità per numero di operatori sono: Pecorino Romano, Pecorino Sardo e il Grana Padano. Rispetto al 2020 il settore segna una flessione dello 0,7% (sia per i produttori che, più in generale, per gli operatori) in tutte le ripartizioni geografiche considerate, con la sola eccezione delle Isole. Ed è proprio nelle Isole che si localizza il maggior numero di produttori (43,6% nella sola Sardegna) e di allevamenti. Seguono la Lombardia (con il 13,5% dei produttori) e l’Emilia-Romagna (11%). In quest’ultima regione, inoltre, è presente il maggior numero di trasformatori del settore (31,5% del totale nazionale) pari, in valore assoluto, a 453 imprese che, in media, gestiscono ognuna 1,5 impianti.

Forte dinamismo dei produttori nell’Ortofrutticolo e dei cereali
Caratterizzato dal maggior numero di riconoscimenti Dop e Igp, tra il 2020 e il 2021 il settore degli Ortofrutticoli e dei cereali segna un’importante crescita: gli operatori, infatti, registrano un incremento del 5,6% grazie al forte dinamismo dei produttori (+5,9%), mentre la superficie investita aumenta dell’8,2%. La dimensione media delle aziende agricole è di circa 4,6 ettari per unità produttiva. In calo, invece, i trasformatori (-2,1%), che subiscono una flessione più accentuata nelle aree del Nord-est (-4,9%) e del Sud (-4,4%). Oltre la metà dei produttori del settore si colloca nel Trentino-Alto Adige (51,4%), a seguire l’11,5% della Sicilia. Tra i prodotti più tipici del Trentino-Alto Adige si ricordano la Mela dell’Alto Adige o Südtiroler Apfel, le Mele del Trentino, la Mela della Val di Non, oltre che la Susina di Dro.

Oli extravergine di oliva: in aumento i soggetti della filiera
Nel confronto con l’anno precedente, il settore olivicolo oleario segna una crescita del 2,9% sia in termini di produttori che, più in generale, di operatori. I trasformatori (nel ruolo di molitori e/o imbottigliatori) aumentano del 3,4%, mentre gli impianti segnano una crescita del 5,3%: in media ciascun trasformatore gestisce 1,5 impianti. Considerata la lunga tradizione geografica di alcuni territori specializzati nella coltivazione dell’olivo e nella produzione olearia, la Toscana si conferma, anche nel 2021, la regione con il maggior numero di operatori presenti nel settore (42%), seguita dalla Puglia (16,3%) e dalla Sicilia (15,6%). La quota femminile interessa il 33% dei produttori e il 20,1% dei trasformatori.

In flessione i produttori del comparto ‘Altri settori’
Questo comparto è costituito dall’aggregazione di più settori: Altri prodotti di origine animale, Aceti diversi dagli aceti di vino, Prodotti di panetteria, Spezie, Oli essenziali, Prodotti ittici, Sale e Paste alimentari e vede la presenza di una pluralità di prodotti di nicchia, che coinvolgono 2.564 operatori tra coltivatori, allevatori e pescatori, oltre che trasformatori. Questi ultimi sono 926, con 1.331 impianti. Rispetto al 2020, si assiste ad una flessione del 3,2% dei produttori, mentre tengono i trasformatori (+0,5%). Oltre il 45% dei produttori si localizza in Campania, segue il 27,4% del Lazio. Le aziende di trasformazione si concentrano, invece, tra l’Emilia-Romagna (49,4%) e l’Abruzzo (10,8%).

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