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È stabilito: la pizza napoletana è patrimonio Unesco, 5 milioni al giorno sfornate in Italia

Pizzaiuoli napoletani in azione in piazza del Plebiscito a Napoli in occasione del riconoscimento dell’arte dei pizzaiuoli napoletani patrimonio dell’umanità Unesco, foto Coldiretti.

Già si festeggia a Napoli a poche ore dall’annuncio, che era nell’aria da giorni: la pizza napoletana, o meglio l’“Arte dei Pizzaiuoli napoletani”, è diventata patrimonio culturale immateriale dell’umanità dell’Unesco. Del resto, per sostenere la candidatura dell’iscrizione, approvata dall’apposito comitato intergovernativo riunito nell’Isola di Jeju in Corea del Sud, era stata organizzata (da Coldiretti insieme all’Associazione Pizzaiuoli Napoletani e alla fondazione UniVerde) la più grande raccolta di firme a sostegno di una candidatura mai realizzata prima, che ha raggiunto i 2 milioni.

La pizza genera un business di 12 miliardi di euro in Italia dove sono almeno 100mila i lavoratori fissi nel settore della pizza, ai quali se ne aggiungono altri 50mila nel fine settimana, secondo i dati dell’Accademia Pizzaioli.  Ogni giorno solo in Italia si sfornano circa 5 milioni di pizze nelle circa 63mila pizzerie e locali per l’asporto, taglio e trasporto a domicilio, dove si lavorano in termini di ingredienti durante tutto l’anno 200 milioni di chili di farina, 225 milioni di chili di mozzarella, 30 milioni di chili di olio di oliva e 260 milioni di chili di salsa di pomodoro. I maggiori consumatori mondiali sono gli americani con 13 chili a testa l’anno, mentre gli italiani guidano la classifica in Europa con 7,6 chili, e staccano spagnoli (4,3), francesi e tedeschi (4,2), britannici (4), belgi (3,8), portoghesi (3,6) e austriaci che, con 3,3 chili di pizza pro capite annui.

Coldiretti intanto festeggia, e nella città partenopea fin dalle prime ore del giorno sono stati allestiti tavoli in strada con i primi “pizzaiuoli targati Unesco” al lavoro, esibizioni acrobatiche comprese e il ritorno della tradizione della “pizza sospesa”, offerta a coloro che non possono permettersi di pagarla nella storica via Chiaia, il centro dei festeggiamenti nel cuore di Napoli vicino all’Antica Pizzeria Brandi, che ha dato i natali, secondo la tradizione, alla pizza delle pizze, la  margherita.

 

2018 “anno internazionale del cibo italiano nel mondo”

Sembra una sorta di anteprima, un ottimo interludio al 2018 che è stato proclamato “anno internazionale del cibo italiano nel mondo”. 

«L’Italia è il Paese dove più radicata è la cultura alimentare e l’arte della pizza rappresenta un simbolo dell’identità nazionale con circa 5 milioni di pizze sfornate al giorno – dice il presidente della Coldiretti Roberto Moncalvo -. La tutela dell’Unesco è stata riconosciuta per il know-how culinario legato alla produzione della pizza, che comprende gesti, canzoni, espressioni visuali, gergo locale, capacità di maneggiare l’impasto della pizza, esibirsi e condividere ed è un indiscutibile patrimonio culturale. I pizzaiuoli e i loro ospiti si impegnano in un rito sociale, il cui bancone e il forno fungono da “palcoscenico” durante il processo di produzione della pizza. Ciò si verifica in un’atmosfera conviviale che comporta scambi costanti con gli ospiti».

E a decretarne il successo in tutto il mondo è stato proprio questo mix unico di convivialità, nutrimento a basso prezzo ma senza derogare alla qualità, ingredienti e maestria made in Italy. Con al centro la figura del “pizzaiuolo”, “un mestiere globalizzante, perché siamo stati generosi, abbiamo insegnato a tutti l’arte di fare la pizza, perché siamo stati capaci di sfamare il mondo. Abbiamo contaminato il mondo” ha commentato all’Ansa il pizzaiolo-star Gino Sorbillo, fresco di inaugurazione del secondo locale a New York.

Sapori d’Italia, la Coop svizzera lancia un nuovo format per i prodotti made in Italy

Un angolo d’Italia in un supermercato svizzero: vuole essere questo Sapori d’Italia, i nuovo format di 200 metri quadri lanciato dalla Coop elvetica nella stazione di Aarau, dove la focaccia viene sfornata sul posto, i cornetti al cioccolato e l’espresso preparato con la macchina originale Cimbali 

La cucina italiana è una delle più apprezzate in Svizzera. Da qui la decisione di pensare a un punto vendita interamente dedicato alle specialità di casa nostra.

«Abbiamo voluto creare un negozio di autentiche specialità italiane. Per farlo ci siamo confrontati con i nostri fornitori, produttori e partner commerciali in Italia. Con Sapori d’Italia siamo ora in grado di offrire ai nostri clienti un assortimento delle più apprezzate specialità del Bel paese e altri prodotti di uso quotidiano» spiega il presidente della Direzione generale di Coop Joos Sutter.

Tra le proposte peperoncini ripieni di formaggio fresco perfetti come antipasto, pasta in tutte le sue declinazioni, focacce appena sfornate e, per concludere, specialità stagionali come il panettone. Ma anche chinotto, focaccia, mortadella, a richiamare le vacanze trascorse sulla costiera amalfitana, all’isola d’Elba o sul lago di Garda.

Nell’ortofrutta ci sono prodotti tipici italiani, come i fichi d’India dalla Sicilia, ma anche frutta e verdura a chilometro zero svizzera.

 

Dalla focaccia al caffè
L’impasto per focaccia realizzato esclusivamente per Sapori d’Italia acquisisce un particolare aroma grazie alle 24 ore di lievitazione. Le focacce vengono quindi cotte in negozio e arricchite con rucola, prosciutto di Parma appena tagliato o mozzarella. Non mancano gli antipasti, le insalate e i prodotti di pasticceria quali cannoli, amaretti, cantuccini e brutti e buoni. Sapori d’Italia offre inoltre un’ampia scelta di vini italiani e bibite tipiche come la gazzosa, nonché pasta, risotti, sughi e olio d’oliva.

Occhi puntati anche su un’altra eccellenza made in Italy che ha fatto il giro del mondo: il caffè. Per garantire il massimo del gusto, i grani di caffè vengono torrefatti direttamente in negozio. Solo se i grani vengono tostati appena prima della macinatura, infatti, possono sprigionare al meglio i loro circa 800 aromi diversi. Grazie all’abilità del barista e alla macchina originale Cimbali, i grani si trasformano quindi in un meraviglioso ristretto, espresso, cappuccino o latte macchiato. Il negozio dispone di circa 20 posti a sedere dove i clienti possono gustare il caffè e le altre specialità direttamente in loco.

Nuova ricetta e restyling per la pasta La Molisana, nel nome della qualità

Punta su clean label e trasparenza in etichetta il rebranding effettuato da pasta La Molisana, che si presenta sugli scaffali con una nuova ricetta e un nuovo pack. Non è un semplice restyling estetico, ma un rebranding con un nuovo logo che riassume la forte identità di un marchio storico dell’alimentare Made in Italy, nato nel 1912. E che ha caratteristiche fatte per convincere il, consumatore d’oggi: dalla filiera integrata, dal chicco di grano alla tavola, perché le semole arrivano al pastificio dall’adiacente Molino di proprietà dell’azienda, anch’esso con una tradizione ultracentenaria al territorio, quello di Campobasso, con caratteristiche e risorse uniche. La pasta La Molisana, fatta di sola semola (70%) e acqua (30%), nasce a 730 metri di altitudine. L’aria fresca conserva integro il grano, assicurando una pasta essiccata in purezza.

Ma il nuovo pack custodisce infatti anche una nuova ricetta, che alza ulteriormente l’asticella della qualità. Si parte dalla selezione dei grani, che grazie alla competenza della famiglia Ferro, mugnai da quattro generazioni, porta il valore proteico da 14% a 14,5%, incrementando uno dei principali parametri con cui si misura la qualità della pasta e la sua tenacia in cottura (superiore alla media del mercato, pari al 12%). Al migliore grano duro dal profumo intenso, dal colore giallo tenue e dall’alto contenuto proteico, si aggiunge un’acqua certificata da un bollino di qualità. L’Acqua del Parco del Matese, utilizzata per impastare le semole, è infatti riconosciuta per le sue caratteristiche oligominerali e la sua leggerezza; è povera di sodio e nitrati, dunque indicata anche per l’alimentazione dei bambini.

 

Pack “parlante”

È su queste straordinarie materie prime che si innesta il sapiente lavoro dei mastri mugnai e pastai de La Molisana, evidenziato sul pack (anch’esso innovativo per la sua categoria, dall’effetto tattile “vellutato”) che comunica le modalità di lavorazione. Come la decorticazione a pietra, una moderna tecnologia che utilizza un metodo antico, che permette di purificare ogni singolo chicco di grano con precisione e delicatezza, rispettandone le qualità originali. La trafilatura al bronzo, poi, garantisce una pasta ruvida e cattura-sughi.

Pomodoro Made in Italy resta a casa, in cooperativa: Pomì compra De Rica

Soddisfazione da più parti è stata espressa per l’acquisto dello storico marchio De Rica da parte del Consorzio Casalasco del Pomodoro, più noto al pubblico come detentore del marchio Pomì e leader in Italia nella coltivazione, produzione e trasformazione del pomodoro. A cedere il noto brand è Generale Conserve S.p.A., società genovese col core business nel tonno in scatola a marchio AsdoMar. L’operazione, sottolineano le parti, “riporta il rinomato brand nella sua zona originaria di produzione e decreta il passaggio di un altro importante marchio italiano direttamente in mano al mondo agricolo cooperativo, espressione di una filiera tutta italiana con un forte legame col proprio territorio d’origine”. Consorzio Casalasco del Pomodoro Soc.Agr.Coop conta 370 aziende agricole associate che coltivano 7.000 ettari di terreno dislocati nella pianura Padana tra le province di Cremona (dove ha sede a Rivarolo del Re), Parma, Piacenza e Mantova.Una terra che, nell’area padana, oggi permette alle 550.000 tonnellate di pomodoro fresco raccolto di essere trasformato nei 3 stabilimenti di proprietà della cooperativa Consorzio Casalasco in prodotti esportati in 60 Paesi nel mondo. Non viene precisato dalle parti il prezzo della compravendita avvenuta nei giorni scorsi.

Esprime soddisfazione Coldiretti che ricorda come oggi ben 3 marchi storici su 4 che siano in mani straniere, con la perdita di autonomia e di competitività sui mercati internazionali in uno dei settori strategici del Made in Italy. «Con questa operazione si realizza una svolta nella costruzione di una filiera agricola tutta italiana che vede direttamente protagonisti gli agricoltori per garantire quel legame con il territorio che ha consentito ai grandi marchi di raggiungere traguardi prestigiosi – ha commentato il presidente della Coldiretti Roberto Moncalvo -. La svendita di marchi italiani all’estero ha spesso significato nell’agroalimentare lo svuotamento finanziario delle società acquisite, la delocalizzazione della produzione per chiusura di stabilimenti e gli acquisti delle materie prime all’estero con perdita di occupazione».

Una “riscossa della vera cooperazione espressione di una filiera tutta italiana con un forte legame col proprio territorio d’origine” rappresenta l’acquisizione secondo Ue.Coop l’Unione Europea delle Cooperative a cui Consorzio Casalasco del Pomodoro è asscociata. Una operazione – sottolinea Ue.Coop – che porta valore all’economia e al lavoro puntando sulla centralità dei soci e del territorio in cui operano, in una situazione in cui molti anche nella cooperazione sono tentati da scorciatoie speculative con il falso Made in Italy. Il marchio De Rica insieme a Pomì diventa – conclude Ue.coop – un patrimonio della vera cooperazione per valorizzare il pomodoro italiano, rafforzando la filiera agricola nazionale e garantendo al consumatore di poter utilizzare un prodotto sano che viene coltivato e prodotto interamente nel nostro Paese.

 

Dopo il latte, il riso: Carrefour prima insegna ad aderire a “riso 100% italiano”

Carrefour Italia rende noto di aver aderito per prima al progetto “100% Riso Italiano”: più che un invito, un obbligo quello di inserire in etichetta l’indicazione di origine del riso prescritto da due decreti interministeriali firmati dai Ministri Martina (Politiche agricole alimentari e forestali) e Calenda (Sviluppo economico). L’insegna francese è la prima dunque ad aderire all’invito formalmente avanzato a tutta la Gdo italiana dall’Assessore all’Agricoltura della Regione Piemonte, Giorgio Ferrero. L’obiettivo dichiarato del progetto “100% Riso Italiano” è quello di valorizzare e rendere visibile al consumatore finale la provenienza italiana del riso, attraverso un continuo confronto con la filiera e i produttori e un’articolata campagna di comunicazione.

«Nel DNA di Carrefour Italia c’è la consapevolezza del ruolo che la grande distribuzione ricopre da un lato per sostenere la produzione di qualità territoriale, e dall’altro di intercettare le richieste dei consumatori verso un mercato più trasparente e informato – commenta Grégoire Kaufman, Direttore commerciale e marketing di Carrefour Italia –. Abbiamo accolto, quindi, con entusiasmo l’invito dell’Assessore Ferrero, con il quale abbiamo già in corso una proficua collaborazione nata ormai più di un anno fa con il progetto Piemunto, così da rendere disponibile nei nostri oltre 1000 punti vendita, sul territorio nazionale, prodotti di origine locale e provenienti da filiera controllata. Crediamo infine, sposando questo progetto, di sostenere un settore quale quello risicolo, che nell’ultimo anno ha subito un calo del mercato e su cui riponiamo forti speranze di ripresa»

Il momento infatti è delicato per l’industria risicola italiana, che pur confermando la propria leadership qualitativa e quantitativa in Europa, ha fatto registrare nel 2016 una flessione del 7% in totale. Il provvedimento governativo e l’iniziativa dell’insegna francese rispondono inoltre a una esigenza sempre più sentita da parte dei consumatori: secondo dati interni di Carrefour Italia, l’85% degli italiani, inclusi i più giovani e i millenials, mostra una sempre maggiore attenzione a tematiche quali la sicurezza alimentare, l’etichettatura e la tracciabilità.

«L’iniziativa, unita alla modernizzazione dei rapporti contrattuali e al rilancio della promozione del nostro riso, come ho recentemente chiesto all’intero comparto della Gdo, può segnare una svolta innovativa per il settore risicolo e il rilancio delle nostre produzioni a livello nazionale e internazionale. Su questo non mancherà il forte impegno della Regione Piemonte, anche a sostegno della nostra unica DOP, il riso di Baraggia, una denominazione che oggi è troppo poco utilizzata dai produttori, sulla quale occorre fare un grande investimento in termini culturali e di promozione a ogni livello, che coinvolga anche il territorio da cui proviene» ha detto l’assessore all’Agricoltura della Regione Piemonte, Giorgio Ferrero.

 

Pomodoro Napoli o storione: tra tradizione e innovazione il Made in Italy nel food vince

Le strade del made in Italy sono infinite: mentre un prodotto quasi proverbiale dell’Italia a tavola, il Pomodoro Pelato di Napoli, ha avviato le pratiche per ottenere il riconoscimento dell’Igp, un prodotto inaspettato, lo storione bianco, sta diventando una vera eccellenza nostrana. Due storie apparentemente molto lontane ma che raccontano bene la ricchezza del nostro paniere e la nostra capacità di muoverci tra tradizione e innovazione.

La tradizione è quella del Pomodoro Pelato di Napoli, un prodotto che per caratteristiche, genuinità ed eccellenza esprime magnificamente il legame con il suo territorio. Ma il cui trend sul mercato è in costante flessione. Per questo il Comitato promotore per il marchio di tutela del Pomodoro Pelato ha presentato al Mipaaf e alle regioni Abruzzo, Basilicata, Campania, Molise e Puglia la domanda per il riconoscimento dell’Igp, convinto che sia la strada giusta per il rilancio del prodotto. «Non è più possibile rimandare, altrimenti le nostre aziende e il comparto saranno destinati ad un lento declino» dice Lino Cutolo, presidente del comitato promotore. «L’Igp può essere uno strumento utile – dice Giovanni De Angelis, direttore generale dell’Anicav, l’Associazione nazionale degli industriali conservieri – a fronteggiare le difficili scommesse del mercato globale e valorizzare un prodotto, caratteristico delle aziende del Mezzogiorno, che rappresenta una delle eccellenze della tradizione agroalimentare italiana nel mondo».

La tipicità del pomodoro pelato è data dal fatto che si tratta di un pomodoro inscatolato intero che testimonia, fisicamente e visivamente, la consistenza e le caratteristiche del prodotto anche una volta conservato in scatola ed è legata, in particolare, alla tecnica di produzione utilizzata. Il pomodoro pelato intero, ottenuto dalla lavorazione di varietà allungate, viene trasformato seguendo il tradizionale processo produttivo che, negli anni – nonostante l’avanzata dei più complessi e funzionali strumenti tecnologici in grado di innalzare i livelli di sicurezza del prodotto – non è sostanzialmente cambiato. «La tutela del pomodoro pelato – conclude Cutolo – consentirà anche di contrastare, sui mercati internazionali, il fenomeno dell’italian sounding che danneggia i nostri produttori e ci sottrae risorse economiche. Stiamo continuando, infatti, a cedere quote di mercato ad altri Paesi che propongono pomodori pelati che ricordano ‘l’immagine italiana’, ma nei quali, molto spesso, non solo il luogo di produzione, ma nemmeno il pomodoro, sono italiani».

 

Storione, nuova eccellenza italiana

Per un’eccellenza tradizionale che soffre ecco il boom delle vendite dello storione bianco italiano, un prodotto che nel nostro immaginario si ricollega a ben altre latitudini. Nel primo semestre del 2017 nella sola Italia, secondo i dati di Agroittica Lombarda, sono stati venduti 81.636 kg di storione bianco, con una proiezione decisamente in crescita rispetto al dato dell’intero 2016 (143.243 kg). Nel resto dell’Europa invece il dato è stabile. Tornando all’Italia lo storione bianco è venduto soprattutto al Centro-Nord (72% contro il 28% del Centro-Sud) e veicolato nei negozi (59%) più che nel canale horeca (41%).

Un successo dovuto alla pregevolezza della carne, troppo spesso messa in ombra dalla fama delle sue uova, il caviale. La carne però merita di essere tenuta in altrettanta considerazione per i valori nutrizionali, per la sua consistenza, l’inconfondibile colorazione chiara, la delicatezza del suo sapore che ne fanno un alimento sano, per tutte le età e i gusti. ‘«La filiera produttiva – assicura il biologo Mario Pazzaglia, responsabile Ricerca e Sviluppo di Agroittica Lombarda, azienda italiana leader del settore, che vanta il più grande allevamento di storioni d’Europa – è totalmente controllata. Lo storione bianco nasce nei nostri allevamenti di Calvisano, dove l’acqua sgorga dal sottosuolo direttamente nell’area dedicata all’acquicoltura. Abbiamo creato un ambiente il più possibile simile a quello naturale degli storioni. Oltre ad alimenti specifici, i nostri storioni si nutrono di crostacei e molluschi che vivono e crescono nel medesimo ambiente: questo permette di migliorare sia la sostenibilità produttiva che la qualità delle carni».

«Le sue carni – precisa la nutrizionista Stefania Gugi – sono pregiate per l’alto contenuto proteico e la ricchezza di Omega 3: 100 grammi di storione contengono circa il 20% di proteine, 1,78% di grassi saturi, 3,16% di grassi monoinsaturi, 1,54% di grassi polinsaturi. Il potere proteico è sostenuto dalla presenza di aminoacidi. E poi è ricco di minerali e vitamine. E ha poche calorie: da 100 a 130 per 100 grammi». Altri pregi dello storione bianco sono che non ha lische e non ha scarti e può essere consumato crudo senza abbattimento della temperatura a causa della filiera totalmente controllata.

Italia solo terza nella produzione di olio Evo, servono 150 milioni di nuovi ulivi

L’Italia dell’olio scende per la prima volta dal podio mondiale in termini di produzione. O meglio quasi. Il nostro Paese infatti è ormai doppiato dalla Spagna, distanziato dalla Grecia e sarebbe superato anche dalla Siria se questo Paese non fosse penalizzato gravemente dalla drammatica guerra che lo insanguina.

«In base ai dati provvisori – spiega il presidente del Cno (Consorzio nazionale olivicoltori) Gennaro Sicolo – della corrente campagna di commercializzazione dell’olio di oliva, iniziata nel mese di ottobre 2016 e che terminerà in settembre 2017, la Grecia ha prodotto 195mila tonnellate contro le 183mila dell’Italia. I dati sono quelli ufficiali pubblicati dalla Commissione europea e si basano sulle dichiarazioni periodiche trasmesse da ogni singolo Stato membro. A questi numeri andrebbero aggiunti i dati della Siria che non sono disponibili ma supererebbero di molto le 200mila tonnellate. Infatti, il Paese mediorientale ha massicciamente investito nell’olivicoltura professionale, a partire dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso e poco prima che scoppiasse il conflitto. Ma ci sono altri concorrenti agguerriti che minacciano i primati del made in Italy. Per esempio, nelle ultime sei annate, la Tunisia che investe molto nello sviluppo della filiera olivicola, per ben tre volte ha prodotto più olio di oliva rispetto al volume ottenuto dall’Italia nella corrente campagna 2016-2017».

 

Negli ultimi sei anni -31% della produzione

Un vero smacco per una voce che da sempre è trainante per il made in Italy agroalimentare. Per anni infatti l’Italia è stata leader incontrastato nel settore olivicolo-oleario mondiale. Poi un tracollo, misurabile con un -31% di produzione negli ultimi sei anni, mentre nello stesso periodo i Paesi concorrenti mettevano in atto performance di tutt’altro segno: +44% il Marocco, +27% la Turchia, +16% la Spagna, +8% la Tunisia. Solo la Grecia è scesa ma in modo meno drastico di noi: -22%.

«La produzione cresce – si duole Sicolo – laddove è in atto una mirata politica di investimenti e prevale un orientamento favorevole verso la tecnologia, l’innovazione e l’impresa. Da noi in Italia, invece, il potenziale produttivo olivicolo indietreggia. Alla base dei cattivi risultati della olivicoltura nazionale degli ultimi anni ci sono tre principali ragioni: il processo di abbandono della coltivazione, la frammentazione della struttura produttiva ed il mancato ammodernamento del settore».

E anche la politica avrebbe le sue colpe. «Perché si è ostinata – punta il dito Dino Scanavino, presidente nazionale della Cia (Confederazione agricoltori italiani) – a non voler riconoscere e affrontare i problemi con interventi incisivi, tempestivi e coerenti con le esigenze del settore».

 

Servono 150 milioni di nuovi ulivi

Ma non tutto è ancora perduto. Si può invertire la rotta e riportare l’Italia al posto che le compete “attuando il prima possibile – propone Sicolo – un piano nazionale, articolato a livello regionale e di distretti produttivi, per la riconversione, la ristrutturazione e l’ammodernamento della olivicoltura italiana, anche tramite un processo di razionalizzazione fondiaria. Il settore olivicolo oleario italiano per tornare leader mondiale avrà bisogno di più di 150 milioni di nuovi ulivi in produzione e almeno 25 mila nuovi addetti che riequilibrino il ricambio generazionale nei campi, ora fermo sotto il 3%. Per l’olivicoltura sarebbe un passo straordinario essere riconosciuta alla stregua della vitivinicoltura nazionale, che ottiene il triplo delle risorse europee per gli investimenti e la promozione del comparto, per poter programmare con più dinamicità tutti gli interventi utili allo sviluppo e al rilancio del settore”.

Nel frattempo all’Italia resta indiscutibile soltanto il primato della qualità, ma è una magra consolazione.

L’Italia dice no alle etichette a semaforo: nasce L’alleanza europea “contro”

L’Italia non si ferma al semaforo. E guida l’Europa in una battaglia contro il sistema di etichette a semaforo, che applica un colore diverso a seconda della presunta salubrità dell’alimento: verde, giallo e rosso. Un sistema efficace ma rozzo, pensato per tutelare il consumatore ma che finisce invece per condizionarne le scelte in modo talora superficiale. Per questo Coldiretti, Federalimentare e un primo gruppo di deputati europei coordinati da Paolo De Castro, primo vicepresidente della Commissione agricoltura del PE, hanno creato l’Alleanza europea contro i sistemi di etichettatura a semaforo per contrastare un sistema di informazione considerato fuorviante, discriminatorio e incompleto che è stato già lanciato in Francia e in Gran Bretagna e ora rischia di diffondersi in tutta Europa, pregiudicando una informazione corretta ai consumatori e il funzionamento del mercato comune.

Le iniziative nazionali sui “semafori” sono secondo gli ideatori dell’Alleanza un campanello di allarme che non si può trascurare. Non si può soprattutto in Italia, che rischia di essere penalizzata visto che Il sistema di etichettatura finisce per suggerire paradossalmente l’esclusione dalla dieta alimenti sani e naturali che da secoli sono presenti sulle tavole per favorire prodotti artificiali di cui in alcuni casi non è nota neanche la ricetta, come l’olio extravergine d’oliva. Il Parmigiano-Reggiano, il Grana Padano e il prosciutto di Parma.

Non solo: l’idea che per lo stesso prodotto in differenti Paesi europei il semaforo possa assumere colorazioni diverse appare senza dubbio contrario a un “mercato unico”. Sistemi di segnalazione al consumatore diversi su base nazionale, in assenza di un quadro comune di riferimento, possono far sospettare comportamenti opportunistici dei singoli Stati membri, i cui specifici interessi economici potrebbe influenzare l’architettura dei sistemi di classificazione delle qualità nutritive e salutistiche dei prodotti agro-alimentari.

L’Alleanza europea contro i sistemi di etichettatura a semaforo chiede all’Europa di intervenire attivamente, definendo un quadro normativo adatto a garantire maggiore trasparenza e univocità sul territorio europeo e promuovendo le soluzioni più adeguate per soddisfare il bisogno di un’informazione sempre più dettagliata e leggibile da parte del consumatore. L’Alleanza si propone di aprire spazi di dibattito e riflessione sul tema, per offrire il proprio contributo per l’aggiornamento e il rafforzamento della legislazione relativa alle informazioni in etichetta per i prodotti alimentari sulla base della trasparenza e del reale interesse dei consumatori. I promotori credono che un’Europa più forte e credibile passi anche per una maggiore attenzione al consumatore e alle imprese che contribuiscono allo sviluppo del nostro Paese con la stessa trasparenza che vorrebbero fosse garantita ai nostri consumatori.

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Made in Italy sotto attacco, i dazi di Trump mettono a rischio 3,8 mld di export USA

L’ascesa sembrava inarrestabile per i prodotti agroalimentari italiani che hanno vissuto un 2016 eccezionale (vedi Meraviglioso Made in Italy, nel 2016 export alimentare a 38 mld e siamo primi nel vino), e invece no: la politica proibizionistica del neopresidente degli Stati Uniti Donald Trump ci ha messo lo zampino. Ed ora non è solo la Vespa, icona dell’Italian way of life, ma piuttosto sono 3,8 miliardi di esportazioni di made in Italy agroalimentari, che nel 2016 hanno segnato un +6%. È quanto emerge da uno studio della Coldiretti in occasione della diffusione delle indiscrezioni sulla lista di prodotti italiani ed europei sui quali l’amministrazione statunitense sta valutando di imporre dazi punitivi del 100%, E le esportazioni verso gli USA pesano parecchio: il 10% del totale dell ‘agroalimentari italiane nel mondo (38,4 miliardi) con il terzo posto tra i principali italian food buyer dopo Germania e Francia, ma prima della Gran Bretagna. Il vino risulta essere il prodotto più gettonato dagli statunitensi con 1,35 miliardi (+5% nel 2016), davanti a olio (499 milioni +10% nel 2016), formaggi (289 milioni, +2% nel 2016) e pasta (271 milioni, +4% nel 2016) secondo le analisi della Coldiretti: che ora rischieranno un crollo nelle vendite.

 

La lotta si gioca sulla sicurezza alimentare

Secondo Coldiretti un tale success sarebbe frutto anche dei primati qualitativi e di sicurezza alimentare dell’Italia, l’unico Paese al mondo con 4.965 prodotti alimentari tradizionali censiti, 289 specialità Dop/Igp riconosciute a livello comunitario e 415 vini Doc/Docg, e il divieto verso le coltivazioni Ogm e la carne agli ormoni.

Sullo sfondo, la presunzione statunitense di imporre ai cittadini europei la carne trattata con ormoni, che peraltro trova contrari il 98% degli italiani i quali non vogliono correre il rischio di consumarla secondo una indagine Coldiretti/IprMarketing.

Il divieto europeo di far entrare sul proprio mercato carne trattata con ormoni risale agli anni 80 ma nel 1996 gli Stati Uniti e il Canada hanno presentato il ricorso al Wto con il quale è iniziata una lunga battaglia con alti e bassi che sta portando ora gli Usa a definire una lista di prodotti da colpire. L’obiettivo  è individuare particolari prodotti e Stati membri dell’UE da assoggettare all’imposizione di dazi supplementari fino al 100% del loro valore come era già avvenuto in passato, dal 1999 al 2011, quando a farne le spese erano state conserve di pomodoro, carne suina, il formaggio francese Roquefort, acqua minerale, cioccolato e succhi di frutta.

 

 

Un diluvio di Italian sounding, formaggi e vini in primis

Il rischio di chiusura delle frontiere potrebbe portare a una proliferazione sul mercato statunitense del fenomeno dell’Italian sounding, che vale già 20 miliardi di euro, secondo la Coldiretti. Il 99% dei formaggi di tipo italiano sono in realtà realizzati in Wisconsin, California e New York, dal Parmesan al Romano senza latte di pecora, dall’Asiago al Gorgonzola fino al Fontiago, un improbabile mix tra Asiago e Fontina. Ma c’è anche il Chianti prodotto in California, mentre sempre negli States è possibile acquistare del Marsala Wine. Il fenomeno del falso vino “Made in Italy” trova un forte impulso anche dalle opportunità di vendita attraverso la rete dove è possibile acquistare da aziende statunitensi pseudo vino ottenuto da polveri miracolose contenute in wine-kit che promettono in pochi giorni di ottenere le etichette più prestigiose come Chianti, Valpolicella, Frascati, Primitivo, Gewurztraminer, Barolo, Verdicchio, Lambrusco o Montepulciano. Soggetti al “taroccamento” però ci sono anche altri prodotti, dai pomodori san Marzano all’olio d’oliva fino ai salumi.

Pasta con grano cento per cento italiano, anche Voiello firma

Italiana sì, ma quanto è italiana? Monta la polemica sull’utilizzo di grani stranieri da parte delle aziende di pasta Made in Italy.  E qualcosa si muove. Barilla, ha firmato un accordo triennale, fino al 2019, per garantire la produzione di pasta al 100% italiana venduta con marchio Voiello. Siglato dalla multinazionale di Parma con gli agricoltori italiani prevede l’acquisto di 900mila tonnellate di grano duro per la produzione dei vari tipi di pasta. Si tratta soprattutto del grano duro di tipo Aureo, prodotto di alta qualità e di livello proteico elevato – pari al 15,5% – con cui si realizza la totalità delle tipologie di pasta Voiello. L’accordo premia gli agricoltori del Centro-sud, quelli di Abruzzo, Molise, Campania e Puglia, che in tre anni dovranno produrre 210mila tonnellate di grano duro, tra Aureo (130.000 tonnellate) e Svevo (80 mila tonnellate), per un investimento totale da parte di Barilla di circa 62 milioni di euro; per le aziende la remunerazione sarà elevata, pari a 270 euro a tonnellata come prezzo minimo di vendita rispetto ai 150 euro di qualche anno fa.

Secondo ColdirettiL’accordo per garantire la produzione di pasta al 100% italiana venduta con marchio Voiello è un importante contributo per salvare il grano italiano con le semine 2017 che sono crollate del 7,3% per la scomparsa di centomila ettari coltivati”.

 

Più rischi col Ceta

Sotto la lente la riduzione delle semine sull’intero territorio nazionale – che varia dal -11,6% nel Nord-Est al -5,4% nel Centro mentre nel Sud e Isole si registra un -7,4% – e il crollo dei prezzi pagati agli agricoltori che nella campagna 2016 sono praticamente dimezzati. Ma anche l’approvazione da parte dell’Europarlamento del Ceta (Comprehensive Economic and Trade Agreement) con il Canada che rappresenta il primo esportatore di grano duro in Italia. L’accordo dovrà essere ratificato dal Parlamento nazionale contro il quale, secondo Coldiretti, rischia di scatenarsi una nuova guerra del grano, mettendo in pericolo “non solo la produzione di grano e la vita di oltre trecentomila aziende agricole che lo coltivano, ma anche un territorio di 2 milioni di ettari a rischio desertificazione e gli alti livelli qualitativi per i consumatori garantiti dalla produzione Made in Italy”. La soluzione potrebbe essere l’entrata in vigore dell’etichettatura di origine obbligatoria per il grano usato per produrre la pasta.

Una soluzione in passato avversata da Barilla,c he ha spiegato la sua posizione sul suo sito “Al fine di garantire la stessa qualità, il gusto e la sicurezza della pasta Barilla in tutto il mondo non è possibile utilizzare un’unica varietà di grano, un prodotto naturale, soggetto a cambiamenti anche significativi da una campagna all’altra. È necessario realizzare delle miscele in grado di fornire sempre lo stesso livello di proteine per dare alla pasta il gusto e la consistenza “al dente“ Barilla riconosciuti in tutto il mondo. All’interno di queste linee guida, Barilla cerca quanto più possibile di acquistare il grano negli stessi Paesi in cui produce la propria pasta. Il grano importato dall’estero da Barilla è sempre grano di qualità, acquistato spesso a un prezzo molto più alto di quello che si potrebbe trovare in Italia”.

Sta di fatto che questo richiedono i consumatori sempre più agguerriti e le cui battaglie a volte vincono, come spiega il caso recente dell’olio di palma. Recentemente Il Fatto Alimentare ha pubblicato la lista (in fieri) delle paste “davvero italiane”.

 

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