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Un 2014 positivo per i formaggi Dop italiani

Foto Afidop.

Il mercato interno da segnali di ripresa, mentre l’export conferma la sua vitalità per quanto riguarda i prodotti Made in Italy. Sono queste le indicazioni che emergono dalle stime delle associazioni di settore e dagli studi sui comparti dell’agroalimentare, anticipate da TuttoFood in vista dell’appuntamento in fieramilano dal 3 al 6 maggio prossimi.

Iniziamo il nostro excursus dai formaggi.

La produzione dei formaggi DOP nel 2014 ha avuto andamenti generalmente buoni, anche se diversificati in base al prodotto. Il grana e il gorgonzola hanno visto aumentare la propria produzione rispettivamente del 6% e del 6,4%. Più contenuti gli incrementi di Parmigiano (+0,6%) e Asiago (+0,4%). Ma va ricordato che Grana Padano e Parmigiano Reggiano erano calati nel 2013. Buon andamento per i formaggi freschi (+3,1% a volume), i grana a denominazione (+3,4%), il provolone (+7,2%), il gorgonzola (+2,7%) e i formaggi grattugiati (+9,7% in volume).

In generale, il 2014 vede la riduzione del 3,1% della produzione di formaggi freschi, passato da oltre 1 milione e 4000 mila forme nel 2013 a 1 milione e 350 mila forme nel 2013 e l’aumento del 22,8% per lo Stagionato, passato da quasi 220 mila forme l’anno scorso a quasi 270.000 quest’anno.

 

Export in crescita nonostante i cali verso Russia e Usa

L’export caseario nazionale, secondo i dati diffusi da Ismea, ha chiuso il 2014 con ottimi risultati sul fronte dell’export, che si attesta a quota 2,2 miliardi di euro e volumi che superano le 331mila tonnellate di prodotti. Rispetto al 2013 (elaborazioni Ismea su dati Istat), si è registrata una progressione del 3,3% a volume e del 4,8% a valore, anche se la crisi internazionale causata dal conflitto in Ucraina ha quasi dimezzato le spedizioni verso Mosca e un Euro forte non ha favorito gli acquisti dagli Usa, calati del 5,7%, a volume rispetto al 2013. Bene l’export nei mercati dell’est Europa, in particolare Polonia (+18%), Repubblica Ceca (+9%) e Romania (22%), con crescite a doppia cifra in termini di volume. Nel mercato extraeuropeo si registrano crescite interessanti in Cina (+41%), Corea (+26%) e negli Emirati Arabi Uniti (+28%).  Si è registrata una dinamica positiva anche in Francia (4,3%), Germania (+6,5%) e Regno Unito (+1,9%).

 

Millennials, target ignorato dalle aziende food. A ragione?

Sono i consumatori del futuro, eppure raramente compaiono nelle campagne pubblicitarie e nei pensieri delle aziende di food e dei retailer.

Stiamo parlando dei Millennials, la generazione dei 20-30enni che si affaccia (o si è già affacciata da tempo) al mondo degli acquisti, con esigenze e approccio diverso da quello dei fratelli maggiori o dei genitori. Una ricerca dell’agenzia di advertising britannica Haygarth ne delinea le caratteristiche, a partire da un deciso interesse per il cibo, che per il 33,7% degli intervistati risulta essere più importante della moda. Ma solo l’11% pensa che le campagne pubblicitarie a tema food siano soddisfacenti, mentre il 45% ritiene che siano troppo focalizzate sulle famiglie e sulle mamme. Il rischio è appunto che le aziende, troppo rivolte alle famiglie, si lascino sfuggire un cliente interessato (e interessante). Un canale principe della comunicazione dovrebbero essere i social media, dove le giovani generazioni postano un’immagine correlata al cibo in media tre volte a settimana, mentre il 70% dei loro genitori non lo ha mai fatto. E seguono 37 canali social legati al cibo contro 16 canali di Celebrities e 18 di moda. Altro fattore di cui tenere conto è il packaging, capace di influenzare le decisioni di acquisto 3,5 volte in più dei genitori.

I millennials di casa nostra, ancorati alla famiglia

Ma come se la cavano i ventenni “de noantri”? Se alcuni tratti – come l’approccio social – possono essere simili a quelli britannici, diverso sembra l’approccio verso le finanze e l’indipendenza economica. Lo rivela l’indagine “I risparmiatori di domani” dell’istituto di ricerca Demia realizzata per Assogestioni, su un campione rappresentativo di italiani di ambo i sessi tra i 16 e i 35 anni. Una generazione (la prima) iperconnessa: il 93% naviga su Internet da mobile, reperisce informazioni in tempo reale e condivide ogni esperienza sui social network dei quali il 97% possiede almeno un profilo.

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Fonte: Demia

Quali sono gli acquisti che occupano la testa dei Millennials di casa nostra? Qui gioca molto l’età: Il 48% dei 16-17enni risparmierebbe per comprare beni di consumo, il 64% dei 18-24enni per emanciparsi dai genitori e uscire di casa. I 25-34enni, invece, cominciano a pensare alla previdenza: il 59% del campione intervistato, infatti, risparmierebbe per proteggersi dagli imprevisti.

La famiglia resta, per tradizione ma anche per la crisi economica e la piaga della disoccupazione e del precariato giovanile, il riferimento principale attorno al quale ruota il mondo economico e finanziario dei ventenni italiani. Sette giovani su dieci infatti di fronte ad una decisione per scegliere una forma di risparmio e investimento ne parlerebbe in primo luogo con la propria famiglia: il 38% si rivolgerebbe al padre, il 29% alla madre e il 27% al proprio partner. Non solo: il 48% dei soggetti intervistati ritiene indispensabile l’aiuto economico dei genitori per mettere su famiglia, per il 45% risparmiare rappresenta un grande sacrificio, mentre il 40% dichiara che non riuscirà ad avere uno stipendio simile a quello dei propri genitori

Istruzione stratificata, lavoro precario o non più indeterminato, concetto di famiglia più elastico, esigenze quotidiane diverse: dall’identikit dei Millenials emerge la fotografia di un percorso esistenziale sfaccettato e non più lineare come per le generazioni precedenti. Un target non facile forse da avvicinare, quantomeno tramite i canali tradizionali di comunicazione, ma certamente ricco di potenzialità per chi saprà coglierne le specificità: nel food e altrove.

La via giusta dello sviluppo nella ristorazione, un Convegno a Tuttofood

Ha ancora senso investire in Italia nel settore della ristorazione? Sì, poiché le previsioni permettono di dimostrare che il giro d’affari del settore della ristorazione aumenterà del 2,6% nel quinquennio dal 2014 al 2019.

Il settore, che nel 2019 arriverà infatti a toccare circa 25,2 miliardi di euro di fatturato totale annuo, è quindi un business che può offrire buone opportunità e generare valore per il futuro.

Ma è necessario però sapere quali saranno le leve di settore e dove si trovano queste opportunità.

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È questo il tema al centro del convegno Fare ristorazione oggi. La “via” giusta per lo sviluppo, organizzato dalle riviste inStore e Mixer in collaborazione con DGM Consulting il 4 maggio (h14,30, sala Lem 2) all’interno di Tuttofood.

Il convegno prende lo spunto da una ricerca svolta da Gianluca Meloni, founder di DGM Consulting e docente alla Sda Bocconi che ha identificato gli ambiti territoriali più appetibili per il settore della ristorazione tenendo conto non solo dell’attuale distribuzione del mercato, ma anche delle sue evoluzioni future, conseguenti agli andamenti demografici e all’evoluzione del potenziale di spesa.

«La ristorazione italiana – afferma Meloni – ha saputo trovare in questi ultimi anni soluzioni in grado, da un lato, di valorizzare le tipiche tradizioni universalmente riconosciute come componenti essenziali del “Made in Italy”, e, dall’altro, di proporre soluzioni innovative e originali sempre più allineate ai nuovi modelli di consumo. Nonostante questo, però, il “giusto formato” non è più sufficiente a garantire crescita e sviluppo nel retail alimentare. Diventa sempre più indispensabile avere una solida strategia territoriale in grado di identificare le zone maggiormente appetibili, verificarne la coerenza rispetto al proprio sistema d’offerta, analizzare gli spazi lasciati aperti dalla concorrenza. La mancata conoscenza del territorio amplifica il rischio di errate aperture che, nella migliore delle ipotesi, riducono i livelli di marginalità (a causa di vendite non eccellenti e di costi logistici elevati) e, nella peggiore, producono danni dal punto di vista economico e dell’immagine.

È un passo preliminare che deve guidare tutte le aziende della ristorazione nella scelta della giusta location, ovvero della “via” (dell’indirizzo) giusta per qualsiasi nuova apertura».

Sono considerazioni che, amplificate, riguardano il successo dell’italian food nel mondo e della ristorazione italiana che ne diventa ambasciatrice. Ma, anche in questo caso il presidio territoriale (i mercati) diventa un fattore determinante.

Il programma del convegno, realizzato con il sostegno di Cigierre e McCain prevede le relazioni di Gianluca Meloni con focus Italia e mondo, gli interventi di due operatori della ristorazione – Marco Di Giusto, Amministratore Delegato Cigierre e Alessandra De Gaetano, Concepts Industrialization Director Autogrill Group che illustreranno l’esperienza dei due gruppi nel governare lo sviluppo territoriale in Italia e l’approccio al mercatoo internazionale e l’intervento di McCain incentrato sulla segmentazione dell’offerta ristorata in funzione dei formati

In conclusione una tavola rotonda sul tema delle strategie territoriali per tutte le imprese coinvolte lungo la filiera della ristorazione (fornitori, distributori, retailer) con testimonianze di alcuni player con una visione anche internazionale e una tavola ritonda nel corso della quale i temi affrontati saranno discussi e declinati secondo i diversi punti di vista dei partecipanti in rappresentanza della filiera: McCain (food), Nagel (logistica), Metro (distribuzione), Cigierre (ristorazione).

Qui il modulo d’iscrizione

I vignaioli indipendenti per il bere consapevole, ma contro le proposte di nuove strategie europee antialcol

Con una lettera indirizzata al Ministro Beatrice Lorenzin la presidente Matilde Poggi i vignaioli indipendenti riuniti nella Fivi esprimono preoccupazione per il documento proposto dal Comitato per le politiche sugli alcolici, che intende introdurre nuove strategie di riduzione del consumo di alcol nell’incontro in programma oggi e domani a Riga tra i Ministri della Salute dell’UE.

La Federazione dei vignaioli indipendenti infatti sottolinea che il documento proposto non sembra combattere gli abusi nel consumo di alcolici, ma il consumo di alcolici in genere, penalizzando così anche i consumatori responsabili di vino. Il vino è un prodotto agricolo, ricorda la Fivi, e come tale va considerato. “Non si può chiedere – afferma la presidente della federazione Matilde Poggi – di ridurre il contenuto in alcol delle bevande, quindi anche del vino, ignorando o non tenendo conto del fatto che quest’ultimo è un prodotto agricolo soggetto a legislazioni specifiche che, a seconda del disciplinare di riferimento, includono il requisito di un contenuto minimo di alcol. Così come non si può chiedere di inserire le informazioni nutrizionali in etichetta senza considerare che non c’è alcuna prova che abbiano influenza diretta o indiretta sugli abusi nel consumo”.

I paesi tradizionalmente produttori di vino del Sud Europa vedono un calo continuo dei consumi negli ultimi dieci anni e, ancor più importante, registrano problemi di alcolismo molto inferiori rispetto ai Paesi del Nord Europa.

Poiché le proposte contenute nel documento del Cnapa sono incompatibili con la legislazione europea e anche con i regolamenti dell’Ocm, Organizzazione comune di mercato, Fivi e Cevi (Confederazione Europea Vignaioli Indipendenti) hanno messo in atto una strategia atta a sensibilizzare le autorità europee affinché tale documento non venga accolto.

Tra l’altro Cevi, di cui Fivi fa parte, è impegnata nel promuovere il bere consapevole e nel combattere la piaga dell’alcolismo e del consumo smodato di alcolici tramite il programma Wineinmoderation e le linee guida per il bere moderato illustrate nel video

 

 

 

 

Unicoop Firenze: vendite in calo nel 2014, ma cresce la produttività e i soci superano il milione

Sono cominciate il 9 aprile e si protrarranno fino al 4 maggio le assemblee dei soci di Unicoop Firenze per conoscere e discutere il bilancio 2014.

Un anno, si legge in una nota pubblicata sul sito della cooperativa, di calo dei consumi anche alimentari e quindi la “coperta” delle vendite si è fatta più corta per tutti gli operatori commerciali.

In questa situazione, la cooperativa ha registrato nel 2014 vendite inferiori rispetto all’anno precedente, scontando in gran parte la trasformazione degli ipermercati in grandi supermercati alimentari: una perdita di area di vendita di quasi il 5%.

A questo occorre aggiungere una riduzione dei prezzi di vendita dello 0,7 per cento. Ma è aumentata la produttività e sono stati ridotti i costi di gestione; quindi il risultato commerciale sarà nel complesso positivo.

Un altro dato estremamente positivo – sottolinea la nota – è che i “soci attivi”, quelli che hanno fatto almeno una spesa nei punti vendita di Unicoop Firenze in un anno hanno superato il milione, l’1,71 per cento in più rispetto all’anno precedente. In generale i soci hanno apprezzato la politica di riduzione dei prezzi con la riduzione per ben mille prodotti a marchio Coop, ai quali si sono aggiunti a febbraio altri mille prodotti, anche di marca.

Semaforo verde per i vegani in gdo

Nell’ultimo numero di inStore, Valeria Volponi si occupa di come la distribuzione moderna sta affrontando un segmento di consumatori particolarmente interessante. Quello dei consumatori che si sono vitati ai prodotti vegetariani e vegani in particolare.

Statistiche non ufficiali parlano di circa 1.3 milioni di nostri concittadini votati al veganesimo, tali da rendere l’Italia il secondo paese al mondo per numero, dopo l’India. Per Eurispes gli italiani che non mangiano carne e pesce sono il 6,5% e coloro che escludono del tutto dalla dieta l’uso di prodotti animali e derivati solo 0,6%. Nel complesso, oltre il 7% della popolazione nazionale.

I vegani sono un target medio-alto spendente, di livello culturale elevato, sensibile alle scelte di consumo, a cui ha cominciato a prestare attenzione anche la grande distribuzione, generalista e specializzata. L’equazione “mangiare bene-stare bene” si è progressivamente identificata nel consumo di prodotti biologici e eco-friendly anche da parte di chi non soffre di allergie specifiche, tanto che il giro d’affari 2014 dell’alimentazione bio, secondo ricerche Ref su dati Nielsen, ha superato i 700 milioni di euro nei soli punti vendita della Gdo.

In una sorta di evoluzione naturale dal biologico, al vegetariano, al vegano, sono aumentate le referenze ed è migliorato anche il livello d’informazione al consumatore: più facile identificare i prodotti a scaffale, più immediata l’identificazione di quali cibi sono compatibili con la dieta scelta.

Puoi leggere tutto l’articolo nella versione sfogliabile online di inStore.

 

Ref Ricerche: l’Italia alla prova della deflazione buona

Nell’articolo pubblicato sull’ultimo numero di inStore, Fulvio Bersanetti , economista di Ref. Ricerche scrive: “Le prime settimane del 2015 hanno certificato il passaggio dell’inflazione in campo negativo, in una misura compresa tra il -0,6% rilevato a gennaio ed il -0,2% di febbraio (v. grafico). L’Italia è dunque tornata in deflazione, come nello scorso mese di settembre: ciò significa che i prezzi al consumo dei beni e dei servizi acquistati dalle famiglie risultano più convenienti se messi a confronto con quelli praticati a gennaio e febbraio 2014.

Si è a lungo dibattuto sugli effetti nocivi che una discesa prolungata dei prezzi finirebbe per produrre sul sistema economico, come insegna l’esperienza giapponese a partire dalla metà degli anni Novanta: in prima battuta un trend deflattivo spinge i consumatori a rimandare gli acquisti, in quanto ad ogni rinvio corrisponde un risparmio crescente. Nel medio termine questi comportamenti contribuiscono a deprimere i consumi delle famiglie ed a ridurre i margini delle imprese produttive, innescando una spirale deflazione-recessione economica dalla quale è assai difficile risollevarsi”.

Proseguendo nell’articolo, Bersanetti afferma che in realtà si tratta di una deflazione ‘buona’ per le implicazioni sul potere d’acquisto delle famiglie, “riconducibile in larga parte a uno shock esterno quale la caduta delle quotazioni petrolifere”  con possibili effetti sulla ripresa anche alla luce dell’avvio, qualche settimana fa, del Quantitative Easing della Bce.

Potetee leggere l’articolo integrale, dal titolo Whatever it takes: l’Italia alla prova deflazione,  nella versione sfogliabile di inStore

Contante addio? Bergamo si candida come prima “Cashless City”

Foto Ingenico

Un accordo tra pubblico, privato e cittadini con un obiettivo chiaro e ben definito: digitalizzare i pagamenti liberandosi del contante, che per il nostro Paese inizia a essere un costo davvero pesante. Partirà il 4 maggio da Bergamo e potrà essere in seguito esteso ad altre città Cashless City, il primo progetto nazionale promosso da CartaSì che, con la cooperazione tra Pubblica Amministrazione e tutti i principali attori del mercato dei pagamenti, vuole ridurre l’uso del contante in un’intera città aumentando l’incidenza dei pagamenti elettronici.

Cashless City vuole dimostrare come, con la collaborazione tra Pubblica Amministrazione, sistema bancario e imprese, è possibile rendere i pagamenti elettronici di uso quotidiano, aumentandone sensibilmente l’incidenza che, in Italia, si attesta al 14,3% contro il 31,8% di Germania, Gran Bretagna, Spagna, Francia, con punte del 46,8% per i “top performers”: Norvegia, Svezia e Finlandia. Un obiettivo che, quando raggiunto, garantirà benefici economici concreti per tutto il Paese, agendo su due direttrici: semplificazione della vita e vantaggi per i cittadini (accessibilità ai servizi, sicurezza, miglior controllo delle spese) e tangibile spinta all’economia (eliminazione dei costi di gestione del contante, trasparenza).

Il coinvolgimento attivo dell’intera città di Bergamo avverrà attraverso gare alimentate dagli acquisti con carte di pagamento: potranno parteciparvi tutti i cittadini titolari di una qualsiasi carta di pagamento e tutti gli esercenti dotati di un POS. Sono previsti sia premi individuali (per cittadini ed esercenti) con meccanismi instant win e con estrazioni settimanali, sia premi collettivi come la realizzazione di opere pubbliche di interesse per tutta la città.

Partecipare è molto semplice: si effettua un acquisto con carta, si fotografa lo scontrino e si carica la foto sulla APP dedicata al progetto (CashLess City). Titolare della carta ed esercente partecipano così all’estrazione dei premi individuali. Alla vincita dei premi collettivi per la città, invece, concorrono tutti i pagamenti effettuati con carte, anche quelli per i quali non si carica la foto dello scontrino sulla app.

“Siamo fiduciosi che i meccanismi di incentivazione previsti dal progetto avranno un’efficacia reale e concreta tra i titolari di carte Visa e gli esercenti che le accettano. Visa Europe crede fermamente nella possibilità di sviluppo del nostro mercato, ancora fortemente contante-centrico ma con grandi prospettive di cambiamento, e l’annuncio di oggi ne è la prova tangibile” ha commentato Davide Steffanini, Direttore Generale di Visa Europe in Italia.

Quote latte addio. La competizione è senza rete

Dopo poco più di trent’anni si chiude il capitolo delle quote latte. Da domani primo aprile, infatti, il mercato europeo del latte spariranno le protezioni  di cui hanno goduto molti Paesi e che in Italia ha sollevato le proteste degli agricoltori, di cui si era fatta interprete la Lega di Bossi con le marce, le occupazioni delle strade, le azioni plateali e dall’altro ha alimentato la compravendita di quote tra allevatori, che sono state più volte sanzionate dalla Commissione europea. Alla fine, però ha prevalso la linea di Bruxelles verso l’eliminazione degli aiuti e il dispiegamento del mercato libero.

Introdotto per la prima volta nel 1984, in un momento in cui la produzione dell’UE eccedeva di gran lunga la domanda, il regime delle quote ha rappresentato uno dei primi strumenti creati per superare le eccedenze strutturali. Le successive riforme della politica agricola comune dell’UE hanno orientato il settore sempre più al mercato e, in parallelo, hanno fornito una serie di strumenti più mirati per contribuire a sostenere i produttori in zone vulnerabili, come quelle montuose, dove i costi di produzione sono più elevati. La decisione sulla data ultima per l’abolizione dei contingenti è stata presa per la prima volta nel 2003, in modo da fornire maggior flessibilità ai produttori dell’Unione per soddisfare l’aumento della domanda, soprattutto sul mercato mondiale. La data è stata riconfermata nel 2008, accompagnata da un ventaglio di misure intese a realizzare un cosiddetto «atterraggio morbido».

Per il sistema agricolo italiano, che già ora produce11 milioni di tonnellate di latte e ne importa poco meno di 9 milioni, è un cambiamento importante – ma proprio per i motivi di cui sopra non certamente inaspettato o improvviso – perché il confronto con i produttori degli altri Paesi europei diventa senza rete di protezione e quindi tutto si gioca sulla competitività. Non solo di prezzo, che pure rimane un aspetto  importante, dato che la remunerazione degli agricoltori è un fattore di salvaguardia del sistema agricolo italiano.

Resta il fatto che il prezzo del latte in Italia è superiore alla media Ue e a quello di molti Paesi produttori ed esportatori. Anche sul versante della qualità, se è vero che quello italiano è riconosciuto di altissima qualità,la gran parte del latte prodotto viene venduto come latte fresco o serve per la produzione di formaggi Dop. Ma a sentire alcuni produttori di formaggi non a denominazione, il controllo qualità delle cagliate provenienti dal nord Europa unitamente alla tipologia di allevamenti assicura un prodotto di buon livello. A un prezzo inferiore a quello prodotto in Italia, che attualmente viaggia intorno ai 35 centesimi al litro.

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Per gli agricoltori, peraltro, è un prezzo che non ripaga i costi di produzione e, anche per la dimensione aziendale, non consente di fare investimenti. Si ripete, anche in questo caso, il mantra del nanismo delle imprese italiane che non riescono a competere con quelle estere più grandi, in un mercato dalle porte aperte.

Per contrastare in parte il ribasso dei prezzi, a febbraio Conad aveva annunciato di aver fissato a 38 centesimi al litro il prezzo del latte alla stalla per i prodotti a proprio marchio. «Siamo preoccupati per la crisi che sta affossando il settore – aveva dichiarato l’amministratore delegato Francesco Pugliese -. Conad, nella contrattazione con i fornitori per quanto riguarda il latte, i formaggi e i latticini a proprio marchio, ha ritenuto di fissare il prezzo da pagare per l’acquisto di latte alla stalla a 0,38 euro/litro, prezzo da cui partire per fissare il prezzo del prodotto finito. Una decisione maturata per superare le tensioni che stanno crescendo nel mercato, perché ritiene sia una questione di equità, per valorizzare l’italianità dei prodotti. La nostra è solo una tappa necessaria – aveva poi aggiunto – in attesa che si apra una riflessione generale su tutta la filiera. Ogni attore della filiera deve sentirsi responsabilizzato a garantire il futuro ad un comparto strategico per l’agroalimentare italiano, oggi a rischio di emarginazione, operando di comune accordo per ammodernarlo e migliorarlo».

Sull’altro fronte, Coldiretti denuncia che “solo 1 stalla su 5 è sopravvissuta al regime delle quote latte lasciando in vita in Italia solo 36mila allevamenti e con il pericolo che il prevedibile aumento della produzione comunitaria possa scatenare una vera invasione straniera in Italia, dove si importa già quasi il 40 per cento dei prodotti lattiero caseari consumati”.

Secondo Coldiretti il prezzo pagato agli allevatori è aumentato di poco più 10 centesimi mentre il costo per i consumatori è cresciuto di 1,1 euro al litro, a valori correnti. In altre parole oggi gli allevatori devono vendere tre litri di latte per bersi un caffè al bar, quattro litri per un pacchetto di caramelle, quattro litri per una bottiglietta di acqua al bar mentre quasi 15 litri per un pacchetto di sigarette. Ma soprattutto il prezzo riconosciuto agli allevatori non copre neanche i costi per l’alimentazione degli animali con effetti sull’occupazione, sull’economia, sull’ambiente e sulla sicurezza alimentare degli italiani.

«Questa situazione è determinata dal fatto che in Italia esiste un evidente squilibrio contrattuale tra le parti lungo la filiera che determina un abuso, da parte dei trasformatori, della loro posizione economica sul mercato, dalla quale gli allevatori dipendono» ha affermato il presidente della Coldiretti Roberto Moncalvo nel denunciare che «questa situazione rischia di aggravarsi con la fine del regime delle quote latte e non è un caso che nel mese di marzo comportamenti scorretti nel pagamento del latte agli allevatori hanno portato prima in Spagna e poi in Francia alla condanna da parte dell’Antitrust delle principali industrie lattiero casearie, molte delle quali, peraltro, operano anche sul territorio nazionale (il riferimento è a Lactalis, ndr) dove invece c’è  un “silenzio assordante” da parte dell’Autorità Garante delle Concorrenza e del mercato».

Come corollario non secondario resta la questione della indicazione di provenienza del latte. «In un momento difficile per l’economia dobbiamo portare sul mercato il valore aggiunto della trasparenza e lo stop al segreto sui flussi commerciali con l’indicazione delle aziende che importano materie prime dall’estero è un primo passo che va completato con l’obbligo di indicare in etichetta l’origine degli alimenti», ha affermato il presidente della Coldiretti Roberto Moncalvo. Ad oggi in Italia – continua la Coldiretti – è obbligatorio indicare la provenienza del latte fresco ma non per quella a lunga conservazione ma l’etichetta è anonima anche per i formaggi non a denominazione di origine, per le mozzarelle e gli yogurt.

Tuttavia l’abolizione del regime delle quote latte può costituire motivo di riorganizzazione della filiera produttiva, favorendo accorpamenti e fusioni tra imprese agricole, per far fronte anche all’aumento della domanda prevista nei prossimi anni.

Phil HoganSecondo il Commissario UE per l’Agricoltura e lo sviluppo rurale Phil Hogan (nella foto) : «L’abolizione delle quote latte è al tempo stesso una sfida e un’opportunità per l’Unione. La possiamo considerare una sfida, in quanto un’intera generazione di produttori di latte dovrà abituarsi a vivere in un ambiente completamente nuovo, segnato sicuramente da una certa volatilità. Ma al tempo stesso rappresenterà indubbiamente un’opportunità in termini di crescita e di posti di lavoro. Grazie a una maggiore attenzione sia ai prodotti a valore aggiunto sia agli ingredienti per alimenti «funzionali», il settore lattiero-caseario ha tutto il potenziale per diventare un motore economico per l’UE. Le zone più vulnerabili, per le quali l’abolizione delle sistema della quote può essere considerata una minaccia, possono beneficiare della gamma di misure di sviluppo rurale legate al principio di sussidiarietà».

Nonostante le quote, negli ultimi 5 anni le esportazioni UE di prodotti lattiero-caseari sono aumentate del 45% in volume e del 95% in valore. Le proiezioni di mercato indicano che le prospettive di crescita per il futuro rimangono forti — in particolare per quanto riguarda i prodotti a valore aggiunto quali i formaggi, ma anche per gli ingredienti utilizzati nei prodotti alimentari, nutrizionali e sportivi.

L’addio alle quote latte, però lascia un’eredità pesante: sono le multe comminate da Bruxelles per 4,5 miliardi di euro che, ha affermato il ministro delle Politiche agricole Maurizio Martina, sono costate più di 70 euro a ogni cittadino italiano.

Frescobaldi licenzia un 2014 positivo con una crescita del 6,3% in Italia

Da sinistra Ferdinando Frescobaldi, John Armleder, Giovanni Geddes Da FilicaJa in occasione della manifestazione Vendemmia d'Autore lo scorso febbraio

Frescobaldi, lo storico gruppo vitivinicolo toscano, ha registrato nel 2014 un fatturato di 85,8 mln di euro, crescendo del 2,8% rispetto al 2013. Il risultato più positivo è un’ulteriore crescita del comparto del vino in Italia (+ 6,3%), il che conferma il trend positivo iniziato l’anno precedente (+6,1% rispetto al 2012): un dato significativo che dimostra l’attenzione crescente nel nostro mercato verso i vini di qualità, e soprattutto la forza dei brand del gruppo.

A livello reddituale, il Gruppo Frescobaldi si aspetta ottimi risultati con un EBITDA oltre il 30% del fatturato.

Buona anche la performance all’estero, che cresce del 4,8%, trascinata da Paesi come gli USA, Svizzera e Germania. La quota dell’export è del 68%, con una crescita dovuta in gran parte ai vini di alta gamma: conferma che il comparto vitivinicolo italiano continua ad attrarre i consumatori stranieri, per i quali ha sempre grande importanza il valore del brand, ma anche il fascino del territorio e della storia che si celano dietro ad una bottiglia di vino.

Come nel passato, il Gruppo continua a credere negli investimenti che nel 2014 raggiungono la cifra di oltre 13 milioni di euro, impiegati nell’ammodernamento e rafforzamento della struttura produttiva, dei vigneti e degli impianti sempre più all’avanguardia: l’obiettivo è quello di produrre vini di qualità sempre maggiore e   puntare sull’alta gamma, sostenuta da progetti di lungo termine che mirano a costruire il valore di ciascuna delle marche del Gruppo (Frescobaldi, Luce della Vite, Ornellaia, Masseto e Attems).

«Consideriamo che i mercati consolidati» dichiara Giovanni Geddes, Amministratore Delegato del Gruppo «Italia, Europa e Nord America, pesano ancora circa 85% del fatturato e continuano a crescere. I mercati emergenti sono importanti come prospettiva futura, ma restano ancora da conquistare. Nonostante questo, investiamo sia in personale che in promozione. La OCM continua ad essere un notevole aiuto e volano per gli investimenti per portare la cultura del prodotto Italiano nel mondo».

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