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Supermercati, dove risparmiare in 70 città. L’indagine di Altroconsumo

Settanta città, 1.148 punti vendita tra supermercati, ipermercati e discount, oltre 1,6 milioni di prezzi rilevati per 125 categorie di prodotti, tra alimentari, per la cura della persona, della casa e pet food: sono questi i numeri dell’edizione 2021 dell’inchiesta di Altroconsumo sulla grande distribuzione. Un’indagine che permette di indicare il supermercato più economico visitato per ognuna delle città e di stilare anche quattro classifiche nazionali per catena e tipo di spesa (con prodotti di marca, a marchio commerciale, prodotti più economici e mista).

Risparmio massimo fino a 1.700 euro l’anno
La conferma arriva, come ogni anno: scegliendo la catena o il punto vendita più conveniente individuati con le classifiche di Altroconsumo si possono risparmiare anche grandi cifre, anche se solo laddove la concorrenza funziona. Il risparmio massimo individuato nell’inchiesta arriva fino a 1.700 euro all’anno in media per le famiglie italiane, sia passando alla catena di discount più conveniente per una spesa con i prodotti più economici (Aldi), sia scegliendo, invece del più caro, il supermercato più conveniente in città (il Super Rossetto, in provincia di Rovigo). Purtroppo, non in tutti i 70 centri visitati si può risparmiare allo stesso modo e il divario tra Nord e Sud è evidente. Considerando la spesa media delle famiglie al supermercato – 6.843 euro nel 2020 (Istat) – il risparmio massimo, nelle città più convenienti, può arrivare fino al 20% circa se si sceglie il punto vendita più economico invece di quello più caro: siamo, appunto, a 1.700 euro l’anno in provincia di Rovigo (1.720 per la precisione), 1.523 euro a Reggio Emilia e Modena, 1.400 euro a Brescia e Ravenna. Sono cifre che stridono con i 100 euro circa di risparmio possibile (solo il 2%) nelle città dove non c’è concorrenza tra i supermercati visitati, tutte al Centro-Sud: Potenza, Pesaro, Pistoia, Sassari, Reggio Calabria, Foggia. In questi centri, anche cambiando supermercato, i prezzi restano sempre allo stesso livello e comunque piuttosto cari. Quanto ai punti vendita più convenienti dell’indagine, continua ad andare Rossetto: due suoi negozi (in provincia di Rovigo e Brescia), insieme a un punto vendita Emisfero (Vicenza), sono i più convenienti dell’inchiesta. Come registrato da anni, nelle prime 30 posizioni troviamo 20 super del Triveneto; bisogna arrivare al 40esimo posto per il primo negozio non al Nord, l’Ipercoop di Prato. Nell’indagine completa ci sono anche i risparmi massimi calcolati per differenti tipi di nuclei familiari e differenti tipi di spesa. Vengono riportati anche alcuni esempi di prodotti (uno shampoo, un detersivo lavatrice, un formaggio e un’acqua) per cui sono state rilevate le differenze di prezzo maggiori a seconda del punto vendita: il prezzo per lo stesso prodotto è cambiato anche del 200%. Inoltre è stato anche fatto un approfondimento sulla qualità dei prodotti di marca, a marchio commerciale e del discount nei test e, infine, realizzato un focus su come sono cambiati i prezzi rispetto a prima della pandemia.

Pandemia: come sono cambiati i prezzi
In passato – con la corsa all’accaparramento delle prime fasi emergenziali – di anomalie sui prezzi ne erano state rilevate, in particolare rispetto alla riduzione delle promozioni. Cosa succederà sul lungo termine? Il timore di un progressivo aumento circola, tra incertezze e ripresa economica, rincari delle materie prime e possibili speculazioni. Altroconsumo ha voluto vedere cosa è accaduto ad alcuni prezzi, confrontando quelli rilevati nell’indagine sui supermercati del 2019 con quelli di quest’anno (farina, passata di pomodoro, Emmenthal, pasta, spinaci surgelati, crema mani, detersivi per pavimenti, saponetta). Spicca l’aumento rilevato nelle indagini per il costo medio di due prodotti molto comuni ed entrambi poco reperibili nei primi mesi di pandemia: la farina, il cui prezzo è a + 27% rispetto a due anni fa, e la passata di pomodoro a +22.

La metodologia dell’indagine
Senza preavvisare i punti vendita, i rilevatori di Altroconsumo hanno registrato 1,6 milioni di prezzi in 70 città, presso 1.148 negozi: 230 iper, 599 super e 319 discount, selezionati su criteri che ne garantiscono la rappresentatività. Per ognuna delle 125 categorie di prodotto considerate (le più acquistate secondo Istat) sono stati registrati i prezzi, promozioni incluse, di tutti i prodotti presenti sugli scaffali. I prezzi vengono elaborati sulla base di calcoli e ponderazioni che permettono di ottenere gli indici di competitività su base 100 e realizzare le classifiche.

Risparmio e italiani: uomini e donne lo fanno in maniera diversa. L’indagine Facile.it

Risparmio sì, risparmio no: l’Italia risparmia?

Dipende: non tutti i nostri connazionali sono propensi a farlo e – soprattutto- non nello stesso modo. Ce lo raccanto la recente indagine commissionata da Facile.it (in occasione dell’apertura del Facile.it Store di Roma) a mUp Research.

Il primo dato interessante è che all’interno delle famiglie, l’attenzione al risparmio nelle attività domestiche è  principalmente appannaggio delle donne (58%) e dei 35-54enni (43%). Non basta, relativamente alle modalità di risparmio fiocccano le liti domestiche: pare siano ben 5,8 le discussioni medie che, ogni mese, una famiglia italiana intesse attorno alle spese di casa.

E la motivazione è semplice: 17,2 milioni di italiani rispondono “perché uno di noi è veramente sprecone” e 14,5 milioni, di contro, affermano che la causa è l’eccessiva parsimonia di qualcuno dei componenti della famiglia.

Se poi si prova ad individuare chi sia il più sprecono e chi il più taccagno, ecco la sorpesa: l’uomo si aggiudica entrambi i primati, indicato come sprecone dal 58% dei rispondenti e come taccagno dal 55%.

 

Questi i risultati al netto del bebè: dopo il lieto evento, infatti può accadere che il papà diventi ancor più parsimonioso (da 55% a 66%), la mamma, invece, più propensa a “sprecare” (da 42% a 50%).

Le azioni più risparmiose

Oltre a quelle consapevoli e virtuose come usare lavatrice e lavastoviglie solo se a pieno carico (70,7% dei rispondenti lo fa) e chiudere sempre i rubinetti quando ci si lava i denti (69,6%), ci sono anche atteggiamenti un po’ sopra le righe…

Ecco alcuni dei più sorprendenti: 

6,1 milioni di italiani ammettono di riutilizzare più volte alluminio o pellicola trasparente per alimenti;

5,3 milioni di automobilisti, quando si trovano a percorrere strade in discesa, mettono l’auto in folle per risparmiare carburante;

2,6 milioni di italiane ammettono di aprire a metà i dischetti struccanti così da poterli usare più volte;

5,5 milioni dividono in due i tovagliolini di carta

Se poi ci spostiamo all’interno dei luoghi di consumo vediamo che 11,5 milioni di persone dichiarano di cambiare continuamente supermercato per inseguire le offerte mentre sono 3 milioni i cittadini che, per risparmiare, comprano solo alimenti prossimi alla scadenza e quindi in sconto

Eppure, nonostante gli sforzi messi in campo, sembra che il risparmio conseguito in questo modo dagli italiani sia basso; secondo quanto dichiarato dai rispondenti, in media il vantaggio economico ottenuto in un anno grazie a questi espedienti è di 239 euro e, per il 39%, addirittura inferiore a 100 euro.

Le voci più dispendiose

Assicurazione auto, luce e gas sono le voci che pesano di più, ma se per l’RC auto sono 16,9 milioni gli italiani che nel 2017 sono già riusciti ad abbattere i costi, le tariffe luce e gas sono quelle su cui si vorrebbe risparmiare di più nel 2018.

La crescente consapevolezza dei consumatori verso il tema del risparmio emerge anche dal fatto che, sempre più spesso, si cerca di risparmiare anche su altri prodotti; sono 7,5 milioni gli italiani che vorrebbero ridurre i costi del conto corrente e, 4,5 milioni, quelli che vorrebbero farlo per la carta di credito.

Ma come ci si informa in merito? Dall’indagine è emerso che Internet è ormai la prima fonte di informazione; è sul web che 24,4 milioni di italiani cercano soluzioni per il risparmio e tra le diverse opzioni offerte dalla Rete il canale più utilizzato è rappresentato dai comparatori, usati da 11,8 milioni di utenti.

*L’indagine è stata condotta da mUp Researchcon l’ausilio di Norstat su un campione rappresentativo della popolazione nazionale.

Tassi bassi e volatilità, si ritorna al mattone

È stata presentata oggi a Torino l’Indagine sul risparmio e sulle scelte finanziarie degli italiani 2016: ‘Tassi bassi e volatilità, si ritorna al mattone’, un progetto del Centro Einaudi e di Intesa Sanpaolo, basato su interviste effettuate da Doxa fra gennaio e febbraio 2016 a 1.011 famiglie detentrici di conto corrente bancario e/o postale; all’interno della famiglia è stato intervistato il principale decisore in merito a risparmio e investimento, ossia la persona più informata e interessata circa gli argomenti trattati nel questionario (nel 77 per cento dei casi, il capofamiglia). Il campione selezionato è rappresentativo per classi d’età, professioni, titoli di studio e zone geografiche. L’Indagine, che permette confronti temporali dal 1983 a oggi, affronta ogni anno un tema monografico: nel 2016 l’attenzione si è concentrata sulle scelte di investimento in condizione di tassi di interesse bassi o nulli. È stato realizzato un campionamento addizionale di 312 interviste su un target di piccoli investitori fra i 29 e 55 anni, poi elaborato mettendo insieme gli intervistati del sovracampionamento con quelli del campione ‘famiglie’ appartenenti a questo stesso target (255), per un totale di 567 capifamiglia, che sono stati sondati sulla reazione al contesto di ‘interessi zero’ e sull’appetibilità dell’investimento immobiliare.
I risultati sono stati analizzati e discussi da Salvatore Carrubba, Presidente del Centro Einaudi, Gregorio De Felice, Chief Economist di Intesa Sanpaolo e dall’economista Giuseppe Russo, curatore del Rapporto. Le conclusioni sono state affidate a Gian Maria Gros-Pietro, presidente di Intesa Sanpaolo.

Di seguito la sintesi della ricerca:

Famiglie: ripresa lenta, ma aspettative in miglioramento. La crisi appare ormai alle spalle, ma presso le famiglie è diffusa la percezione che la perdita di reddito disponibile non sia stata completamente recuperata: per conseguenza, le spese nel 2015-2016 hanno continuato a essere improntate alla sobrietà. È però importante sottolineare che se la quota delle famiglie del campione che dichiarano un reddito insufficiente si è stabilizzata nel 2016 intorno al 17 per cento senza ridursi, è invece sulle aspettative che si registra il vero miglioramento. Fino al 2015, il 50 per cento degli intervistati giudicava probabile un peggioramento imminente delle proprie condizioni economiche. Nel 2016 le proporzioni sono opposte: il 60 per cento giudica infatti imminente un miglioramento. Non solo: sempre nel 2016 una quota tra il 20 e il 22 per cento del campione pensa non solo di mantenere, ma di aumentare le spese per i figli e di espandere quelle per la salute e per l’acquisto dei beni durevoli, rinviato negli anni passati.

L’evoluzione demografica dell’ultimo decennio stabilizza il risparmio ai livelli del 2012. La crisi economica ha accelerato l’impatto dell’invecchiamento della popolazione sulla distribuzione del campione per condizione lavorativa: in otto anni, la quota dei pensionati sul campione è aumentata di oltre 10 punti percentuali, con una paritetica riduzione sia dei lavoratori indipendenti che dei dipendenti. Tenendo conto della riduzione, con l’avanzare dell’età, della capacità di risparmiare, il cambiamento demografico impatta negativamente sul risparmio. Quando la crisi iniziò, la numerosa generazione dei baby boomer era in attività, oltre che al culmine di carriere che avevano visto crescere costantemente il reddito. Dopo sette anni, la stessa generazione ha cominciato a lasciare il lavoro, qualche volta con pensioni inferiori alle aspettative; in qualche caso ha perduto l’occupazione senza trovarne un’altra equivalente. Le generazioni di rincalzo, ossia le coorti che avrebbero dovuto entrare nel mondo del lavoro, hanno avuto meno occasioni. Pertanto, nel 2016 si è stabilizzata l’incidenza dei risparmiatori (40 per cento) sul campione, mentre si è lievemente ridotta la quota di reddito risparmiata (9,6 per cento): entrambe le percentuali confermano, nella media campionaria, i livelli sui quali giacevano dal 2012. Lo ‘smottamento economico’ della classe media (ossia della parte centrale della distribuzione del reddito, del risparmio e della ricchezza) che era stato messo in luce nell’Indagine 2015, è un fenomeno strutturale che influenza la parte centrale di tutte le distribuzioni, e quindi incide sia sulla velocità media di ripresa, sia sulla quota media di risparmiatori, sia sul reddito destinato al risparmio, benché in condizioni congiunturali migliorate.

Si risparmia per far fronte alle incertezze. Il risparmio per i figli supera sempre quello per la casa. Le aspettative pensionistiche continuano a ridimensionarsi, ma si risparmia troppo poco per la vecchiaia. La mite ripresa, unita alla volatilità dei mercati finanziari e alla esiguità dei rendimenti, sono alla base della crescente motivazione ‘precauzionale’ del risparmio (58,3 per cento, in aumento di 10 punti). Aumenta un po’ (da 8 a 8,5 per cento) il risparmio per la casa, ma si conferma il superamento del risparmio fatto per i figli (17,1 per cento) rispetto a quello accantonato per il mattone. Il rapporto tra le due motivazioni era invertito prima della crisi, quando il risparmio per la casa precedeva quello per i figli.

Il risparmio previdenziale è ancora insufficiente. È ancora piuttosto bassa, in relazione ai bisogni potenziali, l‘intenzione di risparmiare per la vecchiaia (14,1 per cento). Ciò accade nonostante sia diffusa una corretta percezione della riduzione delle prestazioni pensionistiche future rispetto a quelle godute dalle generazioni precedenti: il saldo tra l’attesa di un reddito sufficiente o insufficiente al momento di andare in pensione scende infatti dal 13 al 6,7 per cento (era pari al 29,8 per cento prima della crisi). Solo l’11 per cento del campione dichiara di avere sottoscritto qualche forma di previdenza integrativa, relativa al II o al III pilastro previdenziale. La percentuale è in particolare piuttosto bassa tra coloro che si trovano all’inizio della carriera contributiva.

La difesa del capitale è sempre la priorità. Nonostante si sia ridotta la preoccupazione di perdere il capitale – segnalata indirettamente dal fatto che la quota di intervistati non interessati all’economia (53,5 per cento) sorpassi nuovamente quella degli interessati (46,5 per cento) – quando investono i capifamiglia riferiscono come priorità assoluta delle scelte la ‘sicurezza’ di non perdere il capitale (58,3 per cento nel 2016, 52 per cento nel 2015 e appena il 23,8 per cento nel 2011). Solo a seguire vengono il rendimento (15 per cento), la liquidità (14 per cento), nonché l’apprezzamento del capitale nel lungo termine (7 per cento).

Il risparmio gestito si fa avanti, sottraendo spazi agli investimenti diretti, sui quali è sempre più complicato assumere decisioni. Il tradizionale investimento con il quale gli italiani hanno difeso i risparmi, traendo peraltro buoni rendimenti, è il titolo obbligazionario, con i titoli di Stato in cima alle preferenze. Tuttavia, da metà del 2015 le condizioni sono cambiate. Con l’obiettivo di contrastare la deflazione, la BCE acquista obbligazioni con operazioni di mercato: ne deriva che questi titoli aumentano di prezzo, mentre scende il loro rendimento. Tale manovra è favorevole ai possessori di obbligazioni comprate in precedenza, ma ha ridotto a circa l’1 per cento o meno ancora il rendimento medio dei rinnovi e dei nuovi acquisti di titoli di Stato. È comprensibile, pertanto, la riduzione del possesso di questi strumenti, che passa dal 21,7 per cento del campione nel 2012 al 14 per cento nella rilevazione dei primi mesi del 2016. A fronte della riduzione dei possessori di obbligazioni, l’Indagine del 2016 segnala un aumento delle preferenze per gli strumenti del risparmio gestito. Nel corso del 2015 i patrimoni complessivamente gestiti passano da 1,59 miliardi di euro a 1,83 miliardi (Assogestioni). Il 24 per cento degli intervistati dichiara di seguire questa opzione per ‘poter affidare i propri risparmi a esperti e non pensarci più, semplificandosi la vita’; per il 21,9 per cento degli investitori, con il risparmio gestito si possono avere rendimenti migliori rispetto al ‘fai da te’. Si riduce nel tempo il fenomeno del via-vai dagli investimenti gestiti, che diventano veri compagni di viaggio di lungo termine. L’incrocio tra la priorità della sicurezza e l’estrema volatilità dei mercati azionari, che in ultima analisi non crescono più e sono privi di una direzione dalla fine del 2014, ha accentuato la disaffezione verso il mercato azionario da parte del campione. Solo il 5,3 per cento dichiara di aver comprato e/o venduto azioni negli ultimi cinque anni, una quota che è in declino costante dal 2003, quando era del 31,9 per cento.

I tassi a zero guidano la preferenza per la liquidità, ma la loro persistenza potrebbe preludere a cambiamenti delle preferenze degli investimenti, sacrificando la liquidità ma non la sicurezza. Poiché i rendimenti delle attività meno liquide sono quasi a zero, la quota di patrimonio detenuto in forma liquida sul conto corrente bancario è alta. Quasi un intervistato su 5 del campione generale (18,4%) mantiene liquide tutte le proprie disponibilità, il 9,1% più della metà e un altro 9% oltre il 30%.
La persistenza dei tassi a zero potrebbe tuttavia preludere proprio al sacrificio della liquidità nella ricerca di investimenti alternativi, come quelli immobiliari.

Tassi bassi e volatilità, si ritorna al mattone.

Un extra sondaggio di 567 piccoli investitori sugli impieghi del denaro quando i tassi sono a zero. Innanzitutto, le condizioni di tassi di interesse nulli appaiono singolari per i piccoli risparmiatori, perché si verificano per la prima volta dal 1959: non c’è quindi memoria né esperienza di questo tipo di mercato. In secondo luogo, la guidance della BCE prevede che il contenimento dei rendimenti durerà fino a quando sarà necessario contrastare la deflazione. In terzo luogo, i tassi a zero e minimi riguardano sia i rendimenti degli attivi finanziari (come obbligazioni e depositi), sia il costo del capitale dei passivi finanziari (come gli interessi sui mutui e sui prestiti in generale). A partire da queste considerazioni, nel 2016 l’Indagine è stata arricchita da un supplemento di campionamento su 567 risparmiatori fra i 29 e i 55 anni che detenessero anche qualche forma di investimento. Attraverso la Doxa, è stato sottoposto loro un diverso questionario, volto a sondare i comportamenti di investimento nella persistenza del clima di deflazione e di interessi nulli o minimali, con particolare riguardo alla propensione al passaggio dagli investimenti finanziari a quelli reali, come le case.

Con i tassi zero, case e depositi liquidi polarizzano gli investimenti. Il campione ha fornito indicazioni chiare. Posti di fronte al caso degli interessi a zero (o quasi) per più anni, gli intervistati hanno risposto con intenzioni di comportamento polarizzate, in quanto concentrate essenzialmente su due scelte: la scelta della liquidità (che riguarderebbe il 32 per cento degli investitori) e la scelta dell’investimento immobiliare (il 29 per cento considererebbe l’acquisto di una casa per sé e il 20 per cento l’acquisto di una casa da dare in affitto). I primi sarebbero mossi dall’intenzione di non perdere né guadagnare denaro con investimenti più rischiosi e dall’aspettativa che i tassi a zero prima o poi finiranno, e quello sarebbe il momento giusto per riprendere a investire. I secondi, invece, manifesterebbero la propria preferenza per un potenziale acquisto immobiliare, mossi però non solo da variabili economiche, ma anche da bisogni rimasti irrisolti o semplicemente dall’ambizione, sempre viva negli italiani, di una casa migliore di quella che si possiede. A differenziare i due gruppi di investitori, ai poli opposti delle possibili scelte (totale liquidità e totale illiquidità), sono prevalentemente l’aspetto del reddito e il possesso di risparmi accantonati superiori a un anno intero di redditi netti. Questi ultimi sono fattori che aumentano la propensione all’investimento reale.

Le scelte più rischiose e alternative sono marginali. Solo una parte ridotta del campione di piccoli investitori, l’8 per cento, reagirebbe ai tassi a zero aumentando l’esposizione rischiosa, ossia comprando azioni, cambi e derivati. Si tratta di un atteggiamento coerente con la teoria economica: infatti, il cambiamento delle combinazioni di rischio e rendimento possibili sul mercato e, in particolare, l’abbassamento dei rendimenti su tutto lo spettro dei rischi non cambia la disponibilità a perdere parte del denaro investito, poiché questa variabile non dipende dal mercato, bensì dal reddito, dal patrimonio e dalla psicologia del singolo investitore. Cambiare ‘habitat’ di rischio solo perché cambiano le condizioni di mercato può facilmente rivelarsi una mossa scorretta, ex post. Infine, il 12 per cento acquisterebbe oro e preziosi e il 4 per cento comprerebbe opere d’arte. La ricerca di rendimenti alternativi in queste classi di investimento è minimale e mossa da contesti economici e comportamentali diversi. Chi si rivolge all’oro evidenzia un fondo, anche se non ben espresso, di paura e sfiducia generale nei mercati finanziari (‘dopo gli interessi a zero, chissà cosa potrà accadere?’). Tra l’altro, questo mood tende a riaffiorare in tutte le classi di risparmiatori, perché alcuni indizi rivelano che, mentre le persone percepiscono il calo dei prezzi (a eccezione dei servizi sanitari e di poche altre cose, come le bollette domestiche), è altresì diffusa la sensazione che i prezzi, quando salgono, lo facciano più di quanto viene misurato dalle statistiche ufficiali. Chi si rivolge all’arte (4 per cento) ha in genere un patrimonio complesso e ben diversificato e coglie l’occasione dei rendimenti a zero per acquistare un’opera d’arte essenzialmente perché il costo opportunità si è momentaneamente ridotto.

Le case: il mercato che gli italiani conoscono meglio. I piccoli investitori si rivolgono alle case anche perché questo è il mercato dei beni di investimento che essi direttamente conoscono meglio, e al quale probabilmente sono più interessati. L’informazione è pur sempre un elemento che mitiga il rischio degli investimenti, visto che rende più consapevoli le scelte in proposito. Ben il 46 per cento degli intervistati dichiara di conoscere il mercato delle case e di informarsi regolarmente sui suoi prezzi. Dietro al mercato immobiliare si collocano, distanziati, il mercato obbligazionario (che è seguito dal 33 per cento del campione), poi la Borsa (24 per cento) e il mercato dell’oro (19 per cento).

La ricerca delle case corrisponde anche a una ricerca di rendimenti. Tornando alla propensione all’acquisto di immobili, chi vi si vorrebbe avvicinare (e non ha ancora deciso) ha un profilo chiaro. In generale, ha da parte investimenti liquidi o liquidabili pari a più di un anno del suo reddito (48 per cento). Ha realizzato, inoltre, che il mercato dei beni d’uso quotidiano è deflattivo, concorrendo a schiacciare i rendimenti di lungo termine del risparmio investito in forme finanziarie. Ciò però non è compatibile con l’aspirazione a ottenere dai propri investimenti, in media, un profitto medio annuo del 2,6 per cento nei prossimi cinque anni. Ecco dunque che tra le motivazioni per cui ‘acquistare un immobile potrebbe essere vantaggioso’ primeggiano considerazioni economiche, ossia la convinzione di investire in un ‘bene di riferimento’, che conserva il suo valore nel tempo (25 per cento), seguito dalla possibilità di ‘approfittare del momento di prezzi bassi’ (17 per cento) e dal fatto che il reddito dell’immobile, ossia l’affitto incassato o risparmiato, è superiore a quanto può offrire la banca o un’obbligazione (13 per cento). Il 19 per cento, inoltre, pensa che i prezzi delle case aumenteranno nei prossimi anni e il 14 per cento mira, così facendo, ad approfittare di buone e singolari condizioni sui mutui.

Gli acquirenti potenziali di una nuova casa sono tra l’11 e il 19 per cento del campione.
Le variabili economiche non esauriscono le ragioni per investire in un immobile. Chi ne sta considerando l’acquisto ha spesso l’ambizione di una casa migliore (43 per cento) o il bisogno effettivo di un’abitazione più grande (29 per cento). Gli acquirenti potenziali nei prossimi tre anni (che sono compresi tra l’11 e il 19 per cento del campione) userebbero prevalentemente la nuova casa per sé, considerandola come un bene da godere e magari da tramandare ai figli. Una quota fino all’8 per cento del campione potrebbe cambiare casa e prenderla in affitto, anche se i giudizi positivi sugli affitti sono un terzo del totale, dunque inferiori ai giudizi negativi. Cosa trattiene gli acquirenti? Per il momento gioca da freno la debolezza convalescente del mercato secondario, ossia il timore o di non riuscire a liquidare l’attuale propria casa o di ricavarne un prezzo insufficiente per fare il salto di qualità. In altri termini, mano a mano che il mercato immobiliare sarà più liquido e si accorceranno i tempi di vendita delle case usate, la domanda potenziale di nuove case si trasformerà in domanda effettiva.

Una seconda casa in vista per il 9 per cento del sovracampionamento. La ripresa in corso del mercato delle abitazioni è reale, ma si sviluppa a ritmo ridotto. Anche per le seconde case il clima starebbe cambiando. Le intenzioni di acquisto nei prossimi tre anni riguardano il 9 per cento degli investitori, consapevoli che la seconda casa non è però quasi mai un buon investimento. Prova ne sia che il 74 per cento di essi ha un’opinione positiva del possesso della seconda casa, ma solo il 22 per cento, ossia meno di uno su tre, la considera vantaggiosa in termini economici.

Investire in case da dare in affitto conviene, ma non troppo. Le case, che la deflazione fa tornare al centro dell’ambizione di una quota significativa di piccoli investitori, sono non solo quelle da abitare, ma anche quelle da dare in affitto. Con la discesa a zero degli interessi, il reddito degli affitti torna competitivo. La quota di investitori propensi a comprare una casa da locare (20 per cento) è inferiore a quella degli investitori propensi a comprare una casa da abitare (29 per cento), ma rappresenta pur sempre un quinto del campione, ossia una quota maggiore di quella degli attuali possessori di obbligazioni. Gli ostacoli alla messa in pratica di quest’ultima idea non mancano e riguardano quasi sempre la selezione degli inquilini, che è ovviamente un’incognita. Secondariamente, vi è la questione fiscale. Le case da locare sono per definizione ‘seconde case’ e ne seguono in larga parte i destini fiscali, dall’imposta di registro piena, all’IMU, alla non deducibilità delle spese di ristrutturazione.

Il ‘fisco sotto l’albero’: il 41 per cento dei piccoli investitori è congelato dalle condizioni fiscali.
Il 59 per cento del campione, se potesse chiedere qualcosa al fisco, propenderebbe per un riequilibrio delle imposte tra quelle sulla casa e quelle gravanti sulle altre forme di patrimonio. Questa propensione, maggioritaria, non è però necessariamente collegata a imminenti operazioni immobiliari e risponde più a una domanda di equità fiscale rispetto alla tassazione del patrimonio. V’è da ricordare che il Governo è già venuto incontro a queste istanze alleggerendo la tassazione per quanto riguarda la prima casa. Sono però da osservare e sottolineare le istanze del restante 41 per cento del campione. Queste istanze, infatti, preluderebbero a operazioni immobiliari e danno un’idea della domanda potenziale ‘congelata’ nel settore delle abitazioni. Il 14 per cento del campione vorrebbe trovare sotto l’albero un abbassamento dell’imposta di registro per case da dare in affitto; il 13 per cento vorrebbe un credito di imposta per vendere e riacquistare una casa, prima o seconda, nel corso dello stesso anno; il 9 per cento vorrebbe dedurre il mutuo sulla seconda casa da dare in affitto; il 6 per cento vorrebbe dedurre il mutuo su una seconda casa da tenere per sé. La propensione all’acquisto di case potrebbe essere decisamente più alta di quella dichiarata (tra l’11 e il 19 per cento), se si alleggerisse il peso fiscale sull’investimento immobiliare”.

(Fonte: www.group.intesasanpaolo.com, “Presentata oggi a Torino da IntesaSanpaolo e dal Centro studi Einaudi l’indagine sul risparmio e sulle scelte finanziarie degli italiani 2016”, 21 luglio 2016).

Oltre 5 milioni gli utilizzatori in Italia di e-coupon

Secondo i dati emersi dalla “e-Coupon Consumer Survey” realizzata da Kiwari solo il 19% degli italiani è fedele agli stessi prodotti, senza lasciarsi influenzare dagli sconti a fronte di un 48% che invece si dichiara sensibile al prezzo finale e alle formule promozionali.

Tutti pazzi per i coupon quindi? Sembrerebbe di sì, soprattutto se si trovano online. Non solo il 61% dei consumatori dichiara di conoscerli, ma oltre 5 milioni di persone, circa il 20% dei navigatori italiani, li ha utilizzati almeno una volta negli ultimi 12 mesi, tanto che nel 2013 la loro diffusione ha subito un incremento del 400% rispetto all’anno precedente.

Cambia anche il modo di comporre la lista della spesa. Dal classico check della dispensa si passa a pc e smartphone per consultare volantini e siti di comparazione prezzi, ma soprattutto per cercare buoni sconto da stampare. Spopolano dunque siti come Sconty, piattaforma per la distribuzione di coupon digitali, le cui proposte sono veicolate anche da portali come alfemminile, risparmiosuper, scontomaggio e dimmicosacerchi, che insieme danno vita al più importante coupon network in Italia, che conta più di 100.000 utenti registrati che hanno stampato in nove mesi oltre 1 milione di buoni sconto.

L’impegno di questo nuovo modello di consumatore non si esaurisce con la ricerca di sconti e offerte. La parola d’ordine è “controllo” ed inizia tra le mura domestiche proseguendo poi tra gli scaffali. Durante lo shopping infatti oltre il 12% degli italiani controlla il prezzo dei prodotti sullo smartphone e alla cassa addirittura l’74% verifica immediatamente che tutti gli sconti a scaffale, le promozioni e i buoni sconto vengano effettivamente registrati.

Conquistare i consumatori prima che inizino il loro percorso tra le corsie dei supermercati è diventata la sfida da vincere per marche e insegne, impegnate nella ricerca di nuove leve promozionali e strumenti innovativi che escano dal punto vendita per coprire l’ultimo miglio e difendere le proprie quote di mercato. Sono sempre più numerosi i brand che scelgono il couponing per promuovere i prodotti e sostenere il sellout, con un incremento degli investimenti dell’11% registrato nel 2013, e che per il 2014 si stima supererà il 40%.

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