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La sostenibilità dei prodotti a marchio crea reputazione per il retail alimentare

Quanto pesa la sostenibilità sulla reputazione delle marche e del retail alimentare? Una risposta significativa è arrivata da Gian Marco Stefanini di Web Research che, nel corso di Green Retail Forum, ha presentato i risultati di una ricerca effettuata sulle conversazioni nella rete, analizzando per un periodo di 36 mesi con un complesso sistema di algoritmi 670 milioni di pareri generici sulle marche industriali (MI), di cui 59 milioni riguardanti la sostenibilità, 172 milioni pareri sulle marche del distributore (MP), di cui 80 milioni riguardanti la sostenibilità. Sono state menzionate 157 linee di marche private riguardanti 16 insegne selezionate.

Da questa grande massa di dati, l’8,5% dei pareri lasciati in rete sulle marche industriali è riconducibile alla sostenibilità, mentre lo è il 46,6% di quelli sulle marche private. Solo questa prima rilevazione mostra la distanza tra i due ambiti, nonostante la quota di mercato delle marche private in Italia sia inferiore al 20%.

I netsurfer che esprimono pareri sono peraltro sufficientemente informati. Il 91% ha un’elevatissima consapevolezza del fatto che la marca privata indica il distributore ma non il produttore; il 90% sa che i produttori di marche private sono spesso leader di mercato e vendono referenze analoghe con etichetta propria presso le stesse insegne e l’88% riconosce l’appartenenza di marche private alla catena anche quando il nome non coincide.

«Tutto questo – afferma Stefanini – genera una reciprocità tra l’accrescimento dell’immagine che le marche private porta all’insegna proprietaria e quella che la stessa insegna della Gdo porta alla propria marca privata».

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Le oscillazioni del giudizio sulla sostenibilità.
Confrontando le categorie dei prodotti a marchio del distributore con quelle delle MI, senza “pesarle”, possiamo individuare quali categorie di prodotto connotano la sostenibilità e quali la erodono.

Primo risultato di una certa evidenza: «Possiamo dire – sottolinea Stefanini – che la reputazione sostenibile delle MP è il triplo della reputazione sostenibile delle MI, stando al popolo del Web».

giudizio sostenibilità

Approfondendo l’analisi e pesando il giudizio di ogni categoria di prodotto delle MP e delle MI per il volume dei pareri stessi, se ne ricava il valore di reputazione globale ponderata (MP/MI) per ciascuna delle insegne selezionate.

In questo caso i dati mostrano quali sono le categorie di prodotti che, pesate per popolarità, presidiano o no l’immagine di sostenibilità.

Se ne ricava che la reputazione sulla sostenibilità della MI è sostanzialmente neutra mentre quella delle MP ha un saldo decisamente positivo.

giudizio sostenibilità ponderata

«Tuttavia – annota ancora Stefanini – per quanto riguarda i prodotti alimentari a MI rispetto alla medesima rilevazione fatta l’anno scorso, i giudizi positivi (55,3%) sono calati del 2,5% e quelli negativi (42%) sono aumentati del 2,7%. Possiamo quindi ipotizzare che la sensibilità dei consumatori nei confronti della sostenibilità, almeno per quanto riguarda i prodotti alimentari a MI, sia consistente ma che la MI non stia sufficientemente tenendo il passo».

Come si muovono invece le marche del distributore?
«Sebbene i consumatori scrivano in rete molti più pareri riguardo ai prodotti a MI rispetto a quelli appartenenti alle MP, quando scrivono di sostenibilità, i pareri più numerosi sono, non solo in percentuale rispetto al proprio totale ma anche in termini assoluti, quelli riguardanti le MP. In buona sostanza, la sostenibilità è uno dei principali elementi caratterizzanti le MP.

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Peraltro non va sottovalutato il caso che chi scrive in rete di sostenibilità lo fa con maggiore competenza e in ambienti maggiormente specializzati quando giudica le MP più che le MI. Di sostenibilità delle MP parlano soprattutto gli esperti, intesi comunque non come addetti ai lavori, (che abbiamo escluso per scelta metodologica), ma come bene informati/appassionati».

Qual è il profilo di questi netsurfer?
I naviganti che nel web domestico scrivono sul rispetto della sostenibilità da parte delle MP sono prevalentemente donne, di fascia di età giovane media, digitano in prevalenza dal Nord, dalle aree metropolitane e urbane. Il concetto di sostenibilità delle MP non è uniformemente diffuso a livello socio demografico.

Tuttavia, anche limitatamente alle sole MP, la sostenibilità è il primo driver di acquisto solo per le linee dedicate.

Carne di maiale contaminata in UK: troppi antibiotici negli allevamenti europei

Si chiama MRSA, Staphylococcus aureus resistente alla meticillina, la più recente emergenza sanitaria europea proveniente dal mondo animale. È un superbatterio resistente agli antibiotici che sta dilagando negli allevamenti di suini del nord Europa. Infettando non solo chi lavora a contatto con i suini, ma anche i prodotti che arrivano sugli scaffali della GDO. In Danimarca alcuni test hanno evidenziato come il 20% dei prodotti suini sarebbero contaminati, nel Regno Unito in un test promosso dal quotidiano Guardian ed effettuato da un’Università danese, su 100 prodotti prelevati dalle principali catene britanniche 9, venduti da Co-operative, Sainsbury’s, Tesco e Asda, sono risultati contaminati dal batterio MRSA.
Il problema sanitario va ben oltre le eruzioni cutanee anche gravi che alcune persone hanno sviluppato (in genere lavoratori di allevamenti, ma non solo), e la contaminazione dei prodotti che secondo le autorità sanitarie non sarebbero direttamente legati allo sviluppo della malattia, e riguarda la resistenza agli antibiotici, che secondo l’OMS, organizzazione mondiale della Sanità, entro il 2050 potrebbe provocare più morti dei tumori, causate da infezioni non più curabili dai farmaci che oggi usiamo, e che sono utilizzati pesantemente negli allevamenti. La drastica riduzione del loro utilizzo è l’unico modo per arginare il problema.

Da qui l’idea di alcune associazioni di applicare un’etichetta sulla carne in vendita che certifichi l’assenza di somministrazione di antibiotici durante la vita dell’animale. Un mezzo che segnalerebbe, indirettamente, un allevamento più sano e sostenibile. Secondo alcuni attivisti però la creazione di un’etichetta “non trattato con antibiotici” rischierebbe di creare un’oasi protetta (un po’ come il biologico) per carni a prezzi rialzati, mentre la maggior parte dei consumatori continuerebbe ad acquistare prodotti low cost, senza affrontare direttamente il problema. Non sarebbe tanto l’uso di farmaci, quando necessari e se prescritti da un veterinario, che andrebbe sanzionato, ma il loro impiego indiscriminato e preventivo “a pioggia” su tutti gli animali diffuso negli allevamenti intensivi, sovraffollati e dove le condizioni igieniche sono estremamente carenti.

Il problema non è evidentemente arginato al Nord Europa, per due motivi. Innanzitutto, la metà delle carni suine utilizzate in Italia è importata. Inoltre, come ha detto al Guardian Dan Jørgensen, ex ministro dell’agricoltura danese, “ogni Paese con allevamenti di suini ha questo problema: solo che non sanno quanto sia grande”. E l’Italia non è certo esente dall’uso massiccio di antibiotici, segno che esistono problemi sanitari, spesso derivati da condizioni di allevamento insostenibili, come quelle denunciate da Animal Equality in alcuni allevamenti del nord Italia. È la stessa ministra della Salute Beatrice Lorenzin a dichiarare che “Il dato sull’uso degli antibiotici è alto nei nostri allevamenti”. Il ministero ha anche fornito questi dati: oltre 10 milioni di suini sono allevati nel nostro Paese e 137.851 sono gli allevamenti di maiali censiti. Infine, all’Italia è stata assegnata la “maglia nera” nella resistenza agli antibiotici, causata da un loro uso spesso indiscriminato, nell’uomo e negli animali. La resistenza all’MRSA, in particolare, in Italia ha percentuali da primato europeo, superiori al 38%.

Il regolamento europeo entrato in vigore ad aprile che obbliga ad indicare in etichetta anche della carne suina, ovina, caprina e avicola la nazione d’origine, oltre al nome dello stato dove è stato allevato e macellato l’animale, è certamente un passo avanti, ma il problema vero è che gli allevamenti infetti non sono tracciati in alcun modo. Due giornalisti danesi che hanno investigato sull’industria della carne suina sono stati denunciati per “violazione della privacy”. Non solo, l’etichettatura dell’origine non riguarda le carni lavorate come i salumi.

Un problema, quello degli allevamenti intensivi e dell’uso di antibiotici, che riguarda non sola la carne suina ma anche quella avicola. Secondo il rapporto ECDC/ EFSA/ EMA 2015 in Italia consumiamo per uso animale tre volte la quantità di antibiotici della media europea.

Il ritorno ad allevamenti più “artigianali” e “umani”, che tengano conto della salute e – per quanto possibile – del benessere degli animali, e diminuiscano le probabilità di ammalarsi sarebbe secondo molto la soluzione. Un passo che porterebbe ad avere una carne sicuramente più cara, ma presumibilmente più sana. Sullo sfondo, c’è un consumatore sempre più preoccupato della salute e dell’origine della carne che acquista, come rivelato da una ricerca SWG recentemente pubblicata (vd I consumatori e la carne in un’indagine Swg a Eurocarne).

 

#Obbligo_prodotto_dove, la Gdo entra in azione: raccolta firme per l’obbligo del luogo di produzione

Da sinistra: Beniamino Casillo, Vito Gulli, Raffaele Brogna, Mario Gasbarrino, Domenico Canzoniero, Eleonora Graffione, Francesco Pugliese, Giorgio Santambrogio

Un passo avanti nella battaglia per ripristinare l’obbligo di indicazione del luogo di produzione sulle etichette dei prodotti alimentari è stato compiuto nel corso del tavolo di lavoro durante il Green Retail Forum a Milano.

L’amministratore delegato di Unes Mario Gasbarrino, di Végé Giorgio Santambrogio ed Eleonora Graffione, presidente di Coralis si sono dichiarati d’accordo ad appoggiare la proposta espressa dall’amministratore delegato di Conad Francesco Pugliese sul dar luogo a una raccolta di firme, coinvolgendo i cittadini-consumatori nella abolizione di una «legge scellerata».

Ecco nelle parole di Pugliese la proposta, alla quale hanno aderito anche i due rappresentanti dell’industria presenti: Vito Gulli, amministratore delegato di Generale Conserve, che da tempo si batte – uno dei pochi, se non il solo, nel mondo industriale – contro questa stortura e Beniamino Casillo di Casillo Group.

Nel corso dell’incontro sono stati affrontati i temi chiave che stanno dietro a questa battaglia che, ricordiamolo, nasce dall’entrata in vigore a metà dicembre scorso del Regolamento europeo 1169/11 riguardante l’etichettatura dei prodotti alimentari che ha introdotto l’indicazione degli allergeni, la esatta composizione degli ingredienti (il caso dell’olio di palma è deflagrato proprio per questo motivo) con l’obiettivo di una maggiore informazione dei consumatori, ma ha reso facoltativa l’indicazione del luogo di produzione.

«Si tratta di una vera istigazione alla delocalizzazione – puntualizza Vito Gulli – e sul tema l’industria si è dimostrata miope. Inoltre ha generato una confusione che non fa bene a nessuno, perché la questione dell’etichetta si è sovrapposta al dibattito sull’origine della materia prima. Sgombriamo il campo da questa confusione. Sono due cose completamente diverse. Non nego però che la battaglia per la trasparenza porti con sé un rischio di nazionalismo, leghismo, salvaguardia dell’italianità: quel che conta è la trasparenza. Non solo. Qualcuno potrà dire che l’obbligo dell’indicazione dello stabilimento di produzione (peraltro condensato in una stringa di sei cifre) è salvo, ma non è la stessa cosa del luogo di produzione».

La battaglia della distribuzione, che peraltro indica il luogo di produzione sui prodotti a marchio, guarda avanti. Spiega infatti Mario Gasbarrino «Il motivo per cui dobbiamo intervenire non riguarda l’oggi, ma può succedere, e dobbiamo aspettarcelo, che qualsiasi nuovo proprietario straniero di un’azienda italiana possa decidere di lasciare la sede legale in Italia e produrre all’estero un prodotto connotato con un marchio italiano, che è sempre stato prodotto in Italia e come tale è conosciuto dai consumatori. Noi vogliamo che sia salvaguardata la trasparenza nei confronti dei cittadini consumatori. Poi saranno loro a decidere di acquistare un prodotto perché è fatto in Italia o un altro anche se non viene prodotto in Italia. Ma la trasparenza è fondamentale».

Non mancano le iniziative dei singoli distributori, come la stessa Unes che visualizza sull’etichetta a scaffale l’origine di produzione dei prodotti a marchio («ma stiamo pensando di estenderlo anche all’industria di marca», chiosa Gasbarrino) o Coralis, che con Etichètto segnala una selezione di prodotti di marca nati e prodotti in Italia.

Assordante il silenzio al riguardo delle associazioni di categoria dell’industria ma anche della distribuzione. Ne rende conto Raffaele Brogna che con Io Leggo l’etichetta ha dato vita prima che scoppiasse il caso a una raccolta di firme online e ha sollecitato la firma la distribuzione che ha aderito in gran numero a livello di insegna, mentre «ci sono stati tanti silenzi da parte delle associazioni e delle singole imprese industriali». In realtà la posizione dominante tra le imprese industriali, in qualche modo recepita dal Mise e dal Mipaaf, è che occorre lavorare in modo che l’obbligo di indicazione valga per tutti i paesi europei. Che è un tipico atteggiamento italiano per non affrontare un problema aprendo un’altra questione che darà origine a altri tavoli di discussione.

Sulle rappresentanze della distribuzione il pressing è forte, ma per ora non c’è una presa di posizione. La determinazione dei quattro retailer presenti all’incontro però è forte così come la consapevolezza di rappresentare, in quel contesto, la gdo italiana. Poi, quando partirà la raccolta di firme, probabilmente la compagine crescerà.

Parte da Torino il progetto Salsamenteria del quartiere, la salumeria 3.0: vicinato sostenibile

Dieci strutture a Torino di proprietà, recuperate da spazi commerciali chiusi da anni: è partito così, a febbraio di quest’anno, il progetto Salsamenteria del quartiere. Batir Spa [finanziata da Figerbiella Spa, che partecipa per il 75%, e da Roberto Gualco e altri investitori, ndr] è partita con un’idea: ripopolare la città di negozi di alimentari. Adattati però alle esigenze dei consumatori, pardon “clienti”, del Terzo Millennio. Il progetto è ambizioso, e prevede una prima fase di espansione a Torino, con altri 25 negozi, e poi lo spostamento in altri grandi centri urbani, con l’obiettivo di aprire punti vendita in tutta Italia.

Chiara Priotti Ci facciamo spiegare la filosofia delle Salsamenteria [dalla Treccani: Pizzicheria, salumeria] da Chiara Priotti, responsabile del personale e delegata per la comunicazione e il marketing di Batir.

Cosa si trova nei punti vendita della Salsamenteria?

Una selezione di prodotti italiani, ove possibile della zona. Acquistiamo direttamente dai produttori, saltando gli intermediari in modo da garantire prezzi migliori. Abbiamo un agronomo che seleziona i prodotti e verifica che non vi siano ingredienti “non graditi” come olio di palma, conservanti o additivi. Il magazzino è a Santena e da qui la merce è smistata ai negozi con consegne giornaliere, con l’eccezione dei latticini che sono consegnati direttamente in negozio.

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A chi vi rivolgete?

Essenzialmente alle persone del quartiere. Vogliamo abbandonare il concetto di consumatore considerato come un numero a cui vendere il più possibile, e instaurare un rapporto diretto tra i commessi e il cliente che viene a fare la spesa. Per questi i commessi, due per negozio, tutti giovani, sono stati formati con un corso di due mesi e costantemente aggiornati sui prodotti che vendono e le lavorazioni, con visite presso i fornitori. Pensiamo che ci sia voglia di un commercio diverso dalla spersonalizzazione della GDO, che molte persone non gradiscono più. Abbiamo notato una prevalenza di anziani e famiglie con bambini, attenti all’alimentazione e alla provenienza dei prodotti.

Qual è la vostro politica di prezzi?

In linea con la GDO, a parità di qualità: non siamo Eataly! Le nostre iniziative promozionali sono volte a far conoscere determinati prodotti, con sconti anche del 25/30%, anche perché non teniamo grandi marche. Siamo contrari all’accumulo, proponiamo una spesa quotidiana che consenta di avere prodotti sempre freschi ed evitare sprechi. Abbiamo anche biologico ma non in esclusiva, non siamo un negozio bio.

Come si presenta un negozio della Salsamenteria?

Abbiamo cercato di riqualificare strutture preesistenti, negozi di alimentari chiusi da tempo, ristrutturandole. Sono spazi di circa 100 mq. All’interno abbiamo una cartellonistica semplice che spiega la nostra filosofia e la scelta dei prodotti. Il nome varia a seconda della via.

Che ruolo ha la tecnologia nel vostro progetto?

Il gestionale per le casse e il magazzino è un software open source adattato alle nostre esigenze. Non facciamo e-commerce ma le consegne sono previste nel prossimo sviluppo della catena. La pagina Facebook è aggiornata non solo con novità di prodotto ma anche con eventi della città e del quartiere, in un’ottica di servizio. Nei negozi abbiamo installato dei frigoriferi con il motore esterno all’area di vendita, per evitare l’inquinamento acustico ed elettromagnetico.

Come sono andati questi primi mesi?

Abbiamo dovuto farci conoscere; ora dopo una campagna pubblicitaria su “la Stampa” siamo più noti. Abbiamo fidelizzato molti clienti, che tornano dopo aver capito la nostra filosofia e la coerenza dell’offerta. Frutta e verdura di stagione (tra cui gli asparagi di Santena), farina del molino Bongiovanni macinata a pietra, sughi e conserve senza additivi, pane fatto con lievito di pasta madre della cooperativa sociale Articolo 1 (che dà lavoro a persone in difficoltà) e dal carcere di Torino. A breve entreranno nell’assortimento anche i detergenti ecologici, i libri della casa editrice Giunti e la gastronomia.

 

Heineken sceglie la logistica ecologica di Pgm, consegna merci a emissioni zero

La logistica ecologica è non solo un impegno che ogni azienda dovrebbe affrontare all’interno delle pratiche di responsabilità aziendale, ma anche una necessità data la presenza sempre più diffusa nelle aree urbane di Ztl, zone a traffico limitato. Heineken Italia ha scelto PGM Logistica, azienda di distribuzione beverage operante a Bergamo e provincia con mezzi elettrici, per effettuare consegne “ad emissione zero” nell’area coperta. La multinazionale della birra a partire dal 2011 ha avviato diverse iniziative volte a ridurre le emissioni di CO2 prodotte dalle attività logistiche, sviluppando in particolare l’intermodalità e scegliendo mezzi sempre più ecologici.

Pgm dispone al momento di un furgone Nissan e-NV200 a zero emissioni, cui presto se ne aggiungeranno altri (si prevede di arrivare a 30 veicoli nei prossimi tre anni), per le consegne dell’ultimo miglio (per la distribuzione delle merci a Milano e a Bergamo, a partire dalle ZTL del centro e in Città Alta). Una colonnina per la ricarica è già attiva nel piazzale dell’azienda, e a breve entrerà in funzione un impianto fotovoltaico capace di azzerare i costi di carburante dei mezzi della PGM ma anche totalmente le sue emissioni di CO2.
L’azienda è certificata UNI EN ISO 9001 e registrata alla piattaforma internazionale ECOVADIS, società che opera nel campo della valutazione, il monitoraggio e la certificazione delle catene di approvvigionamento globali, con il fine di migliorare le politiche ambientali e migliorare le performance di sostenibilità..

Allarme da Greenpeace: nei meleti europei un cocktail di pesticidi

Greenpeace ha pubblicato il rapporto sulla presenza di pesticidi nei meleti europei dal titolo Il gusto amaro della produzione intensiva di mele. E le notizie non sono propriamente buone per i consumatori.

Il rapporto presenta i risultati delle analisi di 85 campioni di acqua e suolo prelevati in dodici Paesi europei, tra cui l’Italia (in Val di Non e in Valtellina, due tra le zone di maggiore produzione di mele) ed esempi di pratiche agricole ecologiche per effettuare una produzione sostenibile senza contaminare il suolo e l’acqua.

36 campioni di acqua e 49 di suolo sono stati raccolti durante i mesi di marzo e aprile 2015 in meleti a gestione convenzionale e analizzati per verificare la presenza di residui di pesticidi. I campioni rappresentano una “fotografia” della situazione all’inizio del periodo della fioritura.

Su 85 campioni, sono stati rilevati 53 pesticidi differenti. Il 78 per cento dei campioni di suolo e il 72 per cento dei campioni di acqua contenevano residui di almeno un pesticida.

Il pesticida riscontrato con maggior frequenza nel suolo e nelle acque è il fungicida boscalid (presente nel 38 per cento dei campioni di suolo e nel 40 per cento dei campioni di acqua). Addirittura sette dei pesticidi trovati non sono attualmente approvati nell’Ue, ma possono essere utilizzati solo per eccezionali deroghe temporanee. La presenza di questi residui potrebbe essere il risultato di applicazioni pregresse, mentre in un caso potrebbe trattarsi di un fenomeno di degradazione.

Due terzi dei campioni di suolo e acqua prelevati nei meleti europei inoltre contengono residui di pesticidi e il 70% dei pesticidi identificati hanno livelli di tossicità molto elevati per gli esseri umani e per l’ambiente. In un singolo campione di suolo raccolto in Italia sono state rilevate fino a tredici sostanze chimiche diverse, e dieci in un campione di acqua, un vero e proprio cocktail di pesticidi.

Nella seconda parte del documento viene illustrata una selezione di soluzioni sostenibili per la produzione di mele e la loro possibile applicazione senza contaminare il suolo e le acque.

“L’Italia è uno dei maggiori produttori di mele a livello europeo – dichiara Federica Ferrario, responsabile Campagna Agricoltura Sostenibile di Greenpeace Italia –. Abbandonare un modello agricolo fortemente dipendente dai prodotti chimici è fondamentale, anche per proteggere i nostri agricoltori e le loro famiglie, che sono i primi a essere direttamente esposti  L’imponente uso di queste sostanze nella produzione intensiva di mele è un altro fallimento dell’agricoltura industriale”.

Due le richieste di Greenpeace ai Paesi europei. L’eliminazione graduale dell’uso dei pesticidi chimici di sintesi in agricoltura, a partire da quelli che hanno effetti cancerogeni, mutageni o tossici per la riproduzione, che interferiscono con il sistema ormonale (EDC) o che hanno proprietà neurotossiche. Un maggior impegno nel promuovere e investire nella ricerca e nello sviluppo di pratiche ecologiche per la gestione e il controllo dei parassiti che non dipendano dall’utilizzo di sostanze chimiche di sintesi.

“Esistono già soluzioni ecologiche adottate da migliaia di agricoltori in tutta Europa. Per lo sviluppo di queste buone pratiche, è necessario che anche la grande distribuzione faccia la sua parte incentivando il passaggio a pratiche sostenibili” conclude Ferrario.

 

 

Lotta allo spreco e Gdo: cosa stanno facendo le insegne in Europa

Dopo la Francia, potrebbe arrivare anche l’Europa a varare una legge per forzare la grande distribuzione a prendersi cura dei prodotti alimentari scartati perché, per vari motivi, invendibili. Ma molte insegne europee già da tempo hanno intrapreso iniziative interne e campagne di sensibilizzazione per affrontare il tema. Un quadro complessivo delle azioni realizzate sul campo lo fa – con dovizia di case histories – il rapporto 2014 “Retail Agreement on Waste” a cura di Eurocommerce, che raggruppa le associazioni di categoria del Vecchio Continente, e European Retail Round Table.

Le 20 insegne di vari settori, dall’abbigliamento agli alimentari all’arredamento all’elettronica di consumo, hanno aderito nel 2012 al Retail Waste Agreement, impegnandosi a intraprendere entro la metà de 2014 almeno due campagne di sensibilizzazione contro lo spreco rivolte al cliente finale. Recentemente, altre sei insegne hanno firmato lo stesso accordo. L’iniziativa si è svolta all’interno del Retailers’ Environmental Action Programme (REAP) sostenuto dalla Commissione Europea.

Di seguito segnaliamo la tipologia di iniziative intraprese e i filoni coperti. L’intero rapporto è scaricabile qui.

“Dritte” per il consumatore. Ricette per utilizzare gli avanzi, informazioni su come gestire la catena del freddo (a cominciare, banalmente, come fa El Corte Inglès, da come trasportare i surgelati dal pdv a casa, come organizzare gli alimenti nel frigorifero e quanto durano una volta aperti), tramite volantini, house organ, social o cartellonistica in negozio. Asda l’hanno scorso ha lanciato il packaging Simply Roast in the Bag, una busta per pollo arrosto sulla quale erano stampate ricette e consigli su come utilizzare gli avanzi, e un QR Code che rimandava alla pagina web con video e ricette. Albert Heijn ha distribuito un milione di “misurini” per dosare la giusta quantità di pasta e riso. L’olandese Vak Centrum invita i clienti a prendere i prodotti freschi con la data più vicina se sanno che li utilizzeranno a breve: l’abitudine a selezionare il prodotto con la data più estesa aumenta lo spreco.

Il packaging conta. Coop Danimarca ha deciso di vendere banane singole perché il pacco, se contiene anche una sola banana segnata come spesso accade, non è acquistato, e 6mila banane al giorno venivano buttate. Coop Uk ha scoperto che i fori nelle confezioni di fresco per ridurre l’umidità interna, se gestiti da laser guidati da un computer, consentono di allungare la shelf life di un giorno e di ridurre lo spreco. Coop Norvegia ha indicato su sacchetti e confezioni la percentuale di spreco di frutta e verdura, ma anche nei confezionati lo spreco di quel particolare prodotto.

Sensibilizzare lo staff. Il 75% degli impiegati degli uffici centrali di Carrefour in Polonia hanno seguito un programma su come ridurre il carico energetico a casa e al lavoro.

Imparo mentre mi diverto: quiz, giochi, concorsi. Carrefour ha messo online un questionario per determinare il proprio consumo energetico: al primo estratto è andata una lavastoviglie a risparmio energetico. Ikea in Repubblica Ceca ha invitato i clienti a creare oggetti con materiale di scarto. I creatori dei progetti migliori hanno partecipato a un corso tenuto da designer professionisti. Il ricavato della vendita degli oggetti è andato in beneficenza. Molti corsi e concorsi coinvolgono le scuole.

Come ti educo il fornitore. Carrefour Francia ha ideato un premio per il fornitore più virtuoso. La giuria è composta, oltre che da retailer, da ministero dell’Ambiente, WWF e un pool di giornalisti.

Promozioni.. sostenibili. Le classiche promozioni 2×1 sono state messe sotto accusa perché portano il consumatore a comprare di più, aumentando i rischi di spreco specie per alimenti con data di scadenza. Alcune catene hanno deciso di toglierle. Auchan ha intrapreso negli ipermercati francesi una terza via: il 2×1 “dilazionato”. Per una settimana al mese, all’acquisto del primo prodotto si ottiene un buono per ritirare il secondo una settimana dopo. Dei 100mila coupon distribuiti ogni mese la metà è utilizzato.

„Wunderlinge“ bei BILLA, MERKUR und ADEG: REWE International AG stellt neue Eigenmarke für nicht-konformes Obst und Gemüse vorBrutti ma buoni. Billa in Germania ha creato il brand “Wunderlinge” per frutta e verdura di forma anomale ma perfettamente sana.

Economia circolare. Ovvero ciò che è prodotto viene riciclato e riutilizzato. Lidl in Germania ricicla il 50% delle bottiglie in Pet dei suoi marchi Saskia e Freeway. Rewe sta aumentando la percentuale di plastica riciclata e ritira sul posto le confezioni dei prodotti Frosch-Cleaning. Il ristorante olandese Instock utilizza prodotti invendibili (scadenze vicine, packaging rovinati) prelevate con veicoli elettrici dai supermercati Albert Heijn. Dalla scorsa estate ha già “salvato” 20mila porzioni.

 

Ferrero, svolta equosolidale: 100% di cacao certificato entro il 2020

Non è una questione da poco, quando il terzo produttore al mondo di prodotti a base di cioccolato, decide di votarsi al cacao equosolidale. Ne ha parlato Aldo Cristiano, Director cocoa procurement Ferrero, alla conferenza di presentazione dei dati FairTrade Italia tenutasi in Expo. Che anche per il 2014 segnalano una crescita a due cifre: +17,8% il valore del venduto sul 2013, pari a 90 mln di euro.

Un impegno, quello di Ferrero, che copre tutti gli ingredienti principali dei prodotti della multinazionale di Alba, ovvero oltre al cacao (l’azienda ne acquista 4 milioni di tonnellate l’anno, il 3% della produzione mondiale), zucchero di canna, olio di palma, nocciole, uova e latte.

“Oggi siamo al 40% di cacao certificato, superiore alla previsione che avevamo stabilito per fine 2014 del 20%, e sono certo che raggiungeremo questo traguardo nei tempi stabiliti, o anche prima” ha detto Cristiano. La scelta di Ferrero è stata motivata, oltre che dai valori etici e di sostenibilità di impresa, da un fatto incontrovertibile: le pratiche equosolidali, tramite l’educazione dei contadini, permettono di ottenere non solo una resa maggiore dei terreni (in Costa d’Avorio si è passati da 400 a 1000 Kg per ettaro, ma in Ecuador si arriva a 3000 Kg per ettaro), ma anche di garantirne la qualità. “Ad oggi abbiamo formato 60mila contadini, tramite FairTrade o cooperative od enti che sono poi stati sottoposti ad audit”.  La qualità, appunto, è risultata la molla che ha fatto scattare il meccanismo virtuoso. “Dopo il 1999 abbiamo notato un progressivo degrado della qualità e delle proprietà organolettiche del cacao prodotto, ma anche della quantità. Oggi da un terzo a un quarto del raccolto è perso a causa delle malattie, che potrebbero essere evitate usando pratiche agricole corrette”. In altre parole, ci sono ragioni economicamente valide per scegliere un commercio “justo”, come si chiama in spagnolo. “Lo scopo non è la competitività con le altre aziende, ma la soddisfazione delle esigenze dei consumatori” spiega Aldo Cristiano.

Dunque dobbiamo aspettarci a breve una Nutella con marchio Fair Trade? “Non ci interessa avere prodotti “buoni” e altri no, per noi è più importante certificare che il 40% del nostro cacao è equosostenibile, ed è equamente distribuito in tutti i nostri prodotti. E possiamo farlo, perché importiamo le fave di cacao, non semilavorati di cui non è sempre facile tracciare le origini. La trasparenza è fondamentale, ciò che è indicato in etichetta deve essere ciò che c’è nel prodotto” conclude Aldo Cristiano.

Responsabilità sociale d’impresa: Sainsbury’s lancia il customer service per non udenti

Si chiama SignVideo e consente alle persone non udenti di comunicare, via video e con il linguaggio dei segni, gratuitamente. Lo sta testando la catena britannica Sainsbury’s nel suo customer service.

“Siamo orgogliosi del nostro servizio clienti, e parte del nostro lavoro è assicurarci che sia il più facile possibile per tutti i nostri clienti comunicare e ottenere informazioni sul loro punto vendita. Abbiamo già impianti a induzione magnetica per non udenti in tutti i nostri punti vendita e siamo contenti di testare questo nuovo soluzione in modo che sia ancora più facile per i nostri clienti non udenti contattarci quando ne hanno la necessità” ha detto Tim Fallowfield, Company Secretary, Corporate Services Director e Board Champion for Disability and Carers di Sainsbury’s.

La catena è già da tempo intrapreso un percorso per rimuovere gli ostacoli per le persone con disabilità. Nel 2011 ha creato il primo supermercato con segnali in Braille, e ha anche ideato un gioco per non vedenti. È Disability Confident partner del Ministero per le persone diabili britannico.

Les Gueules Cassées, la lotta antispreco che arriva dalla Francia

La lotta contro lo spreco alimentare si fa largo in molti Paesi. Mentre la legge francese che sanziona la distruzione dei prodotti invenduti da parte della distribuzione solleva alcune perplessità, come segnala  Enrico Colla su Tendenzeonline, relative soprattutto al fatto che già oggi la gdo d’Oltralpe ha in atto buone pratiche antispreco, tanto da essere responsabile (solo)  dell’11% degli sprechi, contro il 67% dei nuclei famigliari, dalla Francia si segnala una iniziativa che merita un approfondimento.

base line changé_PASTILLE_OKSi tratta di un sistema anti spreco che si chiama Les gueules cassées (le facce rotte, che potremmo tradurre con “brutti ma buoni”) che si occupa di immettere sul mercato i prodotti (ortaggi, prodotti confezionati, formaggi, ecc) brutti da vedere ma decisamente commestibili. L’iniziativa, finanziata in crowdfuding, è stata fondata da due figli di agricoltori, ha creato una propria etichetta e in soli otto mesi di attività ha venduto più di 10 mila tonnellate di frutta e legumi. Certo, le pere sono un po’ macchiate e le carote e melanzane non sono perfette e non hanno lo stesso calibro, ma sono ugualmente commestibili.

Lo stesso si dica poi del camembert di latte crudo prodotto in Normandia che, per la sua forma non regolare, non può fregiarsi del marchio di denominazione o dei cereali per la prima colazione troppo grandi o troppo piccoli rispetto alla norma. Tutti però hanno un comune denominatore. Costano al consumatore il 30% in meno dei prezzi normalmente esposti. Il che spiega il rapido aumento di notorietà in tutta la Francia e l’inserimento della gamma di questi prodotti nelle maggiori insegne: Carrefour, Leclerc, Monoprix, Franprix, Casino, Spar et Vival.

7778640852_1L’ultima novità sono i prodotti freschi. Con l’etichetta Les Gueules Cassées costano il 50% in meno, rimangono sullo scaffale fino alla data di scadenza e i retailer non devono sopportare i costi del ritiro.

L’iniziativa sarà presto estesa anche al dettaglio tradizionale e ha attirato l’attenzione di ben 18 Paesi esteri e entro giugno è annunciato un incontro con una delegazione dagli Stati Uniti.

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