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Industria manifatturiera: si prevede una crescita del 3% nel prossimo biennio

Una ricerca commissionata da QBE Insurance Europe prevede che nel biennio 2024-2025 l’industria manifatturiera italiana crescerà complessivamente del 3%. Ad alimentare la performance sarà l’aumento del reddito reale disponibile delle famiglie e dal miglioramento delle condizioni dei mercati di esportazione. Durante il 2022 il comparto ha generato un valore aggiunto lordo (VAL) di 291 miliardi di euro, quasi il 15% del prodotto interno lordo, determinato primariamente dalla produzione di gomma, plastica e metalli (76 miliardi di euro, il 26% circa del totale), di computer, apparecchiature elettroniche e ottiche (66 miliardi di euro, il 23% circa del totale). Nel 2023 il VAL generato è aumentato, raggiungendo i 315 miliardi di euro, guidato dalla produzione di gomma, plastica e metalli ha superato i 79 miliardi di euro, (circa il 25% circa del totale), mentre invece la produzione di computer, apparecchiature elettroniche e ottiche è salita ulteriormente rispetto all’anno precedente toccando i 73 miliardi di euro, (ovvero il 23% circa del totale).

Quanto potranno pesare i fattori di rischio
Le previsioni di crescita sono esposte ad alcuni fattori di rischio che hanno un impatto potenzialmente rilevante. La ricerca ne individua tre: crollo dei prezzi degli asset, deterioramento della disponibilità di credito e inasprimento delle tensioni tra Cina e Taiwan. I tre fattori inciderebbero in misura crescente negli anni sulle previsioni di crescita (vedere grafico 1), con una maggiore contrazione (2,7% nel 2024, 5% nel 2025) nel caso di un crollo del prezzo degli asset e flessioni relativamente minori in caso di minore disponibilità del credito (1,1% nel 2024, 1,9% nel 2025) o di tensioni tra Cina e Taiwan (1,1% nel 2024, 1,7% nel 2025).

Che cosa preoccupa le imprese
Principale preoccupazione delle imprese è l’insufficienza della domanda. L’indagine condotta nel quarto trimestre 2023 della Commissione Europea ha rilevato che il 21% delle imprese la considera il principale limite alla produzione. Una preoccupazione che è stata confermata dalla diminuzione degli ordinativi registrata tra novembre 2023 e gennaio 2024. La seconda possibile criticità, indicata dal 13% delle imprese, è la carenza di materiali e/o attrezzature, anche se meno avvertita rispetto alla fase di ripresa post Covid-19. La terza è la volatilità dei prezzi dell’energia (l’approvvigionamento di petrolio raffinato incide tra lo 0,1% e il 16,7% sui costi di produzione intermedi dei diversi segmenti del comparto manifatturiero). Il grafico 2 evidenzia l’andamento dei prezzi delle importazioni di petrolio e gas, più che quadruplicati tra l’inizio del 2020 e il settembre 2022, per poi ridursi di oltre la metà nell’agosto 2023. Nei prossimi mesi, anche a causa del rialzo dei costi dell’energia determinato dal conflitto in Medio Oriente, le imprese dovranno adattare le proprie strategie commerciali decidendo se assorbire gli aumenti per conservare la domanda, aumentare i prezzi per proteggere i margini o trovare un equilibrio tra le due opzioni definendo inoltre la durata ottimale dei contratti di fornitura.

Supply chain, pricing, risorse umane: le strategie preventive
Il primo aspetto per superare le difficoltà di approvvigionamento è valutare la robustezza della catena individuando i fattori che portano a una difficoltà nel reperimento di attrezzature o materiali. Se il problema è legato ai fornitori di primo livello, sarà necessario ampliarne la base; se, invece, le criticità sono posizionate nella catena di approvvigionamento, sarà opportuno a ampliare la rete di fornitori. Il maggiore accumulo di scorte e la revisione dei processi previsionali della domanda sono azioni parallele di ottimizzazione. La revisione delle strategie di pricing è il secondo punto critico. Si prevede che gli eventi geopolitici continueranno a rendere volatili i prezzi dell’energia e le aziende potrebbero considerare la possibilità d’incremento di prezzo razionali, personalizzati per tipologia di cliente e segmento di prodotto. La ricerca di talenti e la loro valorizzazione è un terzo punto centrale, considerando che i posti di lavoro vacanti in proporzione al numero di persone impiegate sta raggiungendo il massimo storico. Investire nell’aggiornamento e nella riqualificazione delle nuove risorse e di quelle interne attraverso percorsi di formazione può giocare un ruolo chiave nel coprire profili difficili da reperire sul mercato del lavoro.

Supply chain in previsione delle festività: crescono nearshoring e friend-shoring

Il recente report del Capgemini Research Institute esamina come le organizzazioni CPR (legate ad aziende di beni di consumo e di vendita al dettaglio) stiano trasformando la loro strategia di supply chain per garantire resilienza, efficienza e sostenibilità al proprio business. Secondo l’indagine, le catene di fornitura globali sono minacciate da una moltitudine di fattori, tra cui inflazione, tensioni geopolitiche, eccessiva dipendenza da alcuni Paesi per la fornitura di componenti, oscillazione delle tariffe di trasporto e congestione dei porti.

Più di tre quarti (77%) delle organizzazioni CPR ha ad esempio dichiarato che le tensioni geopolitiche hanno un impatto sui costi e sull’efficienza delle loro supply chain. Alla luce di questo scenario, il report ha rilevato che il nearshoring e l’approvvigionamento a livello nazionale stanno assumendo un ruolo sempre più significativo, in quanto le organizzazioni cercano di trovare un equilibrio tra costi e resilienza. Entro il 2025 si prevede che gli acquisti offshore diminuiranno del 7% a livello globale, mentre il nearshoring e l’approvvigionamento domestico aumenteranno rispettivamente del 4% e del 3%.

“Negli ultimi anni le interruzioni della supply chain sono diventate un’esperienza comune per le aziende di largo consumo, causando carenze di prodotti, ritardi nelle consegne e aumento dei costi. Per far fronte a queste sfide e generare una crescita redditizia, sarà essenziale bilanciare efficienza dei costi e resilienza, diversificando e adottando pratiche di economia sostenibile e circolare”, ha dichiarato Gerardo Ciccone, CPRD & EUC Director di Capgemini in Italia. “Riuscire a ottimizzare le scorte, localizzare le reti di fornitura ed esplorare opzioni alternative di approvvigionamento aiuta a soddisfare le aspettative dei consumatori e gestire i picchi di richiesta. L’adozione di tecnologie innovative e i dati giocheranno un ruolo fondamentale in questo senso, che si tratti di monitorare la previsione della domanda, automatizzare i magazzini, migliorare la customer experience o garantire efficienza nell’evasione degli ordini. Le aziende che adottano strategie di approvvigionamento più resilienti sono meglio preparate a garantire la continuità operativa, ridurre i costi e proteggere la loro reputazione”.

Per far fronte alle aspettative di un commercio sempre più rapido ed evitare l’esaurimento delle scorte durante gli intensi periodi festivi, proprio come quello che ci apprestiamo a vivere, l’83% delle organizzazioni sta investendo quindi nel friend-shoring, una pratica commerciale in crescita in cui il network della supply chain si concentra su Paesi considerati alleati politici ed economici, in modo da ridurre ulteriormente l’esposizione al rischio. Non mancano comunque le criticità come esaurimenti di scorte o carenza di prodotti, ritardi nelle consegne legati alle importazioni e manodopera insufficiente.

Tuttavia, secondo il report, le aziende continuano a essere cautamente ottimiste nel 2023, dal momento che si stanno concentrando sul miglioramento della redditività delle supply chain agendo su pianificazione, processi e automazione. Per il 42% delle organizzazioni CPR, migliorare l’efficienza in termini di costi della supply chain è il principale obiettivo da raggiungere nei prossimi 12-18 mesi. Per raggiungere questo obiettivo, la stragrande maggioranza (82%) delle aziende ritiene che la propria supply chain dovrà subire un cambiamento significativo e quasi nove su dieci (86%) affermano che i dati e la tecnologia avranno un ruolo chiave nel garantire questa trasformazione. Tra le tecnologie adottate, implementate e portate su scala, la gestione dei dati (56%), il cloud computing (55%) e l’automazione (52%) sono le più citate per ottenere risparmi sui costi e aumentare i ricavi.

Global Risk Landscape 2022, lo studio di BDO

BDO, una delle principali organizzazioni internazionali di revisione e di consulenza aziendale in Italia e nel mondo, ha pubblicato i dati relativi all’indagine Global Risk Landscape 2022, svolta su un campione di 500 C-level in tutto il mondo, che esplora le modalità con cui i manager si stanno concentrando sulla resilienza, efficienza e sostenibilità delle supply chain all’interno di un quadro globale dominato dall’incertezza, causata dalle tensioni geo-politiche, dalla crisi climatica, dagli strascichi della pandemia e dalle minacce derivate dagli attacchi informatici.

Secondo lo studio, le conseguenze legate al COVID-19 e alle misure per il suo contenimento hanno continuato a far sentire i loro effetti fino ad oggi, in particolare sulle supply chain, tanto è vero che il 48% degli intervistati ha riportato gravi interruzioni nella catena di approvvigionamento negli ultimi 18 mesi. Per trovare una soluzione a questi problemi, il 59% del campione ha creato delle supply chain alternative rispetto a quelle già esistenti, mentre un ulteriore 23% intende farlo nel corso dei prossimi 18 mesi. La metà dei rispondenti ha inoltre dichiarato di aver accorciato le catene di approvvigionamento, tramite anche il reshoring delle attività, e il 40% ha introdotto tecnologie di analisi dei dati relativi alla supply chain per permettere una loro migliore efficienza.

In questo contesto, il Global Risk Landscape ha fatto emergere che il principale fattore di rischio per le aziende è costituito dalle tensioni geo-politiche, indicate dal 78% degli intervistati. Questo fattore risulta legato al conflitto in Ucraina e alle conseguenti sanzioni che hanno colpito attività e patrimoni russi: a questo proposito, la survey di BDO ha rilevato che il 55% del campione ha stretto accordi con nuovi fornitori per cercare di mitigare gli effetti della guerra in Ucraina. Un altro elemento di incertezza emerso dalla ricerca è legato ai timori di una guerra commerciale fra USA e Cina, che porterebbe a un ulteriore peggioramento del quadro internazionale.

La seconda maggior fonte di rischio è rappresentata dalla trasparenza delle catene di approvvigionamento, come dichiarato dal 75% del campione. Una sua mancanza porta infatti a un crescente rischio reputazionale per l’azienda, per non essere in grado di raggiungere gli alti standard etici ormai richiesti dai consumatori, e a una maggiore difficoltà di comprendere e affrontare le sfide a livello regionale e locale, portando così a perdite in termini di denaro e tempo.

Il terzo maggiore rischio individuato dalla survey risiede nella minaccia degli attacchi informatici alle supply chain, indicato dal 72% dei rispondenti. Per prevenire e affrontare questa potenziale fonte di criticità, il 67% delle aziende intervistate ha dichiarato di aver effettuato investimenti nella digitalizzazione della catena di approvvigionamento negli ultimi 18 mesi e il 51% ha aumentato le risorse disponibili a seguito dello scoppio del conflitto in Ucraina.

Solamente il 22% del campione ha invece indicato i cambiamenti climatici e gli eventi meteorologici estremi fra le più alte priorità di rischi per il business, evidenziando un basso livello di priorità da parte di manager e organizzazioni per questi aspetti, in grado, però, di poter generare danni a livello finanziario e reputazionale. Inoltre, solo il 23% degli intervistati ritiene che gli eventi naturali avversi potranno avere un impatto significativo sulle attività aziendali e il 14% ha definito piani e processi per mitigare le possibili interruzioni alle supply chain causate dai cambiamenti climatici.

Infine, un’area di miglioramento nella gestione dei rischi per le organizzazioni è legata allo status dei Chief Risk Officer (CRO) nell’organigramma aziendale: lo studio di BDO ha infatti evidenziato che nel 29% delle aziende intervistate il CRO non fa parte del top management. A livello globale, tra le regioni in cui gli specialisti di gestione dei rischi occupano un posto nella direzione aziendale ci sono il Medio Oriente (nel 72% dei casi) e USA (nell’80%). In Europa questa percentuale si ferma al 44%.

UN FOCUS SULL’EUROPA
L’analisi dei dati relativi ai 100 manager C-level intervistati da BDO all’interno dell’area europea mostra che il 68% di essi individua il maggiore fattore di rischio per le organizzazioni nel conflitto in Ucraina, che ha portato un significativo aumento dei costi delle materie prime e delle fonti energetiche e una crescita dell’inflazione, oltre a difficoltà nell’approvvigionamento di semilavorati.

In seconda posizione, con una quota del 60%, si trovano i timori di un rallentamento dell’economia e di un recupero più lento del previsto dopo l’impatto della pandemia, che non viene più percepito come principale elemento di rischio in Europa grazie anche all’alto tasso di vaccinazione nel continente.

La survey ha inoltre mostrato che i manager europei hanno una sensibilità verso le questioni ambientali e il cambiamento climatico di gran lunga superiore rispetto alla media globale: i rischi derivati da eventi naturali imprevedibili e estremi sono stati infatti indicati dal 59% del campione, rispetto al 22% del dato globale. Questo perché l’EU Green Deal sta introducendo i fattori di rischio ESG nel risk management degli operatori dei mercati finanziari con il preciso scopo di impattare nella sostenibilità dell’economia reale; attraverso la leva della finanza sostenibile.

Gli intervistati europei non sembrano invece essere particolarmente preoccupati dalle minacce di attacchi informatici: solo il 42% ha dichiarato di aver aumentato gli investimenti in cybersecurity per mitigare i rischi di interruzione della catena di approvvigionamento in seguito al conflitto in Ucraina, rispetto al dato globale del 51%, e solo il 13% li ritiene il rischio principale per le organizzazioni.

Cosa serve la blockchain nel retail? Traccia prodotti e assicura la supply chain

Non solo nel fintech, la tecnologia blockchain e il trattamento dati sono oggi e saranno in futuro mezzi sempre più determinanti anche nel retail, per assicurare la trasparenza e il controllo dell filiera, dalla fabbrica al negozio, dal campo alla tavola. Per sfruttarne a pieno le potenzialità è nata la partnership tra DNV GL, fornitore di servizi di assurance e uno degli enti di certificazione leader a livello internazionale, e VeChain. pioniera nell’utilizzo della blockchain che controlla la principale piattaforma pubblica di blockchain per prodotti e informazioni. DNV GL adotterà progressivamente la blockchain per aiutare le imprese a rendere più trasparenti e tracciabili i loro prodotti, dalla fabbrica al consumatore finale.

 

Blockchain nel retail: più trasparenza lungo la supply chain

Oggi è cruciale per le aziende gestire complessità e rischi lungo la supply chain e al contempo garantire la conformità agli standard di settore e alle richieste degli stakeholder, in ambiti che vanno dalla qualità del prodotto alla responsabilità d’impresa. Ad esempio, un produttore del settore agroalimentare deve verificare di aver implementato processi in grado di gestire correttamente la sicurezza alimentare in tutte le fasi della filiera o un produttore di automobili deve garantire la sicurezza funzionale dei suoi veicoli.

Combinando il know-how di DNV GL con le principali applicazioni della tecnologia blockchain e utilizzando dispositivi IoT (Internet of Things) come sensori integrati nei prodotti, è possibile conoscere la storia, lo stato e le prestazioni di un prodotto e ottenere informazioni sulle modalità di produzione, su come è stato trasportato, come è stato conservato e lo stato di qualità in qualsiasi momento. Il livello di trasparenza e la quantità di informazioni raccolte lungo tutta la filiera consentiranno alle aziende un maggior controllo e un miglioramento dell’efficienza complessiva lungo tutta la supply chain.

I consumatori, dal canto loro. potranno verificare la sicurezza e la genuinità del prodotto che intendono acquistare. Per il consumatore sarà possibile controllare direttamente che il prodotto provenga da un produttore eticamente responsabile, che il cibo congelato sia stato trasportato in modo sicuro e alla temperatura corretta, che il bene di lusso sia originale e sarà anche possibile tracciare da quale grappolo d’uva proviene il vino.

«I dati stanno diventando un asset sempre più prezioso, e la partnership con VeChain consentirà alle nostre soluzioni digitali di soddisfare le mutevoli esigenze di un’economia fondata sui dati – ha affermato Luca Crisciotti, CEO di DNV GL – Business Assurance -. Sfruttando l’IoT e la tecnologia blockchain stiamo reinventando il processo di assurance. Il nostro concetto di Digital Assurance fornirà alle aziende e ai consumatori finali un grado di informazioni sul prodotto e sui fornitori senza precedenti, in misura e accuratezza mai stati possibili prima».

Queste nuove soluzioni saranno dedicate inizialmente al settore agroalimentare, al retail e alla moda. In un secondo tempo saranno rivolte ad altri settori, come quello automobilistico e aerospaziale.

«La blockchain ha molte applicazioni oltre al settore finanziario e sono lieto che DNV GL abbia riconosciuto l’impatto rivoluzionario che può portare nella gestione della supply chain – ha detto Sunny Lu, CEO di VeChain -. Mettiamo insieme servizi di assurance con la tecnologia blockchain per aiutare i clienti ad accrescere la credibilità dei propri prodotti sotto ogni aspetto: dalla qualità alla sicurezza, agli aspetti legati alle loro prestazioni».

Brexit, chi vince e chi perde nel retail: discount su, ipermercati giù

I discount come Lidl, che già hanno eroso negli ultimi anni quote di mercato alle insegne tradizionali, secondo gli analisti otterranno un ulteriore vantaggio dall'uscita della Grand Bretagna dall'Ue.

Planet Retail ha stilato un report che individua le opportunità e i rischi della Brexit, l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea decisa con il referendum del 23 giugno, nell’ambito del commercio.

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Un costo aggiuntivo: le etichette “Made in UE” andranno sostituite con etichette “nazionali”

Un impatto a breve e lungo termine che colpirà l’intero vecchio continente, con l’Ue che perderà in un colpo solo il 12,9% della popolazione, il 16,6% del Pil, 18,7% della spesa dei consumatori, il 18,3% delle vendite retail e il 15,2% delle vendite di alimentari. Non solo: i partiti populisti di Danimarca, Olanda e Francia pensano già al loro referendum per l’uscita, con rischi di ulteriore disgregazione.

Di seguito lo scenario con le possibili conseguenze nel Regno Unito (ma non solo):

1. Rallentamento della crescita UK con probabile recessione

Opportunità per:

  • I Discount con la loro forte reputazione per un buon rapporto prezzi qualità
  • I supermercati con tanti punti vendita di prossimità, mentre perderanno le grandi superfici fuori città (si tenderà a risparmiare benzina ed evitare la “tentazione” di comprare il superfluo)
  • I produttori di prodotti Private label specialmente se di livello economico
  • Le insegne con programmi di loyalty forti, in grado di offrire benefici, sconti addizionali o premi
  • I produttori di oggetti di lusso abbordabili, perché i consumatori cercheranno di premarsi con piccole cose
  • I prodotti che costituiscono un’alternativa conveniente ai consumi fuoricasa, come le capsule per caffè

Rischi per:

  • Gli ipermercati con maggiore esposizione verso articoli non alimentari
  • La ristorazione, per la tendenza a cucinare a casa
  • I commercianti Non-food che si specializzano in prodotti non essenziali e il cui acquisto è rimandabile

2. Sterlina più debole

Opportunità per:

  • I fornitori di prodotti locali, regionali e prodotti in Gran Bretagna beneficeranno dell’aumento di competitività
  • I fornitori di prodotti britannici che esportano all’estero
  • I discounter con categorie di prodotto limitate che possono passare la gran parte delle vendite a prodotti locali sostituendo un numero limitato di prodotti
  • Chi è in grado di acquistare dai Paesi a bassi salari sullo scenario globale (ad es. Asda che fa parte di Walmart)
  • Le insegne che hanno operazioni internazionali che vedranno le vendite sui mercati esteri aumentare a causa del cambio con la sterlina bassa (ad es. Tesco)

Rischi per:

  • I retailer che trattano categorie che si basano molto sulle importazioni come gli alimentari (il 39% degli alimentari venduti in UK è importato, e in particolare lo è il fresco come frutta, verdura e latticini)
  • Gli ipermercati che vendono prodotti non alimentari fatturati in moneta esetra (con i rischi maggiori per le transazioni verso il dollaro)
  • La divisione UK degli operatori di e-commerce internazionali, perché i consumatori arriveranno da altri mercati europei per fare acquisti in sterline
  • I negozi che si appoggiano a una scelta di prodotti internazionali come leva di differenziazione (negli ipermercati potrebbero diminuire le categorie di cibi esteri o etnici)
  • Insegne internazionali con operazione in UK (Walmart, Costco, Whole Foods) perché potrebbero diminuire le vendite sul fronte britanico
  • I retailer UK con operazioni internazionali in perdita, perché le perdite saranno aumentate dal cambio sfavorevole

3. Aumento dei tassi di interesse per alleviare la pressione verso il basso della sterlina

Opportunità per:

  • Distributori e fornitori con una forte dipendenza verso le supplì chain internazionali che eviteranno una pressione inflazionistica ancora più alta

Rischi per:

  • Distributori e fornitori di fai-da-te, arredamento, e forniture elettriche per la casa perché è plausibile che il mercato immobiliare sarà duramente colpito

4. Maggiori regolamentazioni e limitazioni nel libero movimento di merci e persone

Opportunità per:

  • I Retailer che dipendono poco delle supply chains estere
  • I Retailer con supply chain intrenazionali capaci di riorganizzare il flusso di merci velocemente
  • I Retailer che beneficiano della condivisione di negoziazioni e best practice a livello regionale europeo (ad es. Asda arte del gruppo d’acquisto EMD di cui fanno parte tra gli altri in Italia Selex e Sun)

Rischi per:

  •  I retailer britannici che dipendono molto da supply chain internazionali con un debole prospettiva di sostituirli con fornitori nazionali (abbigliamento, elettronica di consumo, fai da te)
  • I retailer americani che hanno investito nel Regno Unito come “ponte” per entrare in Europa (Whole Foods, Costco)
  • Le aziende di E-commerce che potrebbero soffrire dalle aspettative fallite dei clienti che non riescono ad ottenere consegne in giornata
  • Fornitori e distributori britannici che si avvalgono di manopdopera europea a basso costo

 

5. Ulteriore frammentazione dell’UE

  • Distributori e fornitori in tutta Europa soffriranno per l’impatto negativo sulle supply chains con tempi di attesa aggiuntivi alle frontiere e maggiori rischi per il cambio delle valute

 

 

 

Brexit: le opinioni nel retail:

Lidl UK: “Apprezziamo e rispettiamo la decisione del Leave fatta dal pubblico britannico. […] Abbiamo lavorato duramente nelle retrovie per prepararci a questa possibilità, così ora siamo pronti. […] Continueremo a investire nei nostri piani di espansione nel Regno Unito con nuovi punti vendita, nuovi magazzini e nuovi posti di lavoro.“

Stefano Pessina, Walgreens Alliance Boots. «Si sceglie di investire nel Regno Unito perché da lì si può facilmente accedere a tutta l’Unione Europea. Ora che il Regno Unito non sarà più parte della Ue, cambierà tutto».

RichardPennycook,TheCo-OperativeGroup: “Il nostro messaggio è positivo: siamo passati per un periodo di incertezza e ora consociamo l’esito. Ora dobbiamo guardare avanti e cogliere le opportunità.”

Alessandro De Felice, Presidente di ANRA, Associazione Nazionale di Risk Manager e Responsabili di Assicurazioni Aziendali. “Se la Gran Bretagna avesse deciso di rimanere nell’Unione Europea, ad esempio secondo le previsioni di Sace, l’export italiano avrebbe messo a segno una crescita media annua del 5,5% nel periodo 2017 – 2019 . Concretizzata la Brexit queste stime potrebbero essere riviste al ribasso di circa 1-2 punti percentuali nel 2016 (fino a 500 milioni € in meno).

Stephen Springham, Knight Frank: “Come ha provato la scorsa recessione i trend di spesa non seguono religiosamente le prestazioni del Pil. I consumatori potrebbero chiudere i cordoni delle borse e ripensare le priorità di spesa, ma non smetteranno di spendere. Le vendite nel retail rimarranno incostanti,. Ma il retail potrebbe beneficiare da investitori esteri a “caccia dell’affare”  pronti ad approfittare di ogni perdita di valore della sterlina.”

Tim Worsall, Forbes: “La causa principale della diminuzione delle vendite nei negozi britannici [a giugno, ndr] non ha a che fare con l’incertezza causata dalla Brexit ma con Amazon”.

L’interscambio pallet costa 120 milioni di euro alla filiera del largo consumo

Per approfondire il costo di interscambio pallet EPAL per la filiera del largo consumo derivante dalle pratiche adottate dai suoi protagonisti, Ecr Italia ha realizzato in collaborazione con il C-Log della LIUC Università Cattaneo e il Politecnico di Milano una ricerca sul campo che ha coinvolto 12 aziende – 4 distributori (GDO), 8 produttori (PRO) – e i rispettivi operatori logistici (3PL).

I risultati sono stati illustrati ieri nel convegno Interscambio pallet. Processi e costi di interfaccia per la filiera del largo consumo organizzato da GS1 Italy | Indicod-Ecr, che dal 2005 presidia il tema. con l’analisi neutrale delle soluzioni presenti sul mercato avendo come unico obiettivo quello di consentire alle aziende scelte consapevoli attraverso la raccolta e la condivisione di informazioni di grande solidità. «Non possiamo che guardare in modo positivo all’esistenza di soluzioni concorrenti che spingono all’efficienza e alla riduzione dei costi» dichiara Bruno Aceto, Ceo dell’associazione che raccoglie 35 mila imprese industriali e distributive operanti nel settore dei beni di largo consumo.

L’indagine ha consentito di valorizzare le 6 voci di costo rilevanti e di determinare il costo complessivo di interscambio per la filiera, come somma dei costi di interfaccia PRO-GDO, focalizzandosi unicamente sul processo che ha come punto di partenza il punto di stock del PRO dal quale è evaso l’ordine ricevuto dalla GDO e, come punto di arrivo, il CeDi della GDO.

Il trasporto di ritorno dei pallet non interscambiati con interscambio immediato costituisce la seconda voce per rilevanza per il campione degli 8 produttori analizzati, con un’incidenza pari al 34% del costo totale.

Proprio l’alta rilevanza di questa componente di costo deve spingere le aziende alla pratica dell’interscambio immediato, che oggi si attesta tra il 65% e l’85%.

La pratica di interscambio differita che dovrebbe essere considerata come straordinaria, è sempre più diffusa. «L’incremento dei buoni pallet aumenta la dispersione del parco pallet e attiva contrattazioni basate sul potere contrattuale di ogni azienda piuttosto che sul valore effettivo del bene», afferma Gino Marchet, Professore di Logistica del Politecnico di Milano.

L’indagine presso i PRO conferma che il livello qualitativo del parco pallet EPAL circolante si è abbassato negli anni, determinando un’incidenza crescente di pallet scartati presso i punti di consegna.

«Uno dei principali punti critici nel modello dell’interscambio EPAL è quello relativo alla qualità dei pallet» afferma Fabrizio Dallari, Direttore del Centro di Ricerca sulla Logistica LIUC Università Cattaneo. «Nonostante ci siano delle linee guida molto precise emanate dal Comitato Tecnico EPAL di Conlegno, accade che la percentuale dei pallet scartati in banchina presso i CeDi sia molto variabile da azienda ad azienda».

Sommando i valori medi stimati nelle due indagini separate (4 aziende GDO e 8 aziende PRO) emerge un costo medio unitario di gestione dell’interscambio pallet per la filiera di poco superiore ai 2 euro/pallet.

In conclusione è possibile affermare che esiste un costo per l’interscambio dei pallet che, se moltiplicato per il numero di pallet inviati dai produttori nel settore (circa 60 milioni di pallet, quasi uno per abitante) crea un costo annuo di 120 milioni di euro/anno per la filiera. Questo dato rappresenta un ulteriore stimolo per sviluppare iniziative di miglioramento da perseguire attraverso percorsi collaborativi tra PRO, GDO e 3PL che da sempre contraddistinguono i progetti di ECR.

Ecr Italia, infatti, nel suo ruolo di sede di confronto e di elaborazione di best practice, si occupa da tempo di facilitare la discussione aperta fra le aziende, elaborando e diffondendo le migliori prassi operative. «Il mondo dell’interscambio pallet EPAL basa la sua efficienza e la sua economicità sul rispetto del sistema di regole su cui è costruito» commenta Giuseppe Luscia, Responsabile progetti ECR Supply di GS1 Italy | Indicod-Ecr. «Per questo Ecr Italia promuove due concetti chiave: la certezza dell’impianto di regole e la profonda conoscenza del sistema».

In questa ottica vanno lette le attività presentate ieri e le Raccomandazione ECR per l’interscambio del pallet EPAL (documento nato nel 2005 e più volte sottoposto alla verifica delle aziende) e le attività legate all’Osservatorio sul Valore del Pallet Interscambiabile, attività che Ecr Italia, in collaborazione con Conlegno – il Consorzio Servizi Legni Sughero – mantiene dal 2005 e che fornisce un importante riferimento per tutte le operazioni di “monetizzazione” del pallet legate all’applicazione della Raccomandazione.

Ecr Italia ha realizzato ora l’analisi sul costo della gestione del pallet, la cui sintesi è contenuta all’interno del volume Blue Book “La gestione dei pallet nella filiera del largo consumo” che rende disponibili alle aziende importanti riferimenti sul costo delle operazioni di interscambio con cui confrontare le proprie performance e valutare al meglio processi e servizi. Il Blue Book è scaricabile qui.

Reverse charge e normativa sulla gestione ambientale

Sulle novità e i punti di attenzione per le imprese si è concentrato l’intervento di Mara Chilosi, esperto legale di Conlegno: «Le nuove Linee guida per la gestione del parco pallet, sotto il profilo ambientale, individuano le diverse casistiche e le soluzioni operative, chiarendo quando i pallet devono essere gestiti come rifiuti e quando invece possono essere considerati imballaggi riutilizzabili. È essenziale che gli operatori abbiano chiari questi concetti al fine di evitare rischi sanzionatori e gestire il parco pallet in modo legale».

L’intervento di Marcello Del Prete, esperto fiscale di Conlegno, ha chiarito le modalità di applicazione dell’inversione contabile ai fini IVA (“reverse charge”), attiva dal 1 gennaio 2015 sui trasferimenti di pallet per cicli di utilizzo successivi al primo.

The omnichannel challenge involves the integrated supply chain

In the omnichannel scenario that is emerging, the supply chain is increasingly becoming the key for integrating the different channels and allowing a common inventory. This, according to Franck Lheureux, GVP South & CE Europe of JDA, who we met at the Word Retail Congress, is the critical factor of greatest impact for retail. Closer integration of eCommerce, order management and all the elements of the supply chain will be vital to provide better customer service, thanks to greater responsiveness and, at the same time, improved business efficiency.

The main issue for retailers is to monitor the various channels, making products arrive at the customer in a profitable manner. “Profitability is the mantra for retailers”.

Also the time factor is crucial in the organisation of the supply chain, because cycles are accelerating. “Today, time is measured in instants – says Lheureux – and is important for profitability in the management of customer demand. Since it is necessary to instantly respond to customer orders, the inventory must be available exactly where and when the customer expects the product to be delivered”.

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In this process, also stores must change: the shopping experience must be enhanced and they must become places of pleasant experience in themselves. “If you do not emotionally connect the customer with the brand, if you do not create interactivity, you risk losing brand equity and consequently consumers,” underlines Lheureux.

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The connected store: technology is changing the role of the sales assistant

“The connected store is a necessity”: that’s how Henri Seroux, Senior Vice President EMEA of Manhattan Associates begins in this video interview conducted during the World Retail Congress.

Omnichannel in fact brings with it a change in the role of physical stores and of how new generation sales assistants must operate in assisted sales, particularly in the clothing and luxury goods sectors, but not only. To provide an excellent service, in fact, they must know the online and offline history of the customer, ensure completion of the order process, facilitate cross-channel returns and exchanges and accelerate payment and check-out.

Today’s sales assistants no longer remain behind the counter or at the till, but are constantly on the move inside the store, creating a new class of sales consultants (sales, customer service and order completion assistants) with specific skills able to ensure the best shopping experience possible, across all channels.

La sfida del retail omnichannel passa dalla supply chain integrata

Nello scenaro omnichannel che si sta configurando sempre di più la supply chain è l’elemento chiave per integrare i diversi canale e consentire di avere una visione comune dell’inventario. È, questa, secondo Franck Lheureux, GVP South & CE Europe di JDA, che abbiamo incontrato al Word Retail Congress, il fattore critico di maggiore impatto per il retail. Una più stretta integrazione tra eCommerce, gestione ordini e tutti gli elementi della supply chain sarà vitale per fornire un servizio migliore ai clienti, grazie alla maggiore reattività e, contemporaneamente, al miglioramento dell’efficienza aziendale.

La questione principale per i retailer è quella di presidiare i diversi canali facendo arrivare al cliente i prodotti in maniera profittevole. «La profittabilità è il mantra per i retailer».

Secondoi risultati di una indagine presentata da Jda al World Retail Congress, per il 71% degli intervistati la strategia omnicanale è una priorità, ma il 30% afferma di operare ancora per canali distinti,  il 31% dichiara di offrire un’esperienza omnicanale ai clienti, ma di essere ancora in difficoltà nel back-end e il 19%  dichiara di avere il back end allineato con il front end, ma che è troppo complesso e costoso. Solo il 16%, quindi, afferma di gestire l’omnicanalità con profitto.

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Anche il fattore tempo è determinante nell’organizzazione della supply chain, perché i cicli stanno accelerando. «I tempo oggi si misura in istanti – dice Lheureux – ed è importante per la profittabilità nella gestione della domanda dei clienti. Poiché è necessario rispondere istantaneamente agli ordini dei clienti occorre che l’inventario sia disponibile esattamente nel posto e nel momento in cui il cliente si aspetta che il prodotto sia consegnato».

In questo processo anche i punti vendita devono cambiare: la shopper experience dovrà essere arricchita e devono diventare luoghi di esperienza piacevole in sé. «Se non si connette emozionalmente il cliente con il brand, se non si crea interattività, si rischia di perdere la brand equity e di conseguenza i consumatori», sottolinea Lheureux.

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Click and collect, what’s the cost… John Lewis charges for the service

Niente più ritiro gratis per un paio di ciabattine da John Lewis.

The logistical costs for online shipping have always been a thorn in the side for retailers: the consumer is used to not paying any shipping costs, but this is not always possible. One solution seemed to be click and collect: order online and collect in store. But even in this case there are costs, and in a country where this service has reached significant proportions (80 million orders last years according to IMRG, with 3 out of 4 online purchasers using it), some companies are taking cover.

John Lewis for example, a mid to high range brand, has decided that from 28 July it will apply a £2 cost (around €2.80) for purchases below £30 (around €42). A significant decision for the English retailer, which processes 6 million click and collect orders each year, with more than 6 billion pounds of online sales in 2013: they now account for 33% of total sales.

According to the British retailer, the current free service is “unsustainable”: the logistics of distributing packages from the central warehouse in Milton Keynes to 360 outlets cannot be covered for small orders, like lipstick or a necklace. “The majority of orders will remain free of charge while allowing us to invest further in the expansion of click and collect” announced Mark Lewis, John Lewis’s online director. According to the BBC, orders under 30 pounds accounted for 18% of the total last year.

It is likely that other retailers will soon adopt this policy. Perhaps they will convince customers to pay for a quicker and more efficient service. In fact, Amazon is looking ahead: they have just launched Amazon Prime Now in central London, which delivers to your home or office within an hour. The price? £6.99 (almost €10).

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