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Etichette alimentari: le informazioni sono importanti ma pochi le leggono

Che cosa significa Made in Italy? In quanti leggono le etichette con attenzione? Che cosa pensano della legalità nella filiera agroalimentare? Sono alcune delle domande poste dall’indagine sui bisogni informativi degli italiani condotta dall’Osservatorio permanente sulla Filiera del Latte costituito da Adoc, Cittadinanzattiva, Federconsumatori e Movimento Consumatori insieme al Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali e Granarolo.

Il quadro che ne esce è certamente di consumatori sensibili alle qualificazioni dei prodotti, come l’origine della materia prima, il luogo e lo stabilimento di produzione, è certamente pronto a difendere il Made in Italy, ma non sanno esattamente di che cosa si tratta. Anche se è pronto a spendere di più per un prodotto tutto italiano, si perde un po’ nella selva delle sigle dei prodotti a denominazione d’origine: l’Italia è il paese con il più alto numero di Dop e Igp, ma che cosa veramente vogliano dire queste sigle, gli italiani mica lo sanno bene.

« Emerge sicuramente la necessità di importanti sforzi per informare i consumatori sulla filiera produttiva italiana, la conoscenza degli aspetti nutrizionali e della sicurezza alimentare attraverso un lavoro congiunto di tutti,  in primis Istituzioni, mondo associativo e industria alimentare come peraltro negli obiettivi dell’Osservatorio che abbiamo costituito, ha affermato imprevidente di Granarolo Gianpiero Calzolari.

Ma vediamo la sintesi dei risultati.

Per quanto riguarda le etichette alimentari, il 95% del campione intervistato ritiene importante le etichette ma, di questo, solo il 18% le legge integralmente. Le informazioni su cui si concentra maggiormente l’attenzione sono soprattutto la data di scadenza (63%), gli ingredienti (50%), la loro provenienza (49%) e l’eventuale presenza di sostanze dannose alla salute (37%).

Tuttavia una percentuale importante, pari al 48%, considera le etichette poco chiare, troppo tecniche, scritte troppo in piccolo e spesso non le capisce.

Il 96% ritiene importante inoltre avere una filiera agroalimentare controllata.

La nota dolente riguarda, come detto, le denominazioni, perché se la quasi totalità (95%) degli intervistati è a conoscenza del significato di almeno una delle più comuni certificazioni europee indicate in materia di prodotti agroalimentari.(D.O.P., I.G.P., D.O.C., I.G.T., D.O.C.G.),  quando viene chiesto di specificarne meglio la differenza, gli intervistati entrano in difficoltà. L’unica sigla davvero chiara sembra essere la DOC del vino. Secondo gli ultimi dati pubblicati dall’Istat, con 261 prodotti riconosciuti su 1.241 totali, l’Italia detiene il primato di paese europeo con il maggior numero di prodotti agroalimentari a denominazione di origine.

Nondimeno, l’84% degli intervistati è sfavorevole all’uso del latte in polvere per la produzione di formaggi, anche se una percentuale inferiore (il 64%) sa che in Italia è vietato usarlo. Al riguardo, secondo Calzolari « L’unico modo che l’Italia ha di contrastare le norme europee in merito alla polvere è una iniziativa per una nuova generazione di etichette, semplici, trasparenti e veritiere».

Nell’ambito più specifico dei prodotti lattiero caseari, 5 intervistati su 6 prestano attenzione alle informazioni contenute in etichetta: i consumatori sono interessati in primis alla data di scadenza con l’84%, seguita dall’indicazione del luogo d’origine delle materie prime (61%), dall’elenco degli ingredienti (57%) e dalle modalità di conservazione (52%).

Inoltre circa la metà degli intervistati ritiene importante ai fini dell’acquisto il luogo di trasformazione e confezionamento (45%).

Circa la metà dei consumatori (52%) dice di conoscere la differenza tra un latte standard e un latte di alta qualità e il 58% tra quello standard ed uno biologico.

Nessuno degli intervistati conosce il significato della dicitura “leggero/light” che a norma di Reg. CE n.1924/06 identifica un prodotto che contiene il 30% in meno di grassi rispetto al prodotto di riferimento.

Pochi conoscono (29%) il significato di “Yogurt Con” (aggiunta di altri prodotti), la percentuale più alta (38%) dichiara addirittura di non saper rispondere alla domanda.

Infine, solo metà dei consumatori intervistati conosce la differenza tra la data di scadenza e il termine minimo di conservazione cioè che superato tale termine si modificano alcune caratteristiche organolettiche e nutrizionali ma il prodotto può ancora essere consumato senza rischi.

Prodotto in Italia – Made in Italy –  dall’indagine emerge che una delle maggiori esigenze dei consumatori per un’etichetta trasparente e sicura è che i prodotti alimentari presentino l’indicazione della loro provenienza. Ma circa la metà degli intervistati non conosce il significato di “Prodotto in Italia” (trasformato in Italia e prodotto non necessariamente con materie prime italiane).

Una percentuale non trascurabile, infatti, pari al 31%, ritiene erroneamente che la dicitura si riferisca all’origine italiana delle materie prime.

Ma il 96% (quasi totalità) ritiene importante un prodotto realizzato con materie prime italiane. Il 73% dichiara di essere disposto a spendere di più per avere la certezza dell’origine e della provenienza italiana del prodotto nel momento dell’acquisto. Nonostante il periodo di difficoltà economica l’assicurazione di acquistare prodotti provenienti dal territorio italiano porta il consumatore a scegliere di spendere fino al 5% in più almeno per il 41% degli intervistati, tra il 5% e 20% in più per il 26%.

In materia di legalità della filiera agroalimentare, infine, per i consumatori i principali fattori che ne esprimono il concetto (con ancora un po’ di confusione) sono: l’indicazione dell’origine delle materie prime (95%), il rispetto degli standard di sicurezza alimentare (94%), il luogo di trasformazione (91%), l’aderenza a standard di rispetto e tutela dei lavoratori impiegati nella filiera (48%) e la presenza del marchio registrato (42%). Inoltre, il 38% ritiene abbastanza importante che come fattore di legalità il prodotto sia biologico.

L’84% degli intervistati ritiene poi che esista la contraffazione in ambito alimentare.

In caso di sospetto di cibo avariato i consumatori sanno a chi rivolgersi in Italia: 30% contatterebbe le Associazioni dei Consumatori; il 29% il nucleo Antisofisticazione e il 36% ASL di pertinenza. Mentre hanno una scarsa conoscenza delle Istituzioni Europee: il 27% conosce EFSA (Autorità europea per la sicurezza alimentare) e il 16% Rasff  (Sistema di allarme rapido per gli alimenti e i mangimi).

Shopping su smartphone è meglio, +94% il traffico mobile nel 2015 nel mondo

Sempre più tramite smartphone: i cellulari generano il 94% dell’aumento del traffico su base annua, il 74% dell’aumento della creazione del carrello e il 47% della crescita dell’ordine; il tablet soffre (-10% traffico e -2% ordini), con il Pc si procede magari all’acquisto (ancora nel 65% dei casi) ma è sempre meno utilizzato per le ricerche finalizzate allo shopping: sono questi i risultati dell’ultimo Shopping Index di Demandwareazienda attiva nelle soluzioni cloud commerce per le imprese, che con Shopping Index misura con cadenza trimestrale i comportanenti di acquisto dei 200 milioni di clienti che navigano nei 1300 siti che si servono della sua piattaforma Cloud. I dati si riferiscono al secondo trimestre 2015 e ad oggi non comprendono l’Italia, visto che la società ha annunciato la sua apertura nel nostro Paese il 15 ottobre scorso. Ma sono confermati dall’Osservatorio eCommerce B2c Netcomm – Politecnico di Milano (vedi L’eCommerce B2C supera i 16 miliardi di vendite grazie a servizio e convenienza) che vede in Italia il comparto con la più alta penetrazione delle vendite da smartphone sul totale vendite eCommerce essere proprio l’Abbigliamento, con circa il 18% del transato. Oltre alla moda anche per Beauty, Food e Arredamento la ricerca ed acquisto in mobilità è in forte crescita, tanto che una strategia multicanale per i retailer è ormai, lo si dice da tempo ma lo confermano ancora una volta i dati, un must ineludibile: gli ordini che iniziano su un dispositivo e terminano su un’altro sono aumentati del 10%.

Traffico e ordini per dispositivo, media Shopping Index Demandware.
Traffico e ordini per dispositivo, media Shopping Index Demandware.

 

È boom di acquisti in mobilità

L’ubiquità della presenza del telefonino ha fatto sì che la ricerca e l’acquisto di beni avvenga ormai sempre più in mobilità, quando si ha tempo, voglia o necessità, o magari ispirati dalla vista di un cartellone pubblicitario e di una vetrina. Ed è questo un trend mondiale, come confermano i dati Demandware. L‘attraction del cliente (ovvero il volume di visite ai siti monitorati) è aumentata del 18% nel secondo trimestre del 2015 rispetto allo stesso periodo del 2014, e ha guidato l’84% della crescita del commercio digitale. Inoltre, la spesa del cliente, che combina la frequenza della visita del sito, il tasso di conversione e il valore medio dell’ordine (AOV), è cresciuta del 4% e ha portato a un +16% di crescita. La combinazione della spesa del cliente con la shopping attraction ha prodotto un +31% nella Shopping Index di Demandware. La creazione dei carrelli ha registrato un incremento del 26% su base annua, con i cellulari come primi conduttori di questa tendenza, con un +15% di clienti che aggiungono un articolo al carrello via smartphone.

Attività di acquisti online, media globale Shopping Index Demandware.
Attività di acquisti online, media globale Shopping Index Demandware.

 

Ios batte Android ma solo grazie al tablet

Qual è il sistema operativo più utilizzato per gli acquisti mobile? Anche a questo risponde la ricerca Demandware: se prendendo in esame tablet e smartphone, iOS batta Android, osservando i singoli telefoni la differenza si fa più sottile, con iOS che rappresenta il 15% in più in termini di percentuale di ordini e traffico rispetto ad Android. I dispositivi iOS forniscono solo un AOV leggermente superiore ad Android, 107 dollari contro i 96 dollari di Android.

 

 

Carta addio? Ma no, sei famiglie italiane su 10 stampano ogni settimana

Si fa presto a dire digital, poi alla prova dei fatti, il documento di carta ha ancora, almeno in Italia, una sua rilevanza: il 59,5% delle famiglie italiane (contro una media europea del 53%) stampa ancora documenti cartacei almeno una volta alla settimana. Lo rivela una ricerca commissionata da Epson in Italia, Spagna, Germania e Regno Unito e condotta su 2.000 famiglie in ogni Paese con figli di età compresa tra 5 e 16 anni. Dai genitori ai figli, più avvezzi alla tecnologia, la maggior parte delle famiglie necessita regolarmente di stampare, che si tratti di documenti ufficiali (ricevute fiscali, estratti conto bancari, fatture telefono/luce/gas), di fotografie, di compiti e comunicazioni scolastiche o di documenti lavorativi.

Grafico - Quali documenti si stampano a casa 300dpi 12cm

«Nonostante l’aumento del numero di dispositivi elettronici portatili, la stampa di documenti su carta è ancora oggi il metodo preferito dalle famiglie italiane ed europee per avere un documento da conservare» spiega Renato Salvò, Business Manager Area Consumer di Epson Italia.

Oltre il 70% degli italiani infatti preferisce avere i documenti importanti in forma cartacea.
Nonostante nell’ottobre 2014 il numero di dispositivi mobili attivi abbia superato, per la prima volta in assoluto, la popolazione mondiale (dati GSMA Intelligence), dalla ricerca Epson emerge che per i documenti importanti come contratti o ricevute di acquisto il 34,1% degli italiani intervistati (40% media europea) afferma di preferire la versione cartacea a quella elettronica; mentre il 39,5% (38,6% media europea) li tiene in entrambi i formati, con il risultato che oltre il 70% delle persone stampa questo genere di documenti, ritenendo più sicuro il supporto cartaceo.

Grafico - stampati o digitale 300dpi 9,5cm

La praticità è un altro aspetto importante che incide sulla scelta di stampare un documento anziché disporre semplicemente della versione elettronica. In molti casi, ancora oggi, i documenti più importanti possono essere solo cartacei. Il 35% degli intervistati (40% media europea) afferma di stampare un documento poiché richiede una firma tangibile, mentre un ulteriore 28,9% (35% media europea) fa riferimento alle esigenze di natura legale associate alla conservazione di una copia cartacea. In effetti molte organizzazioni non sono ancora pronte per accettare ed elaborare documenti elettronici, e alcuni requisiti governativi e normativi a livello regionale impongono l’utilizzo dei documenti cartacei, limitando di conseguenza la diffusione del formato elettronico.

Sembra che nel Paese della persistenza della cartamoneta dove oltre il 31% non ha mai navigato su web, il Digital divide implichi anche la necessità/bisogno psicologico (e spesso, come abbiamo visto, anche reale) di stampare su carta. Perché si sa, verba volant ma scripta…

Packaging e spreco alimentare: confezioni piccole e più informazioni per agevolare i consumatori

Illustrazione: Guido Scarabottolo dal 20° Rapporto Comieco

Qual è il rapporto tra i cittadini e l’utilizzo di imballaggi e qali relazioni intercorono tra imballaggi e spreco alimentare? È questo il focus dell’indagine condotta da Swg e Last Minute Market presentata nel corso di un incontro organizzato da Comieco dal titolo Consumatori in carta e cartone: uniti contro lo spreco.

Dalla ricerca di Swg (condotta su un campione di 1000 famiglie) emerge che le modalità di acquisto dei generi alimentari ha una diretta correlazione con il confezionamento. Poiché la maggior parte dei consumatori tende a fare la spesa con una frequenza elevata (il 37% 2-3 volte la settimana, il 15% ogni due giorni e il 17% ogni giorno), si cquistano per il 64% dei casi confezioni piccole per motivi diversi: perché si è soli o in due in famiglia, perché si vuole avere cibo sempre fresco o perché si spreca di meno. Il restante 36% che acquista confezioni più grandi lo fa essenzialmente per convenienza. Tuttavia il 63% butta via confezioni già aperte e parzialmente consumate e il 10% confezioni intere giunte a scadenza.

confezioni acquistate

Quanto all’utilizzo dell’imballaggio, la stragrande maggioranza lascia nell’imballaggio i prodotti acquistati (pasta fresca l’86%, latticini l’82%, 68% formaggi). Vengono invece “riconfezonati” o lasciati sfusi frutta e verdura.

I consumatori preferiscono poi contenitori di cartone e sacchetti di carta soprattutto per la loro riciclabilità (49 e 58% rispettivamente).

Le etichette e le informazioni

La quasi totalità degli italiani legge le etichette prima dell’acquisto, con una maggiore attenzione sulla provenienza (88% sempre+qualche volta), la data di scadenza (98%) e gli ingredienti compresi i conservanti (87%). Frutta, verdura e salumi presentano però informazioni meno leggibili.

Confezioni e spreco

Da questo particolare angolo visuale si registra la consapevolezza che vi è stato un cambiamento negli ultimi anni. Infatti il 32% degli italiani prima di andare a fare la spesa controlla nel frigorifero o nella dispensa le date di scadenza dei prodotti. Il 28% lo fa quando li ripone in frigo o dispensa dopo l’acquisto e il 40% quando li utilizza per cucinare.

Quando poi il cibo è scaduto o è andato a male, il 51% adotta un comportamnto responsabile e butta il cibo nell’umido e il pack nella differenziata, ma ben un quarto degli italiani (il 27%) gtta tutto nell’indifferenziata. Il 13% butta il cibo nell’indifferenziata e l’imballaggio nella differenziata e il 9% il cibo nell’umido e l’imballaggio nell’indifferenziata.

Vi è comunque una generale consapevolezza sul ruolo dell’imballaggio, visto che il 67% ritiene che le prestazioni degli imballi sono cambiate negli ultimi dieci anni e il 68% è al corrente che molte soluzioni di imballaggio sono studiate per preservare i cibi. Anzi il 51% vorrebbe che tali funzioni fossero sempre comunicate sulla confezione.

Proprio a questo riguardo Emilio Albertini di Gifasp (l’associazione dei fabbricanti di astucci e scatole in cartoncino e cartone) sottolinea che da tempo esistono imballaggi attivi, che rilasciano sostanze antimuffa per aumentare la durata dei prodotti confezionati, e imballaggi intelligenti, con inchiostri che cambiano colore in presenza di cattiva conservazione o scadenza. Ma, è emerso dalla discussione, che il fattore critico è nel costo di tali imballaggi che non li fanno preferire dalla Gdo. Anche il tema dell’allungamento della shelf life, è stato evidenziato, non ha alcun riflesso con le pratiche antispreco. Anzi, è molto più collegato con le necessità logistiche della distribuzione più che da motivazioni antispreco per i consumatori.

Dal canto suo Comico (nel 2014 sono stati raccolti 3,1 milioni di tonnellate di carta e cartone) sta operando con diverse modalità per favorire il dialogo tra gli attori della filiera del packaging e migliorare la comunicazione nei confronti del pubblico. Un esempio è costituito dal Clud Carta e Cartoni, progetto che conta più di 200 aziende iscritte, nato per promuovere le best practice e le ultime innovazioni in fatto di packaging sostenibile nei confronti di quelle realtà che utilizzano imballaggi in carta e cartone per confezionare e movimentare i loro prodotti.

Grupp VéGé dai bollini delle origini ai beacon con Check Bonus

Sono già cento in pochi mesi, dall’avvio del progetto a maggio, i punti vendita del Gruppo Végé che hanno resa operativa la tecnologia beacon grazie alla piattaforma Check Bonus. Si tratta della prima e più significativa iniziativa basata sulle promozioni personalizzate nella grande distribuzione alimentare italiana.

I dispositivi beacon, infatti, sono sensori Bluetooth che rilevano a distanza la presenza e la posizione degli smartphone, attivando con essi uno scambio di dati. In questo modo, il punto vendita è in grado di interagire con il cliente sin dal suo ingresso e di seguirlo mentre si sposta tra le corsie, fornendogli informazioni sui prodotti e segnalandogli novità e promozioni con un livello più o meno accentuato di personalizzazione.

«Questo progetto – afferma Giorgio Santambrogio, Amministratore Delegato di Gruppo VéGé – è un passo importante nel processo di modificazione del paradigma del punto vendita, collocando realmente e definitivamente al centro di tutto la relazione con l’individuo e i suoi bisogni. Intendiamo fare di ognuno dei nostri 1800 punti vendita un supermercato personalizzato che faccia vivere al cliente una shopping experience ‘tailor made’, calata nell’ambito territoriale ma anche aperta a collaborazioni e sinergie innovative».

Per inciso, l’App Check Bonus, già utilizzata da catene come Coin, Mondadori Store, Brico Sport, Salmoiraghi & Viganò, è già stata scaricata da 110 mila persone.

Unione consumatori: consumo futuro nel segno di personalizzazione, omnicanalità e assistenza personalizzata

Massimiliano Dona, segretario Unione nazionale consumatori

Il futuro dei consumi è già qui, con la personalizzazione dei prodotti, nuove esperienze di consumo e assistenza postvendita personalizzata.

Così scrive nel suo blog pubblicato su Today Massimiliano Dona, segretario nazionale dell’Unione Consumatori, all’indomandi del workshop “Consumo futuro, retail engagement e customer care”, svolto ieri a Roma, in occasione dei sessant’anni dalla fondazione dell’associazione.

«Il mondo dei consumi – osserva Dona – è in una fase di rapido cambiamento spinto dalla digitalizzazione: se negli ultimi anni la diffusione di internet e dei nuovi device come smatphone e tablet aveva cambiato soprattutto le nostre abitudini personali, d’ora in avanti cambierà radicalmente il nostro modo di fare acquisti!»

Alcuni segnali di questo cambiamento si stanno già affacciando al nostro quotidiano.

«Penso alla personalizzazione di beni e servizi: può sembrare paradossale che nella società di massa sia possibile una così accentuata customizzazione eppure -solo per fare un esempio- si può persino costruire il proprio gelato industriale su misura, come proposto da Algida nei suoi Magnum store».

Un’altra tendenza riguarda il desiderio del pubblico dei consumatori di fare shopping in modo esperienzale. «Secondo una recente indagine del Centro studi Unioncamere in collaborazione con Swg – segnala Dona – ciò che ancora convince il 51% di italiani a preferire il “negozio tradizionale” al web è la possibilità di vivere l’esperienza diretta della merce, il contatto umano e la fiducia che ne deriva, la consegna immediata. Ecco perchè ormai il 60% di chi compra sia in negozio, sia online tende a fondere questi due ambiti nel processo di acquisto: ricerca del prodotto in rete, visita nel negozio per provarlo, ricerca dell’offerta migliore sul web e solo poi si decide se acquistarlo in store o online. Magari sullo stesso sito della catena visitata anche fisicamente. A patto che l’offerta sia vantaggiosa».

Vi è poi una terza chiave di lettura per leggere i nuovi trend di consumo, ed è l’aspirazione ad avere il meglio dal servizio di assistenza. «È finita l’epoca di una generica customer satisfaction (perché a pensarci bene la soddisfazione dipende dalle aspettative e queste sono diverse da persona a persona) e lancio di una digital care sempre più ad personam (come ci ha spiegato Vodafone durante il workshop raccontando il progetto Care». Si tratta di un programma partito il 12 ottobre che punta “a consolidare e valorizzare il rapporto di fiducia con i clienti, attraverso una serie di azioni concrete, negli ambiti della connettività, della trasparenza, del riconoscimento della fedeltà del cliente, e della accessibilità ed efficacia del servizio”.

«Insomma il futuro dei consumi – conclude Dona – è adesso: senza dimenticare, ovviamente, di verificare ogni giorno se è il caso di fidarsi di tutta questa attenzione al cliente!».

A margine, un giudizio sul decreto liberalizzazioni da poco varato dal Governo che proprio i consumatori ha deciso di tutelare poco. «Una pessima legge – commenta Dona – dannosa per i consumatori. La concorrenza è solo nelle parole del titolo. Per il resto, non solo non vi è traccia di libero mercato nel provvedimento, ma si fanno addirittura passi indietro, difendendo i privilegi delle lobby esistenti che già controllano il loro rispettivo settore. Speriamo che il Senato la stravolga».

Gdo contro lo spreco/2. Pam lancia “Reimpiatta il piatto”, concorso zero waste

Incrocia la passione per la cucina “creativa” con la sensibilizzazione alla gestione degli avanzi alimentari e alla lotta allo spreco il nuovo concorso web lanciato da Pam Panorama, “Reimpiatta il piatto”.

Dal 5 ottobre sino al 4 novembre sul portale reimpiattailpiatto.pampanorama.it, si potrà caricare l’immagine e il nome di un piatto, la cosiddetta “ricetta originaria”, e l’immagine e il procedimento della “ricetta di recupero”, ovvero la ricetta ottenuta utilizzando come ingrediente principale gli avanzi della ricetta originaria. I piatti saranno valutati da una giuria di esperti e dal giudizio popolare mediante votazione sul sito, e le migliori cinque ricette potranno accedere al montepremi finale di 5.000 euro in buoni spesa. Il concorso è aperto a tutti i possessori di Carta Per Te Pam Panorama previa iscrizione al sito pampanorama.it.

Sembra proprio che le insegne italiane si stiano sensibilizzando verso i temi della responsabilità sociale d’impresa e ambientale, puntando a coinvolgere un consumatore che in certi casi era arrivato prima di loro, e intercettandolo sulla strada del web e dei farmers’ market.

Gdo contro lo spreco/1: parte la collaborazione tra Végé e Last Minute sotto casa

Gruppo VéGé si conferma realtà sensibile e attiva in materia di responsabilità sociale d’impresa e di sostenibilità avviando una partnership con Last Minute Sotto Casa (LMSC), il portale nato per mettere in contatto “in tempo reale” esercizi commerciali che si trovano a smaltire generi alimentari prossimi alla data di scadenza e consumatori interessati ad acquistarli, beneficiando di consistenti sconti sui prezzi al pubblico.

Con questa collaborazione, la prima attivata su scala nazionale tra un’organizzazione della Moderna Distribuzione e Last Minute Sotto Casa, Gruppo VéGé mette in atto un’iniziativa concreta nella lotta allo spreco alimentare.

Secondo il ministero dell’Ambiente il valore dello spreco alimentare in Italia è pari a 8,1 miliardi di euro l’anno. Dei 3,7 milioni di tonnellate di cibo sprecato, 300 mila tonnellate sono quelle che si realizzano nella distribuzione commerciale. Secondo la Relazione 2013 dell’Agea (Agenzia Italiana per le erogazioni in agricoltura) sulle attività di distribuzione degli alimenti agli indigenti, nel 2013 sono state raggiunte oltre 4 milioni di persone dal sistema di distribuzione di prodotti alimentari attraverso le sette organizzazioni caritative iscritte all’albo dell’Agea.

Nel mondo si stima che lo spreco di cibo riguardi 1,3 miliardi di tonnellate per un valore di circa 750 miliardi di dollari.

Un sistema agroalimentare basato su trasparenza e collaborazione per Fare Meglio Italiano

Quello che è andato in scena venerdì a Expo, con il convegno Fare Meglio Italiano per la regia di GS1 Italy, è con ogni probabilità l’inizio di un diverso approccio nelle relazioni tra industria, distribuzione e mondo agricolo, tutte e tre parti essenziali di un sistema vitale e competitivo, quello dell’agroalimentae italiano che, meglio di altri, ha superato gli anni della crisi.

Non senza difficoltà, indubbiamente. Ma proprio per questo il sistema ha in sé le capacità di segnare un cambiamento nelle relazioni, partendo – ha detto il presidente di Gs1 Italy Marco Pedroni – dalla capacità e dalla volontà di riconoscersi reciprocamente, di riconoscere con un approccio pre-competitivo di essere parte di un progetto comune per far diventare più forte il sistema agroalimentare italiano.

«Riconoscere le specificità dell’agricoltura italiana è importante per tutti gli attori, così come bisogna riconoscere all’industria che è stata fondamentale per dare valore all’agroalimentare italiano. La distribuzione, poi, deve essere considerata fondamentale per l’economia del Paese, come avviene dovunque nel mondo», ha precisato Pedroni.

A dare fondamento scientifico a queste premesse ci hanno pensato Giorgio Di Tullio, filosofo dell’innovazione ed Enzo Rullani, presidente Tedis Center Venice International University.

Per Di Tullio, il concetto di filiera verticale basata sul prodotto deve lasciare il passo a un ecosistema basato sulla condivisione delle conoscenze, sulla trasparenza, sulla tracciabilità e sulla sicurezza. «Il prodotto oggi è il processo ed è un atto di condivisione. È urgente ricercare e fissare i requisiti pre-competitivi del sistema, come primo passaggio di una strategia di revisione dello scenario complessivo, Senza definire il contesto pre-competitivo, si continuerà a interpretare il modello come continua contrattazione tra parti: non l’integrazione governa il sistema, ma la contrapposizione». E ha aggiunto: «Ragionare in prospettiva sistemica e secondo una logica di rete, significa comprendere la propria identità come parte di un ecosistema multidimensionale, dotato di strutture concettuali e di parole chiave, di comportamenti del tutto diversi da quelli conosciuti e attivati».

Sulla stessa onda anche Rullani, per il quale il modello di filiera lineare, ereditato dal Novecento e ispirato alla logica fordista della massima integrazione, ha fatto il suo tempo. Servono relazioni collaborative tra imprese che pur restando autonome, investono sulla relazione. Quali sono queste filiere diverse da quelle passate? «Per stare nelle filiere globali – ha affermato Rullani – bisogna imparare a lavorare in rete. Ma le reti stanno in piedi se rendono e generano valore. Occorre quindi superare i difetti di fondo: le reti spesso nascono per innovare ma nel tempo diventano conservatrici. Per questo sono necessarie idee-motrici, una concezione del vivere e del lavorare con un respiro molto più ampio, come la sostenibilità, l’ancoraggio al territorio (italianità) come differenza distintiva, non solo in termini di origine, ma di qualità e di promesse fatte al cliente. Il sistema agroalimentare italiano può essere la guida di questa trasformazione, valorizzando l’italianità attraverso la tracciabilità dei processi produttivi e presidiando i significati connessi al produrre e al vivere (estetica, sostenibilità, etica)».

I pilastri (i valori) sui quale far poggiare il processo di valorizzazione della filiera agroalimentare italiana sono, per Pedroni, quattro: la condivisione e la collaborazione delle diverse componenti, con il riconoscimento della molteplicità di produzioni, tradizioni e culture legate al cibo; la trasparenza, visibilità e sicurezza nei confronti dei consumatori; l’attenzione estrema alla tutela della legalità; le soluzioni per formare e valorizzare i giovani per la sostenibilità futura del settore stesso.

«Occorre lavorare su due punti – ha poi riassunto il presidente di Coldiretti Roberto Moncalvo -, vale a dire prendere atto che ciò che differenzia l’agricoltura italiana (in termini di struttura e di imprese) è figlio della nostra storia e della nostra cultura. Ed è un patrimonio da valorizzare. In secondo luogo spingere su un percorso di trasparenza perché il consumatore possa scegliere. Dobbiamo puntare sulla massima dimensione di italianità dal campo alla tavola. E soprattutto dobbiamo creare modelli nuovi, evitando che una volta terminata la fase di individuazione degli obiettivi comuni, quando si va nella fase operativa ci si torni a chiamare fornitori e clienti».

Da parte delle istituzioni, il ministro delle Politiche agricole Maurizio Martina non ha fato mancare il sostegno del Governo a costruire le condizioni per accompagnare la trasformazione. «Lo sforzo che deve essere fatto da tutti – ha spiegato Martina – riguarda la costruzione di un sistema agroalimentare che affronti e risolva il nodo delle difficoltà di rapporti nella filiera e in particolare ripensi a come viene scaricata la catena del valore. Abbiamo agricolture forti con imprese agricole deboli. E per noi il tema dominante è come consentiamo alle persone di stare nell’impresa agricola».

«Le leve su cui agire – ha poi concluso Pedroni – sono la fiducia, la trasparenza, le esperienze di altri sistemi. Accordi di ampio respiro, riduzione delle intermediazioni che creano inefficienza, apertura e dialogo verso i cittadini-consumatori per una trasparenza informativa sui prodotti e sui processi. Queste le sfide che hanno davanti le imprese e le loro persone. Siamo anche convinti che le azioni pre-competitive (dove è importante il ruolo concreto giocato dalle nostre associazioni) siano determinanti per valorizzare l’agroalimentare italiano».

Tra made in Italy o Italian made la risposta giusta è informazione trasparente

Eleonora Graffione (presidente Coralis) presenta Etichètto

Con i riflettori puntati sul cibo e sull’alimentazone (Expo non sta passando inutilmente) il dibattito sul made in italy si fa ogni giorno più stringente. Da un lato l’obiettivo del ministero delle Politiche agricole di portare l’export alimentare a 50 miliardi di euro nel giro di pochi anni, dall’altro la consapevolezza che comincia a farsi strada nei protagonisti della filiera che, per raggiungerlo, occorre unire gli sforzi e agire in maniera coordinata. In mezzo i cittadini consumatori che vogliono sempre più spesso sapere che cosa mangiano, dove e come è allevato l’animale, dove e come è coltivato quell’ortaggio o quel frutto.

Gli esempi di questo concentrarsi di interesse sopra e attorno al cibo si moltiplicano. Si è appena conclusa la battaglia sul ritorno dell’indicazione dello stabilimento di produzione in etichetta, che già se ne profila un’altra per affiancargli la dichiarazione d’origine del prodotto. E il ministro Maurizio Martina lancia una nuova sfida all’Europa: «Ribadito alla Commissione UE il no ai formaggi senza latte fresco. Avanti per la tutela dei consumatori e dei nostri produttori», ha twittato. E venerdì 2 ottobre a Expo il convegno di GS1 Italy | Indicod-Ecr con il titolo Fare meglio italiano vuole sviluppare l’idea di un ecosistema agroalimentare italiano che, come ha spiegato recentemente il presidente dell’associazione Marco Pedroni, «deve fare un passo avanti, superando gli schemi che vedono contrapporre gli interessi di coltivatori, industria di trasformazione, distribuzione. Occorre affrontare e sviluppare insieme i temi precompetitivi nelle relazioni tra imprese».

In questo filone si inserisce anche l’incontro che si è svolto qualche giorno fa al padiglione CibusèItalia-Federalimentare, che ha cercato di trovare una via d’uscita alla contrapposizione tra Made in Italy o Italian Made. Se cioè I prodotti alimentari “Made in Italy” debbano essere prodotti interamente in Italia, dal campo allo scaffale, oppresse sia possibile definire prodotto italiano anche quello che utilizza materie prime estere?

Tema, come si è visto particolarmente spinoso, perché tra chi sostiene il primo e chi invece vede nel mercato completamente aperto una opportunità di crescita del saper fare italiano, le distanze sembrano incolmabili. Peraltro accettando la prima ipotesi, buona parte dell’industria agroalimentare italiana sarebbe fuori gioco, mentre nel secondo caso si premierebbe solo ed esclusivamente l’origine della materia prima.

Roberto Montalvo (Coldiretti) a sinistra e Roberto Brazzale (Gruppo Brazzale)
Roberto Montalvo (Coldiretti) a sinistra e Roberto Brazzale (Gruppo Brazzale)

Nela fattispecie il presidente di Coldiretti Roberto Moncalvo afferma: «Secondo quanto emerso dalla consultazione svolta dal Ministero delle Politiche agricole il 96,5% dei consumatori  ritiene necessario che l’origine dei prodotti agricoli debba essere scritta in modo chiaro e leggibile nell’etichetta. In un difficile momento di crisi bisogna portare sul mercato il valore aggiunto della trasparenza e della verità per combattere la concorrenza sleale e rispondere alle reali esigenze dei consumatori. E quando si parla di importazione necessaria di materie prime alimentari bisogna ricordare anche che esistono aree agricole non più coltivate perché non c’era più convenienza, e che invece vanno rivitalizzate».

Proprio questo è il punto di partenza del ragionamento di Roberto Brazzale, presidente del Gruppo Brazzale (azienda lattiero-casearia che produce oltre al formaggio Gran Moravia – in Repubblica Ceca -, burro, quattro prodotti DOP e sei diversi marchi): «Per riuscire a soddisfare la domanda complessiva di alimenti, composta dalla somma dei consumi interni più la quota destinata all’export, l’Italia deve necessariamente importare materie prime da trasformare, cioè prodotti finiti già trasformati all’estero. Diverse filiere alimentari non sono e non potranno essere autosufficienti, tanto è vero che tante produzioni italiane sono autobloccate, per sostenere i prezzi. La questione fondamentale, perciò, diventa: vogliamo che questo cibo sia prodotto all’estero e poi venduto in Italia, oppure vogliamo sempre più intercettare questo flusso, diventando sempre più protagonisti nell’imponente fabbisogno di produzione e trasformazione di alimenti per soddisfare la domanda interna e quella di export, potenzialmente illimitata?».

Sempre sul fronte industriale la testiminianza di Pasquale Petti, amministratore delegato dell’omonimo gruppo conserviero va proprio nella direzione di una saldatura con il mondo agricolo: «Per il nostro progetto di marca utilizziamo solo pomodoro toscano lavorato a bassa temperatura; per questo abbiamo deciso di far entrare al nostro interno, con quote societarie, la parte agricola del processo produttivo, ovvero l’Asport (Associazione produttori ortofrutticoli toscani), per garantire ai consumatori finali oltre a qualità ed innovazione dei processi di trasformazione, anche la tracciabilità e la provenienza della materia prima».

Ragioni che non fanno una piega, quelle dei coltivatori e quelle dell’industria alimentare: entrambi vogliono salvaguardare il proprio business. Ma la questione dirimente sta invece nel consumatore, nel cittadino che vuole trasparenza, informazione chiara. Poi potrà scegliere se acquistare un prodotto che arriva da materia prima estera (lo fa già con l’olio extravergine) o se invece acquistare solo prodotto italiano. Ma almeno che ne sia informato, senza sotterfugi e ipocrisie. L’esempio portato da Eleonora Graffione, presidente di Coralis va in questa direzione. Etichètto è infatti il progetto annunciato alcuni mesi fa e che ora è entrato nel vivo della sua attuazione per 150 prodotti di una clear label che identifica i prodotti italiani (a partire dal campo o dall’allevamento) in seguito a un protocollo messo a punto da Coralis e sottoscritto dai vari produttori. «Etichètto fa della trasparenza e della garanzia etica i propri principali valori, esaltando, quando reali, le migliori caratteristiche dei produttori. È alleanza con tutte le parti: coltivatori, produttori, clienti», ha affermato Graffione.

Sulla questione, quindi, si procede a ranghi separati, anche se in linea di principio vi è un sentire comune, che però non ha trovato ancora una sintesi condivisa. Stanno maturando i tempi perché l’agroalimentare si faccia sistema (come recita il sottotitolo del convegno di GS1 Italy), superando steccati e contrapposizioni di parte e pensi principalmente ai cittadini consumatori?

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