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L’olio extravergine di oliva? Bisogna assaggiarlo dice l’Onaoo. E a Expo un contest mondiale tra assaggiatori

L’industria olivicola nazionale, alfiere dell’olio extravergine d’oliva (sono oltre 40 gli oli Dop e Igp) sta guardando con una certa apprensione l’evolversi di questa stagione , dopo il disastro della campagna 2014-2015 che si è chiusa con un calo della prduzione del 50%. «La campagna olivicola 2014/2015 – commenta Marcello Scoccia, Capo Panel e Vice Presidente Onaoo –  verrà ricordata come una delle peggiori in Italia sia in termini qualitativi che quantitativi. Basti pensare che la produzione di oli vergini (in cui rientrano gli extra vergini di qualità, i vergini, i lampanti, cioè quelli di categoria inferiore) non ha superato le 200.000 tonnellate, in relazione alla media degli anni precedenti che si aggira sulle 300.000/400.000 tonnellate. Si è addirittura registrato un calo dell’80% in alcune Regioni del centro Italia. La causa principale? Il meteo e l’attacco da parte di parassiti (nel dettaglio, la mosca olearia “Bactrocera Olea”) che quest’anno si è propagata da Nord a Sud condizionando la quantità dell’olio».

Se a questo aggiungiamo chein Italia se ne consumano più di 650 mila tonnellate, si comprende che i ripetuti allarmi contro la presunta invasione di oli “taroccati” lanciate dalle organizzazioni agricole possono apparire strumentali. L’industria olearia ha sviluppato una grande maestria nella creazione di blend (di cui sci instoremag si è già occupato), su cui si è costruito il successo all’estero dell’olio evo italiano. Su un altro versante, l’Onaoo (, l’Organizzazione Nazionale Assaggiatori Olio di Oliva) ha sviluppato da quando è nata nel 1983 a Imperia, una metodologia di assaggio che consente di valutare la qualità dei prodotti. E non è un caso che siano ormai diversi i buyer delle catene distributive che hanno frequentato i suoi corsi.

Il Presidente Lucio Carli afferma che «Insegnare l’assaggio dell’olio di oliva è indispensabile affinché ogni individuo sappia utilizzare al meglio le proprie capacità di valutazione organolettica del prodotto e diventi così lui stesso il primo valutatore. Ma prima di difenderne la qualità è necessario conoscerne l’incredibile biodiversità: avere più di 40 DOP è straordinario, purtroppo nessuno le apprezza».

La figura dell’assaggiatore, spiega il responsabile scientifico di Onaoo Mauro Amelio, ha un ruolo fondamentale per le aziende, nella valutazione del prodotto finale, ma anche durante tutto il processo della filiera produttiva, importante nell’individuare gli eventuali “difetti dell’olio” che possono verificarsi prima o dopo la trasformazione delle olive. In tal modo, i produttori possono intervenire, risalendo all’origine del difetto e preservando le annate successive.

I corsi si tengono abitualmente presso la sede centrale di Imperia ma, vista la richiesta sempre più intensa, sono attivi anche i corsi online. Onaoo invia una campionatura di oli da analizzare col docente in una seduta telematica. Un servizio perfetto anche per i residenti all’estero o per gli stranieri, con lezioni in lingua. La scuola organizza, inoltre, corsi negli Stati Uniti, Sud Africa, Taiwan, Turchia, Tunisia e Marocco, intervallati da viaggi annuali in Spagna, Grecia, Marocco e Portogallo.

A Expo l’associazione sta preparando  la “Sfida Mondiale Assaggiatori Olio d’Oliva Onaoo (The Worldwide Olive Oil Tasters’Challenge by Onaoo)”. Il 13 Settembre presso il Padiglione Italia,  cinquanta concorrenti di tutto il mondo si sfideranno in due prove: una di assaggio e una teorica, con test di valutazione degli attributi organolettici positivi e negativi, individuazione e riconoscimento delle origini, ed un test sulle cultivar, le tecniche di coltivazione, produzione e trasformazione, l’analisi sensoriale, la legislazione, il mercato. In palio il trofeo di miglior assaggiatore mondiale di olio d’oliva.

Saldi estivi: + 4% nel primo week end. Federdistribuzione: liberalizzare le promozioni

Partono bene i saldi estivi. Nel primo week-end le vendite – rileva Federdistribuzione – hanno registrato un +4% rispetto allo scorso anno, con risultati migliori il sabato rispetto alla domenica, nonostante il caldo torrido che ha spinto molti italiani a rimanere in casa rimandando di fatto gli acquisti. Gli sconti sono stati significativi e in linea con quelli degli scorsi anni, con variazioni dal 30% al 70% in base ai capi e alle strategie di ogni singola insegna.

«Nei punti vendita della Distribuzione Moderna Organizzata – commenta il presidente di Federdistribuzione Giovanni Cobolli Gigli – è stato possibile trovare un grande assortimento e una forte scontistica, fatti che hanno stimolato gli acquisti anche in un momento nel quale ancora prevale un atteggiamento di grande prudenza da parte delle famiglie».

Per il retail, penalizzato dalla crisi dei consumi la stagione dei saldi è un indicatore di fiducia e un’iniziezione di energia che dà indicazioni anche per i periodi successivi.

«Questi risultati – aggiunge Cobolli Gigli – dimostrano anche che, se opportunamente stimolato con iniziative commerciali, il consumatore reagisce e torna a spendere. Per questa ragione riteniamo importante la piena liberalizzazione delle promozioni nei prodotti non alimentari, un provvedimento che darebbe maggiore libertà di gestione dei propri stock e assortimenti alle imprese e più occasioni di acquisto conveniente ai cittadini».

Gfk: nella società sorprendente la marca diventa icona e stringe un nuovo patto con le persone

Nel suo seminario annuale Gfk traccia la strada per i marketer e i comunicatori delle imprese e focalizza l’attenzione sulle dinamiche della grande trasformazione in atto.

Il marketing non può più utilizzare gli strumenti fin qui abitudinari, perché il consumatore appartiene ormai al secolo scorso e oggi ci si trova di fronte a individui, a persone. E la marca deve trasformarsi iin un’icona, perché viviamo un una società sorprendente, perché il mondo digitale sta creando sempre nuove opportunità di relazione e connessione tra le persone, non necessariamente soltanto fra i giovani ma tra le persone mature e anche anziane.

Gfk ha quindi focalizzato l’attenzione sulle dinamiche del cambiamento in corso sempre più veloce dove il digitale sta aumentando il dominio della realtà. È una nuova modalità di mettersi in relazione e di soddisfare nuovi bisogni di “realtà aumentata”, come dimostrano esempi quali alcuni padiglioni di Expo e il Mercato Metropolitano di Milano.

Questa nuova modalità, fatta di immagini e sensazioni che arrivano fino all’esperienza, chiede alle Marche un nuovo patto di presenza e di comunicazione.

«Oggi il consumatore è una persona che chiede alle marche o alle imprese di offrire sempre più sapere distintivo permettendogli di allargare il suo universo cognitivo», afferma Giuseppe Minoia di Gfk.

Non esistono quindi più target immutabili nel tempo. Esistono solo persone che massimizzano opportunità che le aziende offrono. Si tratta di target nuovi che possono non coincidere con le convinzioni, gli stereotipi e le attese

E alla marca si chiede un nuovo patto di fiducia, con la speranza davvero che la realtà aumenti grazie agli arricchimenti di marca, senza peraltro tradire e fare del male all’organismo vivente che chiamiamo Gaia.

Tutto questo porta anche a considerare la marca in una nuova logica identitaria: non più marca ma icona come segno evocativo di esperienze desiderabili.

Doxa-Assobirra, la fotografia del week end degli italiani in 10 risposte

Realizzata su un campione di 967 persone rappresentative della popolazione italiana adulta (18+anni), l’indagine Doxa-Assobirra scatta una fotografia di come gli italiani preferiscono trascorrere il week.-end. Ovviamente la birra la fa da padrona: nella cena del sabato sera (pizza e birra, un must), ma anche con l’aperitivo del venerdì sera.

“Questa ricerca conferma che la birra è adatta in ogni occasione e momento dell’anno, ma naturalmente per la sua naturale leggerezza è la stagione estiva quella in cui si registrano i livelli di consumo più elevati, con il 47% del totale annuo sorseggiati tra maggio e agosto – afferma Filippo Terzaghi, direttore di AssoBirra, l’associazione dei produttori di birra e malto che riunisce grandi aziende, marchi storici, microbirrifici e malterie.

Famiglia e amici sono le relazioni che si tende a coltivare di più nel week end, quando ci si dedica di più a cucinare e quando il barbecue domenicale sembra averecolpito al cuore gli italiani. La spesa? naturalmente il sabato, anche se non piace farla. Sul tema della shopping experience c’è ancora molto da lavorare…

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Meno volumi, più valore. Il futuro del cibo e i consumi passano da qui

Mentre si celebrano i fasti dell’italian food di cui Expo sta diventando sempre più il portabandiera, si rincorrono le occasioni di riflessione sul cibo, sulla sua produzione e sul suo consumo. Davide Paolini proprio nel corso di un incontro a Expo ha fatto un’affermazione sacrosanta: si parla troppo di cucina, di ricette, di chef e si parla poco della produzione, delle storie che stanno dietro alla materia prima.

È la battaglia pluridecennale di Carlo Petrini che, intervenendo alla presentazione del Food Industry Monitor realizzato dall’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo e BSI Bank ribadisce: «Dobbiamo liberarci dal raptus della crescita e concentrarci sul valore, non sulle quantità. È il valore che conta, vale a dire la qualità e, in altri termini, l’economia sana».

CIBO ANAFFETTIVO. Non ci stupiamo allora se  alla presentazione della ricerca voluta da Coop sul Futuro del cibo, il dibattito si è focalizzato sui risultati della ricerca Doxa sui consumatori di otto Paesi che parlano di un mondo futuro popolato di cibo anaffettivo ma utile a stare bene dal punto di vista fisico, più controllato e globale, più pratico e veloce ma non uno strumento di scambio affettivo. Un cibo che ci renderà meno felici, tanto è vero che se  in questo quadro il cibo sarà più “tecnologico”, le paure maggiori dei consumatori intervistati riguardano la manipolazione, l’inquinamento, l’elevato costo del cibo, la sua carenza.

C’è voluto un teologo come Vito Mancuso a sottolineare come lo scenario della ricerca sia gravido di preoccupazioni perché occorre pensare al cibo come nutrimento non solo per il corpo. «L’uomo è ciò che mangia – dice Mancuso – ma è anche emozioni e ideali. Il cibo nutre il corpo, la psiche, lo spirito. In una parla è libertà. E se non c’è capacità di relazione affettuosa non c’è l’uomo».

coop il futuro del ciboCIBO E UGUAGLIANZA. E proseguendo nel ragionamento, anche Marco Pedroni, presidente di Coop Italia ribadisce che il cibo è uno scambio di relazioni, di storie. Ed è l’idea di fondo del Supermercato del futuro, dove la tecnologia è al servizio di questa idea di scambio. «Vi è poi un tema sociale. In futuro non è detto che avremo il cibo uguale per tutti. ma il rischi è una dicotomia tra alta gamma per i pochi che se lo possono permettere e il cibo standardizzato e anche poco sicuro per molti. E quindi il tema del futuro del cibo riguarda la disuguaglianza. Oggi il 40%& delle famiglie italiane accetta compromessi sulla qualità e sicurezza di ciò che mangia. Su un altro versante molti guru del marketing ci dicono di occuparci di quel 10-20% di cosiddetti supershopper con ottimo potere d’acquisto. Noi diciamo che il nostro mestiere è offrire cibo buono e sicuro per tutti».

LE RAGIONI DELL’AGRICOLTURA. Da qui a qualche ragionamento sull’agricoltura scevro da prese di posizione di difesa, il passo è breve, perché tutto si tiene. Ebbene sull’agricoltura italiana ed europea le questioni da risolvere sono tante. «Compito della politica – afferma l’economista Giacomo Vaciago – è elaborare un piano di settore che abbia un orizzonte temporale sufficientemente lungo. Lo si può fare solo se si comincia a parlare di comunità. Oggi l’immagine del cibo italiano è alta: se è imitato, è perché è buono e piace. Ma l’agricoltura sconta i problemi strutturali delle dimensioni delle aziende, di un insufficiente raccordo con la vendita, di mancanza di persone, di difficoltà di un ricambio generazionale, anche se oggi molti giovani stanno tornando alla terra. Ma soprattutto occorre un piano strategico che solo la politica può mettere in campo, fatta da governi che durino nel tempo».

I problemi infatti sono molteplici. Li enumera il ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina: «Nel mondo agricolo operano soprattutto imprese familiari e la questione fondamentale è come tutelare il reddito di queste imprese. Vi sono problemi su alcune filiere come la zootecnia, dopo la fine delle quote latte. Vi  è un problema generazionale. Ma ricordo che le politiche di sostegno all’agricoltura sono di medio-lungo periodo, non di breve. E se guardiamo l’Italia da mondo, nei prossimi 15 anni 800 milioni di persone della classe media in molti paesi cambieranno dieta e sitile di vita. Se dobbiamo posizionare il prodotto alimentare italiano è lì che dobbiamo guardare».

CIBO DI QUALITA’ E LOCALE. Ancora Petrini fornisce qualche indicazione: «Alcune cose devono essere chiare all’industria italiana e alla distribuzione: a primeggiare sarà la valorialità del cibo, non si vince più applicando le tecniche del marketing. La gente non sposa più le quantità. Le riduce. Noi oggi globalmente produciamo cibo per 12 miliardi di persone. Lo spreco è enorme. E ricordo che Expo non è fatto per rendere forte l’offerta italiana, ma per discutere di questi temi.

Su valore del cibo ricordo solo che nel 1997 in tutti gli Stati Uniti c’erano circa 80 mercati dei contadini. Oggi sono 12 mila. Prima erano riservati alle élite, oggi si trovano anche nei quartieri ispanici delle grandi città. La richiesta è per il cibo di qualità e locale.Stanno cambiando molte cose e il trend del cambiamento è fortissimo. l’industria italiana delle capire in quale direzione va il trend.

Un’alto messaggio. La sostenibilità e la responsabilità sociale non sono elementi da prendere sottogamba. Ogni processo produttivo deve durare di più nel tempo. La sostenibilità è economica, produttiva, ambientale e la responsabilità sociale si misura sui produttori ben pagati, sui clienti ai quali comunicare non solo il buono ma anche il pulito e il giusto e sui collaboratori che devono essere messi nelle condizioni di trasferire la passione».

Il valore, quindi è l’asse attorno al quale sta ruotando il cambiamento. E anche Gianmario Tondato, Ceo  di un’impresa globale come Autogrill, è sulla stessa lunghezza d’onda quando osserva che anche nella ristorazione la formula del quick service restaurant sta cedendo il passo al casual dining. Il volume sta arretrando di fronte al valore. «I consumatori stanno convergendo a livello mondiale verso questo spostamento. O ce ne rendiamo conto o usciamo dai mercati. Come imprese dobbiamo attenderci risultati nel medio periodo creando storie coerenti a livello di sistema. Dobbiamo sempre porci il problema dove andare, in quale direzione muoverci».

Gourmet e regionalisti i Millennials bevono birra e mangiano sano

Valentina Simonetta, Marketing Manager HEINEKEN ITALIA, Federico Quaranta della trasmissione RAI Decanter, Alfredo Pratolongo, direttore comunicazione e relazioni istituzionali Birra Moretti e Marilena Colussi alla presentazione.

Amano il cibo e considerano l’alimentazione come identitaria. Si rapportano al cibo in termini di sapere, e hanno un forte legame con il territorio d’origine, ma sono anche attenti alla salute e all’ambiente e sono disposti, per il cibo, a spendere di più per acquistare cibi di qualità. È questa la fotografia del Millennial italiano, di entrambi i sessi, tra i 18 e i 35 anni, che emerge dal quinto Osservatorio Birra Moretti “generazione Buongustai” diretto da Marilena Colussi, sociologa dell’alimentazione e ricercatrice delle tendenze alimentari in collaborazione con Doxa Marketing Advice.

Infografica-Osservatorio-Birra-Moretti-2015_Generazione-BuongustaiUn’indagine interessante perché indaga una generazione, fatta di 12 milioni di individui, emergente e pronta a prendere le redini del Paese in un vicino futuro, ma già protagonista nei consumi, e perché, dopo tante ricerche anglosassoni, indaga nelle pieghe dello Stivale. “In questo se da un lato i Millennials italiani hanno molto in comune con i loro coetanei di tutto il mondo, la connettività, le dinamiche social, l’atttenzione alla salute e all’ambiente, ed è vero che le differenze con gli altri Pesi rispetto alle generazioni precedenti si attenuano, dall’altro hanno delle loro specificità forti – spiega Marilena Colussi -. Ad esempio, il forte legame con il territorio, che si esplica soprattutto nel food. Amano i piatti regionali e quando cucinano a questi si rivolgono per lo più. Però è una preferenza senza preclusioni, che non impedisce loro di apprezzare altre cucine regionali. È una generazione che si sente “italiana” solo quando va all’estero. Si sentono più legati alla propria regione.

 

Tutti pazzi per la birra, “facile” e informale

I Millennials italiani, 9 su 10, dichiarano di bere birra (525 intervistati su 602, pari all’87%) e, dato inimmaginabile fino a pochi anni fa, il 71% ama abbinarla a ciò che mangia, ritenendola degna compagna della cucina italiana e regionale nel 59% dei casi. E i dati si impennano ulteriormente quando a rispondere sono i “Beer Lover*, ovvero quei 3,4 milioni (il 28% dei Millennial) che nutrono nei confronti della birra una vera e propria passione privilegiandola, in maniera assoluta, rispetto a tutte le altre bevande e attribuendole valori che esulano dal puro contesto gustativo. Un trend in significativa crescita se consideriamo che solo nel 2010 non superavano il 17% (Osservatorio Birra Moretti “Italiani a Raggi Eat”).

 

Cibo buono, ma anche sano

Ai Millennial piace mangiare bene ma tra i primi pensieri c’è anche la salute. Se è vero, infatti, che per ben il 93% di essi la ‘buona tavola’ rappresenta uno dei piaceri della vita e che l’85% predilige la cucina saporita, è altrettanto vero che il 77% evita di mangiare ciò che pensa potrebbe nuocere all’organismo. L’aspetto salutistico, dunque, pare controbilanciare la pura ricerca del piacere del palato nel momento in cui si prendono in mano le posate: il 92% ritiene l’alimentazione uno dei pilastri fondamentali del proprio benessere, l’87% cerca di consumare prodotti freschi, il 67% cerca di ridurre i grassi, il 61% sta attento alle calorie, il 60% consuma alimenti integrali. Da evidenziare che 1 su 2 (il 54%) dichiara di consumare prodotti biologici e ben 1 su 3 (30%) cerca di evitare la carne.

 

Ieri astronauti (o rivoluzionari), oggi chef: l’aspirazione dei Millennials

L’82% dei Millennial italiani si considera un buongustaio. E buona parte di essi (77%) ama cucinare a tal punto che il 33,7% di loro ha frequentato corsi amatoriali di cucina o di degustazione di vini e di birre. Non a caso, il 44% e il 27% del campione indica rispettivamente fra le professioni preferite per il proprio futuro quella di chef e di sommelier e la percentuale sfiora il 48% quando a rispondere sono le donne, che reputano la professione dello Chef particolarmente aspirazionale. Potere dei media? Forse anche, visto che il 53% degli intervistati dichiara di apprezzare e seguire Master Chef. Infine, e nonostante le limitazioni economiche, ben l’86% degli intervistati si dichiara disposto a spendere di più per acquistare cibi di qualità.

I papà Millennials fanno acquisti online, di marca e premium: perché non rivolgersi (anche) a loro?

Sono più ottimisti riguardo alla situazione economica generale e alle proprie finanze, disposti a spendere di più senza perdersi in tediose comparazioni di prezzi, e, soprattutto, sono sempre più coinvolti nelle spese di casa, anche quelle che riguardano i figli: sono i “nuovi padri”, quelli della generazioni dei Millennials, dai 25 ai 34 anni. Un’audience secondo le ricerche di marketing decisamente interessante, specie per il segmento premium, perché più facilmente si lasciano convincere a spendere di più, si fanno influenzare dalla marca e tendono, ove possibile, ad acquistare online. Dunque industria e retailer dovrebbero iniziare a guardare di più a questo target, anche per prodotti, come quelli per l’infanzia ad esempio, tradizionalmente considerati “mammacentrici”. E farebbero bene a sviluppare strategie multicanali efficaci per intercettarlo.

Una ricerca di Initiative sui papà Millennials (dalla quale è derivata l’infografica qui sotto) mostra alcuni dati interessanti. Il 45% dei “nuovi papà” pensa che le marche giochino un ruolo importante nelle loro vite (contro il 39% degli uomini senza figli), tanto da essere portati a consigliarle (lo fa il 65% di loro, contro il 56% dei non papà e il 60% delle mamme). Sono iperconnessi, più di qualunque altro gruppo: il 62% possiede tre o più dispositivi e l’82% ha uno smartphone, dal quale effettua la maggior parte delle ricerche sui prodotti. I giovani padri sono anche sensibili alla responsabilità sociale d’impresa, e sono ottimisti verso il futuro: il 62% pensa che le aziende possono potenzialmente fare del bene e il 58% si sente più fedele verso marche che dimostrano di avere effettuato azioni positive per la società. Stiamo parlando di un gruppo che nel futuro prossimo costituirà la maggior parte delle famiglie con bambini, e la cui influenza è quindi destinata ad aumentare.

La ricerca è stata effettuata con interviste a oltre 5000 papà nella fascia 25-34 anni in 19 Paesi, Italia compresa.

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La sostenibilità dei prodotti a marchio crea reputazione per il retail alimentare

Quanto pesa la sostenibilità sulla reputazione delle marche e del retail alimentare? Una risposta significativa è arrivata da Gian Marco Stefanini di Web Research che, nel corso di Green Retail Forum, ha presentato i risultati di una ricerca effettuata sulle conversazioni nella rete, analizzando per un periodo di 36 mesi con un complesso sistema di algoritmi 670 milioni di pareri generici sulle marche industriali (MI), di cui 59 milioni riguardanti la sostenibilità, 172 milioni pareri sulle marche del distributore (MP), di cui 80 milioni riguardanti la sostenibilità. Sono state menzionate 157 linee di marche private riguardanti 16 insegne selezionate.

Da questa grande massa di dati, l’8,5% dei pareri lasciati in rete sulle marche industriali è riconducibile alla sostenibilità, mentre lo è il 46,6% di quelli sulle marche private. Solo questa prima rilevazione mostra la distanza tra i due ambiti, nonostante la quota di mercato delle marche private in Italia sia inferiore al 20%.

I netsurfer che esprimono pareri sono peraltro sufficientemente informati. Il 91% ha un’elevatissima consapevolezza del fatto che la marca privata indica il distributore ma non il produttore; il 90% sa che i produttori di marche private sono spesso leader di mercato e vendono referenze analoghe con etichetta propria presso le stesse insegne e l’88% riconosce l’appartenenza di marche private alla catena anche quando il nome non coincide.

«Tutto questo – afferma Stefanini – genera una reciprocità tra l’accrescimento dell’immagine che le marche private porta all’insegna proprietaria e quella che la stessa insegna della Gdo porta alla propria marca privata».

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Le oscillazioni del giudizio sulla sostenibilità.
Confrontando le categorie dei prodotti a marchio del distributore con quelle delle MI, senza “pesarle”, possiamo individuare quali categorie di prodotto connotano la sostenibilità e quali la erodono.

Primo risultato di una certa evidenza: «Possiamo dire – sottolinea Stefanini – che la reputazione sostenibile delle MP è il triplo della reputazione sostenibile delle MI, stando al popolo del Web».

giudizio sostenibilità

Approfondendo l’analisi e pesando il giudizio di ogni categoria di prodotto delle MP e delle MI per il volume dei pareri stessi, se ne ricava il valore di reputazione globale ponderata (MP/MI) per ciascuna delle insegne selezionate.

In questo caso i dati mostrano quali sono le categorie di prodotti che, pesate per popolarità, presidiano o no l’immagine di sostenibilità.

Se ne ricava che la reputazione sulla sostenibilità della MI è sostanzialmente neutra mentre quella delle MP ha un saldo decisamente positivo.

giudizio sostenibilità ponderata

«Tuttavia – annota ancora Stefanini – per quanto riguarda i prodotti alimentari a MI rispetto alla medesima rilevazione fatta l’anno scorso, i giudizi positivi (55,3%) sono calati del 2,5% e quelli negativi (42%) sono aumentati del 2,7%. Possiamo quindi ipotizzare che la sensibilità dei consumatori nei confronti della sostenibilità, almeno per quanto riguarda i prodotti alimentari a MI, sia consistente ma che la MI non stia sufficientemente tenendo il passo».

Come si muovono invece le marche del distributore?
«Sebbene i consumatori scrivano in rete molti più pareri riguardo ai prodotti a MI rispetto a quelli appartenenti alle MP, quando scrivono di sostenibilità, i pareri più numerosi sono, non solo in percentuale rispetto al proprio totale ma anche in termini assoluti, quelli riguardanti le MP. In buona sostanza, la sostenibilità è uno dei principali elementi caratterizzanti le MP.

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Peraltro non va sottovalutato il caso che chi scrive in rete di sostenibilità lo fa con maggiore competenza e in ambienti maggiormente specializzati quando giudica le MP più che le MI. Di sostenibilità delle MP parlano soprattutto gli esperti, intesi comunque non come addetti ai lavori, (che abbiamo escluso per scelta metodologica), ma come bene informati/appassionati».

Qual è il profilo di questi netsurfer?
I naviganti che nel web domestico scrivono sul rispetto della sostenibilità da parte delle MP sono prevalentemente donne, di fascia di età giovane media, digitano in prevalenza dal Nord, dalle aree metropolitane e urbane. Il concetto di sostenibilità delle MP non è uniformemente diffuso a livello socio demografico.

Tuttavia, anche limitatamente alle sole MP, la sostenibilità è il primo driver di acquisto solo per le linee dedicate.

#Obbligo_prodotto_dove, la Gdo entra in azione: raccolta firme per l’obbligo del luogo di produzione

Da sinistra: Beniamino Casillo, Vito Gulli, Raffaele Brogna, Mario Gasbarrino, Domenico Canzoniero, Eleonora Graffione, Francesco Pugliese, Giorgio Santambrogio

Un passo avanti nella battaglia per ripristinare l’obbligo di indicazione del luogo di produzione sulle etichette dei prodotti alimentari è stato compiuto nel corso del tavolo di lavoro durante il Green Retail Forum a Milano.

L’amministratore delegato di Unes Mario Gasbarrino, di Végé Giorgio Santambrogio ed Eleonora Graffione, presidente di Coralis si sono dichiarati d’accordo ad appoggiare la proposta espressa dall’amministratore delegato di Conad Francesco Pugliese sul dar luogo a una raccolta di firme, coinvolgendo i cittadini-consumatori nella abolizione di una «legge scellerata».

Ecco nelle parole di Pugliese la proposta, alla quale hanno aderito anche i due rappresentanti dell’industria presenti: Vito Gulli, amministratore delegato di Generale Conserve, che da tempo si batte – uno dei pochi, se non il solo, nel mondo industriale – contro questa stortura e Beniamino Casillo di Casillo Group.

Nel corso dell’incontro sono stati affrontati i temi chiave che stanno dietro a questa battaglia che, ricordiamolo, nasce dall’entrata in vigore a metà dicembre scorso del Regolamento europeo 1169/11 riguardante l’etichettatura dei prodotti alimentari che ha introdotto l’indicazione degli allergeni, la esatta composizione degli ingredienti (il caso dell’olio di palma è deflagrato proprio per questo motivo) con l’obiettivo di una maggiore informazione dei consumatori, ma ha reso facoltativa l’indicazione del luogo di produzione.

«Si tratta di una vera istigazione alla delocalizzazione – puntualizza Vito Gulli – e sul tema l’industria si è dimostrata miope. Inoltre ha generato una confusione che non fa bene a nessuno, perché la questione dell’etichetta si è sovrapposta al dibattito sull’origine della materia prima. Sgombriamo il campo da questa confusione. Sono due cose completamente diverse. Non nego però che la battaglia per la trasparenza porti con sé un rischio di nazionalismo, leghismo, salvaguardia dell’italianità: quel che conta è la trasparenza. Non solo. Qualcuno potrà dire che l’obbligo dell’indicazione dello stabilimento di produzione (peraltro condensato in una stringa di sei cifre) è salvo, ma non è la stessa cosa del luogo di produzione».

La battaglia della distribuzione, che peraltro indica il luogo di produzione sui prodotti a marchio, guarda avanti. Spiega infatti Mario Gasbarrino «Il motivo per cui dobbiamo intervenire non riguarda l’oggi, ma può succedere, e dobbiamo aspettarcelo, che qualsiasi nuovo proprietario straniero di un’azienda italiana possa decidere di lasciare la sede legale in Italia e produrre all’estero un prodotto connotato con un marchio italiano, che è sempre stato prodotto in Italia e come tale è conosciuto dai consumatori. Noi vogliamo che sia salvaguardata la trasparenza nei confronti dei cittadini consumatori. Poi saranno loro a decidere di acquistare un prodotto perché è fatto in Italia o un altro anche se non viene prodotto in Italia. Ma la trasparenza è fondamentale».

Non mancano le iniziative dei singoli distributori, come la stessa Unes che visualizza sull’etichetta a scaffale l’origine di produzione dei prodotti a marchio («ma stiamo pensando di estenderlo anche all’industria di marca», chiosa Gasbarrino) o Coralis, che con Etichètto segnala una selezione di prodotti di marca nati e prodotti in Italia.

Assordante il silenzio al riguardo delle associazioni di categoria dell’industria ma anche della distribuzione. Ne rende conto Raffaele Brogna che con Io Leggo l’etichetta ha dato vita prima che scoppiasse il caso a una raccolta di firme online e ha sollecitato la firma la distribuzione che ha aderito in gran numero a livello di insegna, mentre «ci sono stati tanti silenzi da parte delle associazioni e delle singole imprese industriali». In realtà la posizione dominante tra le imprese industriali, in qualche modo recepita dal Mise e dal Mipaaf, è che occorre lavorare in modo che l’obbligo di indicazione valga per tutti i paesi europei. Che è un tipico atteggiamento italiano per non affrontare un problema aprendo un’altra questione che darà origine a altri tavoli di discussione.

Sulle rappresentanze della distribuzione il pressing è forte, ma per ora non c’è una presa di posizione. La determinazione dei quattro retailer presenti all’incontro però è forte così come la consapevolezza di rappresentare, in quel contesto, la gdo italiana. Poi, quando partirà la raccolta di firme, probabilmente la compagine crescerà.

Il vino online, sempre più al femminile, sinonimo di convivialità e lifestyle

L’immagine dell’uomo che assaggia e decide, grande conoscitore di vitigni e cuvé, acquirente compulsivo di pregiate bottiglie d’annate rigorosamente straordinarie su siti online, non è poi così veritiera. O quanto meno non è più esclusiva. Perché in realtà anche l’altra metà del cielo, le donne, stanno sempre più interessandosi di vino. Secondo una ricerca Survey Lab di ExactEtudes per vente-privee, pioniere delle vendite-evento online che nel 2014 ha venduto in Europa 4 milioni di bottiglie, sui suoi soci, in Europa il 47% dei clienti che acquistano vino online è donna, tra i 30 e i 40 anni; in Italia, la percentuale si assesta al 39% con un trend costante di crescita. Questi dati confermano quanto emerge anche dalle tendenze di acquisto offline, ovvero che le donne sono sempre più protagoniste nella scelta e nell’acquisto della bottiglia che verrà assaporata a tavola.

Una caratteristica femminile è quella di acquistare del vino avendo già in mente l’occasione in cui sarà consumato. Soprattutto in Italia: l’98% delle intervistate (vs 81% degli europei) associa il vino alla cena, il momento di convivialità e condivisione per eccellenza, con amici (72%), in famiglia (62%) o in coppia (60%).

Il 75% degli e-shopper di vino europei consuma vino almeno due volte a settimana (vs. 46% degli acquirenti tradizionali), preferendo le cene – nel weekend (74%) o in settimana (57%) – i pranzi nel fine settimana (46%) e le serate nel weekend (46%), a casa (96%) o al ristorante (86%) o ancora a casa di amici o in famiglia (82%). Il 74,3% dei clienti che acquistano vino online sono in coppia (vs 66,2% dei clienti offline) e lo acquistano anche per regalarlo al partner (52% dei casi, vs 44% dell’acquisto offline). Uomini e donne si dividono anche sulla preferenza della tipologia di vino: se il vino rosso è più apprezzato dagli italiani online (62%) e il più consumato (91%), il 45% delle donne preferisce il vino bianco e rosé.

La fotografia dei nuovi compratori del nettare di Bacco è stata fatta da vente-privee e Masi Agricola, azienda vitivinicola leader mondiale nella produzione dell’Amarone, nel corso della presentazione di un nuovo prodotto che per il terzo anno consecutivo presenta un vino che si rivolge principalmente a una clientela femminile: Rosa dei Masi, variante in rosa del Campiofiorin, il vino più famoso dell’azienda veneta.  “Il vino parla sempre più la lingua delle donne. Troviamo una corrispondenza accentuata tra i nostri prodotti e l’universo femminile, ed è per questo che da anni organizziamo in tutto il mondo eventi e incontri che mettano in contatto le donne con il mondo del vino. Non solo per imparare a degustarlo e conoscerlo a fondo, ma anche per creare una consapevolezza e aumentare un vero fattore di “self confidence” che passa anche dalla scelta del vino al ristorante.”  ha commentato Alessandra Boscaini, Direttore Commerciale di Masi Agricola.

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