CLOSE
Home Tags Dazi

Tag: dazi

Effetto dazi sull’export di vino negli Usa: prezzo medio cala del 13,5%

L’Osservatorio di Unione italiana vini lancia l’ennesimo allarme: il conto dei dazi lo stanno pagando le imprese. A provarlo sarebbero i dati sulle importazioni delle dogane americane e precisamente la media a listino del vino italiano, passata dai 6,52 dollari/litro di luglio 2024 ai 5,64 dollari del pari periodo di quest’anno, quindi con un ribasso del 13,5% del prezzo medio. E questo, sottolinea l’associazione, nonostante una fase di deprezzamento del dollaro Usa che dovrebbe invece spingere gli americani a spendere mediamente di più per comprare in euro.
Secondo l’Osservatorio, dall’attivazione delle nuove tariffe a fine luglio il vino italiano ha subito tariffe aggiuntive pari a 61 milioni di dollari, circa un terzo rispetto al totale import di prodotti provenienti dall’estero. Una classifica ad handicap, che vede primeggiare di poco la Francia (62,5 milioni di dollari), seguita dall’Italia e, in lontananza, dalla Spagna.

LE IMPRESE COMPRIMONO I MARGINI PER RIMANERE COMPETITIVE
Dobbiamo evidenziare il sacrificio importante sui margini che stanno facendo le nostre imprese per fare fronte ai dazi statunitensi – dice Lamberto Frescobaldi, Presidente di Unione italiana vini –, il vino sta uscendo dalle cantine a prezzi inferiori, e questo testimonia che buona parte delle imprese si sta assumendo in toto il dazio per rimanere competitive”. Ma c’è di più: secondo Uiv si stanno paradossalmente riscontrando ingiustificati aumenti nei punti vendita americani. “Ci risulta che i prodotti allo scaffale facciano parte degli stock pre-dazi accumulati nei primi mesi dell’anno – aggiunge Frescobaldi -; dispiace, perciò, assistere ad aumenti che non hanno ragion d’essere. Speculazioni di alcuni che non aiutano le nostre imprese, ma nemmeno i partner del trade statunitense che si oppongono anch’essi alle tariffe”.
A fronte di queste difficoltà Uiv auspica l’attivazione di una promozione straordinaria per il vino proprio a partire dalla piazza a stelle e strisce già a partire dal 2026. Una reazione concepita a regia pubblico-privata e basata sull’unicità del bere italiano, che oltre agli Stati Uniti dovrebbe concentrarsi su mercati promettenti come Uk, Canada, Brasile.

Dazi USA, Coldiretti all’attacco di Ursula Von der Leyen

L’accordo stipulato tra Ursula Von der Leyen e Donald Trump non piace al sistema produttivo italiano. Già alla vigilia dell’intesa, che introduce un’aliquota tariffaria di base del 15% sulla maggior parte dei prodotti europei che entrano negli Stati Uniti, il Centro Studi Confindustria aveva diffuso una simulazione sui danni che ne sarebbero derivati, mentre ora è Coldiretti ad attaccare in maniera dura la Presidente della Commissione Europea. In base a un’analisi dell’organizzazione di imprenditori agricoli condotta su dati del Centro Studi Divulga, i dazi al 15% rischiano di far perdere oltre 1 miliardo di euro al comparto agroalimentare italiano. Con un valore che nel 2024 ha sfiorato gli 8 miliardi di euro, gli USA rappresentano il primo mercato extra-Ue per il settore. Negli ultimi cinque anni, l’export verso gli Stati Uniti è cresciuto in media dell’11% l’anno, arrivando a toccare un +17% negli ultimi 12 mesi. Una dinamica positiva, sottolinea Coldiretti, che ora rischia di invertirsi bruscamente.

I SETTORI PIÙ COLPITI
Il vino è il primo prodotto agroalimentare esportato negli USA, con 1,9 miliardi di euro, e con i dazi subirà un impatto stimato in oltre 290 milioni di euro. Per l’olio extravergine di oliva l’export verso gli Stati Uniti vale oltre 937 milioni di euro e il peso stimato dei dazi è superiore ai 140 milioni di euro. Andrà male anche per la pasta di semola: ad oggi esente da dazi, che ora incideranno per 74 milioni di euro. Restano stabili, invece, molti dei formaggi, che erano già tra il 10% e il 15%, ma l’incertezza sull’abolizione delle quote rischia di avere conseguenze sull’export, che nel 2024 ha superato i 486 milioni di euro.
La Presidente della Commissione Europea Ursula Von der Leyen si sta dimostrando totalmente inadeguata al ruolo che ricopre – dichiara senza mezzi termini Ettore Prandini, Presidente di Coldiretti –. Dopo aver già colpito duramente il mondo agricolo con tagli senza precedenti alla Pac, oggi assistiamo all’ennesimo danno provocato da una gestione improvvisata e debole del negoziato commerciale con gli Stati Uniti. L’accordo siglato con Washington è chiaramente più vantaggioso per l’economia americana che per quella europea. Stiamo assistendo anche al fatto che il documento a base dell’accordo non coincide nemmeno con quello statunitense, una situazione lesiva della credibilità stessa dell’Europa. La Von der Leyen ha mancato ancora una volta l’obiettivo di difendere la produzione europea, il lavoro degli agricoltori e la sovranità alimentare dell’Unione. A pagare il prezzo di questa politica remissiva non sarà solo l’agricoltura, ma l’intero sistema produttivo europeo”.

L’IMPATTO SUL WINE BUSINESS A STELLE E STRISCE
Conseguenze negative ci saranno anche sull’altra sponda dell’Atlantico: per quanto riguarda il mondo del vino, l’Osservatorio Uiv stima danni complessivi per 25 miliardi di dollari. L’analisi prende in considerazione impatto diretto, indiretto e indotto di tutto il vino negli USA nella sola fase distributiva, retail e di trasporto, quantificato nel “2025 Economic Impact Report” da Wine America in 144,4 miliardi di dollari. Questa cifra comprende non solo i fatturati delle vendite, ma anche il valore generato lungo la catena distributiva, nonché gli effetti positivi dei salari e del conseguente potere di acquisto e dell’aumento della domanda di beni e servizi in altri settori correlati. Un effetto spillover su cui le tariffe al 15% sui vini europei andrebbero appunto ad inibire – secondo i calcoli Uiv – 25 miliardi di dollari. “Il vino – afferma Lamberto Frescobaldi, Presidente di Unione italiana vini – deve essere inserito nel pacchetto di prodotti agricoli europei a tariffa zero o a dazio ridotto in corso di definizione da parte dei negoziatori, lo chiediamo noi ma anche i nostri partner americani, come testimoniano le comunicazioni che stiamo ricevendo dalla US Wine Trade Alliance e dai nostri importatori oltreoceano”.
Secondo le stime dell’Osservatorio del Vino Uiv, infatti, i dazi determineranno un calo del valore al consumo di vino italiano, francese e spagnolo pari a circa 3 miliardi di dollari, che a sua volta genererà una voragine nei conti di distributori e retailer. La riduzione del valore al consumo è infatti solo la punta dell’iceberg di un effetto valanga che influirà sull’impatto complessivo socio-economico del wine business negli Stati Uniti, con evidenti ripercussioni in termini di salari, domanda di beni e servizi e posti di lavoro, anche oltre il comparto vino.
L’effetto dei dazi al 15%, secondo l’analisi Uiv, porterà nel giro di un anno l’impatto (diretto, indiretto e indotto) del vino da 144,4 a 120 miliardi di dollari, -17% rispetto al valore attuale. In questo scenario, la riduzione del valore dei consumi di vino italiano pesa sul calo in maniera determinante, per 13,5 miliardi di dollari. Sul fronte dei valori al consumo, se per il vino italiano si prevede una flessione del 20% in un anno, anche i vini domestici, già in perdita da tre anni abbondanti, dovrebbero segnare -13% ad agosto 2026. Altrettanto negative le performance degli altri vini comunitari (-19%), così come dei vini esteri non-Ue (-16%) – argentini, australiani e cileni – anch’essi già in calo e soggetti a nuovi dazi.

UN’INTESA PER EVITARE IL PEGGIO
A parlare di compromesso squilibrato – ma che scongiura il peggio – è Coface, player mondiale nella gestione del rischio credito commerciale. L’aliquota del 15% si applicherà a circa il 70% delle esportazioni dell’UE verso gli Stati Uniti. L’accordo evita la minaccia di una tariffa del 30% inizialmente prospettata dal Presidente statunitense, ma rimane comunque ben al di sopra dell’aliquota dell’1,2% applicata nel 2024. L’UE dovrebbe inoltre investire 600 miliardi di dollari negli Stati Uniti e acquistare prodotti energetici statunitensi per 750 miliardi di dollari in tre anni, impegni la cui fattibilità viene messa in discussione. L’accettazione da parte dell’Europa di un accordo giudicato sfavorevole dalle forze produttive si spiega con la volontà di evitare il peggio e ripristinare una certa stabilità commerciale. I paesi esportatori (Germania, Italia, Irlanda) e le nazioni dell’Europa orientale, preoccupati per le ripercussioni geopolitiche, hanno spinto per un rapido compromesso invece di rischiare un’escalation.
Coface precisa però che l’UE resta in una posizione relativamente privilegiata. Solo il Regno Unito gode di un trattamento più favorevole, mentre anche il Giappone affronterà un’aliquota del 15%, l’Indonesia e le Filippine del 19% e il Vietnam del 20%. Per i paesi senza accordo – Canada, Messico, Corea del Sud e Brasile – Trump minaccia dazi compresi tra il 25% e il 50%.
Ampliando lo sguardo all’intero settore manifatturiero, la situazione è molto complicata per l’industria siderurgica, soggetta a tariffe del 50%, mentre automotive, chimico e macchinari si trovano ora di fronte al 15%. Per il settore automobilistico, già indebolito dalla concorrenza cinese, questa tassa rappresenta un ulteriore ostacolo su un mercato statunitense cruciale. C’è poi da considerare l’apprezzamento del 13% dell’euro rispetto al dollaro da gennaio, che sta esacerbando la perdita di competitività di prezzo.

PER ORA IL CONTO LO PAGANO I CONSUMATORI
Chi si farà carico dei maggiori costi lungo la catena del valore, gli esportatori europei (e i loro fornitori) o i consumatori statunitensi? Coface evidenzia che recenti indagini condotte dalle banche regionali della Federal Reserve suggeriscono che le imprese e i consumatori statunitensi stanno assorbendo quasi il 90% dei costi aggiuntivi derivanti dagli aumenti tariffari. Tuttavia, per alcuni prodotti facilmente sostituibili, l’impatto potrebbe essere maggiore per gli esportatori europei e la capacità delle aziende continentali di sobbarcarsi il peso delle tariffe appare già limitata in settori come acciaio, chimico e automobilistico.
L’accordo commerciale raggiunto tra UE e Stati Uniti appare come una soluzione pragmatica per evitare un’escalation ancora più dannosa – conclude Pietro Vargiu, Country Manager Coface Italia (nella foto in alto) – ma lascia emergere un evidente squilibrio che incide negativamente sulla competitività delle imprese europee, in particolare nei settori strategici per l’Italia come automotive, siderurgico e chimico. In questo contesto di maggiore pressione tariffaria e di volatilità valutaria, è cruciale per le aziende italiane implementare strategie mirate per gestire efficacemente i rischi commerciali e finanziari”.

Dazi USA al 15%: il food & beverage perderebbe 2,9 miliardi di export

A fare i conti è stato il Centro Studi Confindustria e il risultato non lascia molto spazio all’ottimismo: dazi USA al 15% si tradurrebbero in una riduzione dell’export italiano pari a 22,6 miliardi di euro, mandando in fumo oltre un terzo del valore delle vendite nel mercato statunitense. Fortemente danneggiati alimentari e bevande che nel loro insieme perderebbero quasi 2,9 miliardi di euro di esportazioni.
La simulazione prende le mosse da quello che al momento si profila come lo scenario più probabile. La tariffa unica del 15% sembra infatti essere il punto di approdo tra Usa e Ue, capace di scongiurare una guerra commerciale dagli esiti imprevedibili. L’intesa ricalcherebbe l’accordo stipulato dall’amministrazione Trump con il Giappone solo qualche giorno fa e stando a quanto riportato da vari organi di stampa, sarebbe ritenuto un compromesso sostanzialmente accettabile dai 27 Paesi membri dell’Unione europea. Va detto che eventuali esenzioni di specifici settori – tra quelli citati in queste ore ci sono anche i prodotti agricoli e gli alcolici – cambierebbero non poco lo scenario, in particolare per un Paese esportatore come l’Italia.

LE STIME DEL CENTRO STUDI CONFINDUSTRIA
La simulazione del Centro Studi Confindustria si basa su una serie di ipotesi, a cominciare da quella di dazi USA al 15% su tutti i prodotti UE (senza differenze settoriali) e del 10% sulle merci del resto del mondo; a seguire, una svalutazione del 13,5% del dollaro sull’euro da inizio 2025 (equivalente a -10% sulla media 2024) e un’incertezza geoeconomica ai massimi storici, soprattutto negli USA (+300% all’inizio di luglio rispetto a fine 2024). Fatte queste premesse, il risultato è quello già anticipato: -22,6 miliardi di euro di export negli Stati Uniti. Parte di queste perdite sarebbero compensate da maggiori vendite degli esportatori italiani nel resto del mondo (fino a circa 10 miliardi).
In valore assoluto, i settori più colpiti sarebbero macchinari e farmaceutica (rispettivamente -4,3 miliardi e -3,4 miliardi di euro). L’alimentare è quarto e lascerebbe sul terreno 1,820 miliardi di euro, che vorrebbero dire -3,9 sull’export settoriale totale. La perdita per le bevande sarebbe inferiore in valori assoluti (-1,068 miliardi di euro), ma più che doppia se calcolata come percentuale sul totale delle esportazioni: -8,4% e cioè la flessione più importante tra quelle stimate nella simulazione. Cifre che giustificano pienamente la levata di scudi di filiere come quella del vino, per le quali i dazi al 15% avrebbero un impatto devastante.

L’IMPATTO DELLA SVALUTAZIONE DEL DOLLARO
C’è un ultimo aspetto messo in luce dal Centro Studi Confindustria e che chiama in causa le politiche monetarie europee: una riduzione delle tariffe USA o un minore deprezzamento del dollaro, a parità di altre condizioni, avrebbero un effetto quantitativamente simile. In pratica, ciascun punto percentuale in meno di dazi equivale a circa 1 miliardo di export italiano negli Stati Uniti in più, ma lo stesso effetto si otterrebbe con un punto in meno di svalutazione del dollaro. Per esempio: con dazi al 10% o dollaro in risalita del 5% sull’euro, l’export italiano negli USA ridurrebbe le perdite a -17,6 miliardi. Come a dire che il futuro dei settori manifatturieri europei passa sì da Washington e Bruxelles, ma anche da Francoforte. Ovvero, da cosa deciderà il Presidente Donald Trump, dalla capacità negoziale dell’Unione e dalle mosse della Banca Centrale Europea.

 

Dazi Usa, Centromarca fa la conta dei potenziali danni

L’introduzione dei dazi statunitensi potrebbe costare all’export italiano di prodotti alimentari e non food tra i 500 milioni e i 3,3 miliardi di euro. In relazione all’aliquota che effettivamente potrebbe scattare il prossimo 9 luglio, i valori da considerare sono: 10%, -489 milioni di euro di esportazioni in valore; 20%, -1,067 miliardi; 30%, -1,734 miliardi; 40%, -2,489 miliardi; 50%, -3,334 miliardi. A penalizzare ulteriormente le esportazioni contribuirebbe inoltre il cambio sfavorevole euro/dollaro: nei primi mesi del 2025 la valuta europea si è apprezzata significativamente rispetto a quella americana (+11% tra gennaio e giugno) raggiungendo i livelli più elevati dal 2022. È quanto emerge da uno studio promosso da Centromarca, realizzato con il supporto scientifico di Nomisma, che in questi giorni sarà condiviso con il Governo e i rappresentanti del mondo politico.

L’incertezza sull’applicazione dei dazi preoccupa molto le nostre industrie – sottolinea Vittorio Cino, Direttore Generale di Centromarca – sia sul piano economico sia perché non consente un’adeguata pianificazione strategica e nella contrattazione con i buyer statunitensi. È una criticità da non sottovalutare se si considera la rilevanza del mercato d’oltreoceano per i beni alimentari e non alimentari prodotti in Italia. Nel 2024 le importazioni Usa di beni grocery italiani hanno prodotto un giro d’affari di 9,9 miliardi di euro, con una crescita del +161% rispetto al 2014 e un’incidenza dell’11% sull’export complessivo del settore. È degno di nota il fatto che nei primi quattro mesi di quest’anno l’incremento a valore è stato del 14% rispetto allo stesso periodo del 2024. Sulla base di queste considerazioni Centromarca sta supportando le aziende con analisi ad hoc e si interfaccia costantemente con i suoi corrispondenti a Bruxelles e con i ministeri competenti”.

Il combinato tra dazi e valuta sfavorevole rende più costosi e meno attrattivi i prodotti a scaffale e rischia di compromettere marginalità e volumi esportati. Come reagirà il consumatore? Per scoprirlo Nomisma ha condotto un’indagine su 2.000 statunitensi, da cui emerge che l’85% degli americani è consapevole dell’esistenza dei dazi e il 50% che avranno un effetto negativo sugli acquisti. A fronte di un aumento del prezzo del 20% determinato dal dazio, la gran parte dei consumatori afferma che continuerebbe ad acquistare prodotti italiani, ma una quota importante (compresa tra il 30% e il 40%) lo farebbe in misura minore. Ad essere colpite potrebbero essere le produzioni italiane più facilmente rimpiazzabili con beni realizzati negli States o in altri paesi, mentre l’impatto potrebbe essere più contenuto per i prodotti premium o meno sostituibili (Dop di formaggi e vino, marche famose).

Dazi al 10%, secondo le aziende vinicole l’impatto sarà pesante

Nessun brindisi al possibile accordo sui dazi al 10% per le imprese del vino italiano, che destinano verso gli Stati Uniti il 24% del proprio export per un valore, nel 2024, di 1,94 miliardi di euro. Secondo un sondaggio dell’Osservatorio di Unione italiana vini (Uiv) tra le principali imprese del Paese, il danno stimato per effetto dei dazi sul fatturato d’oltreoceano si attesterebbe infatti in una forchetta tra il 10 e il 12%, su cui influisce anche il cambio euro/dollaro. Il motivo è chiaro, per il 90% delle imprese intervistate (il cui giro d’affari aggregato supera i 3,2 miliardi di euro), i consumatori non sarebbero in grado di assorbire l’extra-costo allo scaffale determinato dai dazi al 10%. Da qui l’opinione condivisa in larga maggioranza dal panel che l’impatto per le imprese sarebbe complessivamente rilevante nel 77% dei casi: “medio alto” per il 61% e “molto alto” per il 16%.

Occorre ricordare – dice Lamberto Frescobaldi, Presidente di Uiv – come il settore del vino sia tra i maggiormente esposti all’aumento delle barriere, in primo luogo perché la quota export statunitense arriva al 24%, contro una media del made in Italy che supera di poco il 10%, ma anche perché il vino è un bene voluttuario quindi con una maggior propensione alla rinuncia all’acquisto. Il danno ci sarebbe eccome, per le nostre imprese ma anche per la catena commerciale statunitense, che per ogni dollaro investito sul vino europeo ne genera 4,5 a favore dell’economia americana. In Italia saranno penalizzate in particolare le piccole imprese, molte di esse destinano oltreoceano fino al 50% del proprio fatturato, o le denominazioni bandiera negli Usa, come il Moscato d’Asti, il Pinot grigio, il Chianti, il Prosecco, il Lambrusco e altri”.

Parmigiano Reggiano, prezzi in salita negli Stati Uniti

Il dato certo è che il prezzo del Parmigiano Reggiano negli Usa è salito e salirà ancora, quello incerto – e più importante – è relativo agli effetti che l’aumento avrà sulla domanda. Gli USA sono il principale mercato estero per la Dop, pari al 22,5% della quota export totale: nel 2024 sono state esportate oltre 16.000 tonnellate di Parmigiano Reggiano, con un aumento del +13,4% sul 2023. A livello di sell-out, nel primo quadrimestre 2025 il Parmigiano Reggiano ha continuato a crescere del +9% in linea con i mesi precedenti. Per quanto riguarda il sell-in – dopo l’aumento di fine 2024, dovuto principalmente alla tendenza a fare scorte in vista di una possibile crescita dei prezzi, e al netto di un picco del +40% a marzo 2025, quando apparve imminente l’annuncio da parte del presidente Donald Trump di dazi aggiuntivi – si è registrato un trend di stabilità rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Va ricordato infatti che in aprile Trump ha introdotto ulteriori dazi del 10% sulle importazioni dall’Unione Europea: pertanto, nel caso della Dop, i dazi sono passati dal 15% (la tariffa “storica”) al 25% attuale. Questo significa che prima di aprile 2025, con i dazi pari al 15%, il Parmigiano Reggiano di 24 mesi, che in Italia viene oggi venduto a circa 15 €/kg, negli USA arrivava sugli scaffali con un prezzo medio di circa 42 dollari al kg. In questa fase transitoria, con i dazi aggiuntivi del 10%, lo stesso viene oggi venduto a circa 49 dollari al kg. Ma, ai livelli attuali, il prezzo reale per il consumatore entro i primi mesi del 2026 subirà inevitabilmente un’ulteriore impennata, poiché si riverseranno sul consumo sia i rilevanti aumenti registrati all’origine, sia l’effetto moltiplicatore del cambio dollaro/euro, superando ampiamente i 55 dollari al kg.

IL CONSORZIO AL SUMMER FANCY FOOD
Tutti i dati fin qui riportati sono stati diffusi dal Consorzio del Parmigiano Reggiano, che non nasconde la preoccupazione, ma ripone fiducia nell’operazione negoziale dell’UE, sottolineando inoltre la necessità di un confronto con i principali player del mercato USA. Proprio per sostenere le azioni di promozione della domanda, il Consorzio torna al Summer Fancy Food Show di New York (29 giugno – 1° luglio), la principale fiera americana dedicata al mondo del food & beverage. Il Consorzio sarà presente al Javits Center, il centro fieristico di New York, con uno stand (Padiglione Italia – Booth 2418) le cui attività prevedono incontri one-to-one con i partner commerciali, per condividere strategie e attività del 2025 e prospettive per il 2026, e degustazioni guidate della Dop. Inoltre, il Presidente Nicola Bertinelli incontrerà i principali stakeholder e opinion leader in occasione della serata che si terrà domenica 29 giugno al Peak, il ristorante in cima al grattacielo The Edge ad Hudson Yard, con una delle viste più suggestive su Manhattan. L’evento vedrà la partecipazione di Francesco Lollobrigida, Ministro dell’Agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste; Michele de Pascale, Presidente della Regione Emilia-Romagna; Alessio Mammi, Assessore all’Agricoltura e agroalimentare, caccia e pesca, rapporti con la UE della Regione; Stefano Bonaccini, europarlamentare. L’evento darà l’occasione per approfondire la posizione del Consorzio rispetto alla possibilità di introduzione di nuovi dazi (sospesa da Trump fino al 9 luglio con possibilità di proroga) su tutte le importazioni dall’UE. Temi che il Presidente Bertinelli affronterà a tu per tu anche in un incontro con la stampa americana fissato per il 30 giugno presso il ristorante Vallata del celebrity chef Tom Colicchio.

L’ACCADEMIA E LA PARTNERSHIP CON I NEW YORK JETS
La fiera darà anche modo di presentare le attività dell’Accademia Parmigiano Reggiano: lanciata ufficialmente nel 2025, non si tratta di una semplice scuola di formazione, ma di un’esperienza immersiva per professionisti e operatori, con la possibilità di sviluppare sessioni ad hoc a seconda del settore e del canale – dalla Gdo alla ristorazione, dal catering alla vendita al dettaglio – il cui obiettivo è formare gli addetti ai lavori, rendendoli in grado di accompagnare il consumatore in un acquisto sempre più consapevole. Ad oggi, il progetto ha coinvolto più di 700 dipendenti di oltre 20 grandi catene, sia in Italia sia all’estero in paesi quali USA, Francia, Germania, Spagna, Giappone, Australia ed Emirati Arabi Uniti, con numeri destinati a raddoppiare entro la fine del 2025. Infine, la fiera sarà il palcoscenico da cui il Consorzio annuncerà la partnership pluriennale con i New York Jets, uno dei team della National Football League più prestigiosi e amati al mondo. La collaborazione sportiva, che fa seguito a quella come sponsor ufficiale del Miami Open 2025, prevede un piano di marketing che comprenderà integrazioni digitali e social per tutta la stagione, tailgates sponsorizzati dal marchio, degustazioni per i media e creatività dedicata all’interno delle piattaforme mediatiche, dei social media e nel MetLife Stadium.
Partecipare alla fiera più importante del principale mercato del mondo dopo l’Italia – dichiara Nicola Bertinelli, Presidente del Consorzio (nella foto a sinistra) – rappresenta per noi un onore e un impegno simbolico di una presenza negli USA che, con l’apertura di un ufficio operativo (corporation) a New York nel luglio 2024, si è fatta ormai costante e quotidiana. Nel prossimo futuro, il Consorzio dovrà sempre più investire sulla crescita nei mercati esteri, in primis gli Stati Uniti, che rappresentano il futuro della nostra Dop. Pertanto, il possibile incremento dei dazi sul Parmigiano Reggiano di certo non ci rallegra, ma il nostro è un prodotto premium e faremo il possibile affinché l’aumento del prezzo non porti a una sostanziale riduzione dei consumi. Come abbiamo più volte sottolineato, la nostra Dop non è in reale concorrenza con i parmesan americani, dato che copre meno del 8% del mercato dei formaggi duri e viene venduto a un prezzo doppio. Negli USA chi lo compra fa una scelta consapevole: ha infatti un 92% di mercato di alternative che costano 2-3 volte meno. Imporre dazi ulteriori su un prodotto come il Parmigiano Reggiano aumenterebbe solo il prezzo per i consumatori americani, senza proteggere realmente i produttori locali: sarebbe dunque una scelta che danneggia tutti. Con gli USA occorre intavolare un dialogo che non va condotto bilateralmente dai singoli Paesi, ma dall’Unione Europea. Osserviamo con grande attenzione e prudenza lo scenario politico attuale, ma siamo fiduciosi nei risultati positivi che otterrà l’operazione negoziale dell’UE, che deve evitare rischi di dazi incoerenti e insostenibili per tutti gli attori in gioco, e nella fedeltà di consumatori evoluti come quelli statunitensi, che continueranno a premiare un prodotto d’eccellenza come il nostro”.

Effetto dazi sul vino: export negli Usa calato del 7,5% a volume in aprile

L’export di aprile del vino italiano verso gli Stati Uniti ha registrato un calo del 7,5% a volume e del 9,2% a valore (a quasi 154 milioni di euro), con un decremento del prezzo medio del 2%. Lo rileva l’Osservatorio di Unione italiana vini (Uiv), che ha elaborato i dati export relativi al primo mese soggetto ai dazi dell’amministrazione Trump (dal 2 all’8 aprile al 20%, in seguito al 10%). La caduta di aprile fa contestualmente scendere il consuntivo delle spedizioni nel quadrimestre verso gli Usa in linea di galleggiamento (+0,9% a volume) dopo l’exploit dell’ultimo semestre caratterizzato da una corsa alle scorte pre-dazi. Nel periodo si dimezza anche la performance a valore (+6,7%, 666 milioni di euro: appena un mese prima il saldo era +12,5%). Un crollo annunciato, rileva Uiv, che rende ancor più problematica la situazione complessiva nei mercati extra-Ue: -9% i volumi e -2,4% i valori.

Da tempo – commenta Lamberto Frescobaldi, Presidente di Unione italiana vini – insistiamo nel guardare agli effettivi consumi e non solo ai dati sulle spedizioni, che solo ora si stanno allineando dopo le evidenti corse alle scorte. Uiv ritiene che si debbano affrontare con estrema urgenza – e sarà il tema chiave della prossima assemblea nazionale del 3 luglio – gli squilibri di mercato sempre più evidenti, anche in vista della prossima vendemmia”. Secondo l’Osservatorio, senza il traino statunitense, il saldo nel quadrimestre della domanda extraeuropea a volume scenderebbe da -9% a -15% (-10% il valore), con decrementi in doppia cifra nell’area asiatica (Giappone e Cina, in crescita la Corea del Sud) e in Russia (-65%). Peggiora anche il terzo mercato al mondo, il Regno Unito che cede 5 punti a volume e oltre 6 a valore, mentre sono stabili il quarto e quinto buyer del made in Italy (Svizzera e Canada, che però cresce in volume di oltre l’8%).

I dazi faranno crescere l’Italian Sounding negli USA

I dazi americani faranno crescere negli USA le imitazioni di cibi e bevande italiani. L’Italian Sounding, ovvero i prodotti agroalimentari che attraverso nomi o immagini evocano il Made in Italy senza essere stati realizzati in Italia, negli Stati Uniti aumenterà fino al 15% per effetto dei dazi e dagli attuali 7,5 miliardi di euro raggiungerà gli 8,6 miliardi, quasi 1,1 miliardi di euro in più. I dati sono stati illustrati durante la nona edizione del forum Food&Beverage organizzato da TEHA (The European House – Ambrosetti) a Bormio. “Oltre 6 miliardi di euro di alimenti e bevande Made in Italy dei 7,8 complessivi esportati negli USA – spiega Valerio De Molli, Managing Partner e Ceo di TEHA – sono prodotti che non hanno alternative sul mercato statunitense e perciò difficilmente sostituibili. Se questo può essere un vantaggio in termini di impatto sulle esportazioni, quando i dazi entreranno in vigore faranno crescere l’Italian Sounding, un mercato che colpisce soprattutto i prodotti non sostituibili e che oggi vale 69 miliardi di euro nel mondo, uno in più rispetto all’export agroalimentare italiano. Ciò significa che riducendo queste imitazioni l’export agroalimentare del nostro Paese potrebbe anche raddoppiare, specie negli Stati Uniti”.

L’EFFETTO TRUMP SULL’EXPORT TRICOLORE
I nuovi dazi americani potrebbero generare una riduzione potenziale di 1,3 miliardi di euro di export food italiano, considerando sia lo sforzo di revisione temporanea dei margini da parte delle aziende italiane sia l’elasticità della domanda al consumo. All’interno dell’Ue, il nostro Paese è il più esposto all’effetto dei dazi voluti dal presidente americano, anche perché gli Stati Uniti sono per noi il secondo Paese per esportazioni di cibi e bevande dopo la Germania (10,8 miliardi di euro). Per la Francia il peso dei dazi sarebbe di poco superiore al miliardo di euro (1,1 mld), inferiore per Spagna (0,7 mld) e Germania (0,5 mld). Tuttavia, data l’unicità dell’offerta Made in Italy, la stima realizzata da TEHA è di una contrazione effettiva di circa 300 milioni di euro di esportazione agroalimentare.

CONCORRENZA SLEALE IN GIAPPONE, BRASILE E GERMANIA
Sugli scaffali dei supermercati giapponesi e brasiliani più di 7 prodotti agroalimentari su 10 evocano il Made in Italy, ma solo 3 su 10 provengono davvero dall’Italia. Come emerge dall’analisi dedicata di TEHA, in Germania, Regno Unito e Stati Uniti, l’Italian Sounding rappresenta tra il 60 e il 67% dei prodotti tipici italiani. Viaggiano poco sopra il 50% nei Paesi Bassi, in Cina e in Australia mentre sono poco sotto il 50% le imitazioni dei prodotti italiani venduti nei supermercati di Canada e Francia. I prodotti più contraffatti sono nell’ordine ragù, parmigiano e grana, aceto balsamico, pesto, pizza, prosciutto, pasta di grano duro, prosecco, salame, ecc.
Le imitazioni sono anche più appetibili dei prodotti italiani originali perché i prezzi sono più bassi, a volte anche fino al 70% in meno come succede negli USA per l’olio di oliva, piuttosto che per la pasta (-54%), parmigiano e grana (-44%) e salumi (-40%).

IN CINA C’È DESIDERIO DI MADE IN ITALY
All’estero i consumatori che ci tengono ad acquistare veri prodotti agroalimentari italiani senza badare al prezzo sono soprattutto cinesi, seguiti da giapponesi, canadesi, tedeschi e australiani. Gli inglesi sono, invece, quelli che sembrano badare più al prezzo. I prodotti sui quali si cerca soprattutto la reale origine italiana sono specialmente l’olio d’oliva, l’aceto balsamico, il gorgonzola, la pasta di grano duro, il prosecco, ecc.
Da 4 anni TEHA – afferma Benedetta Brioschi, partner TEHA – elabora il «Manifesto per il contrasto all’Italian Sounding» composto da 8 raccomandazioni e una visione Paese. Sin dalla prima edizione abbiamo evidenziato la necessità di ridurre le barriere tariffarie e doganali, una direzione contraria alle attuali politiche protezionistiche in atto. Si potrebbe agire con nuovi accordi di libero scambio tra Unione Europea e Paesi internazionali e lavorando su rapporti bilaterali per le imprese agroalimentari”.

Export alimentare cresciuto del 9,5% nel 2024

L’ export italiano nel 2024 ha tenuto, replicando i risultati dell’anno prima. E l’alimentare ha performato molto bene, facendo registrare una crescita del 9,5% a valore. È quanto afferma il rapporto “Export Italiano, i rischi e le opportunità” realizzato da Coface, tra i leader mondiali nell’assicurazione del credito e nella gestione del rischio commerciale. Lo scorso anno le esportazioni del nostro Paese si sono attestate a 623,5 miliardi di euro con una variazione minima (-0,4%) rispetto al 2023. Il quadro complessivo è fatto però di luci e ombre: da un lato, il crollo del settore auto (-12,2%) e le difficoltà di tessile-abbigliamento (-4,5%) e metalli (-3,3%); dall’altro, oltre all’ottimo andamento dell’alimentare, i trend positivi di farmaceutica (+7,9%) e gioielleria (+12,4%).
Sul fronte geografico, preoccupa il rallentamento dei principali mercati di sbocco (Germania, Francia e USA), solo in parte compensato dalla crescita in mercati secondari, con il caso emblematico della Turchia che entra nella top 10 grazie al boom dell’export di gioielli. All’orizzonte per il 2025 si profila lo spettro dei dazi americani, che potrebbero colpire settori strategici per il Made in Italy, in un contesto di possibile, ulteriore indebolimento della domanda europea.

CHI SALE E CHI SCENDE
L’analisi settoriale rivela un quadro a due velocità. Il comparto automotive vive un momento particolarmente difficile, registrando un calo del 12,2% e influenzando negativamente la crescita complessiva dell’export per 1,3 punti percentuali. La contrazione ha preso avvio nel secondo trimestre 2024 e ha interessato le esportazioni di autovetture verso quasi tutte le destinazioni principali, con le sole eccezioni di Paesi Bassi e Polonia. Anche il tessile-abbigliamento e accessori mostra segni di debolezza (-4,5%), con una flessione particolarmente marcata per calzature, borse e piccola pelletteria. I metalli completano il quadro negativo con un -3,3%, dovuto principalmente al calo delle esportazioni di ferro e acciaio, penalizzate dalla debole domanda del settore manifatturiero e delle costruzioni in Europa e dai prezzi più contenuti rispetto agli anni precedenti. In controtendenza, il settore alimentare (+9,5%) e quello farmaceutico (+7,9%) mostrano una solida crescita, affiancati dal comparto dei beni manifatturieri diversi (+12,4%), trainato dall’eccezionale performance della gioielleria.

GERMANIA E FRANCIA RALLENTANO
Sul fronte geografico, l’ export italiano ha risentito del rallentamento della domanda da parte dei principali partner commerciali: Unione europea (che assorbe oltre la metà dell’export italiano), Stati Uniti e Cina. In ambito Ue, preoccupa soprattutto la contrazione verso Germania (-5,0%) e Francia (-3,6%), rispettivamente primo e terzo mercato di sbocco, con cali significativi nelle vendite di veicoli, acciaio e ferro. Queste performance negative sono state però bilanciate dalla crescita dell’ export verso Spagna (+4,5%), Regno Unito (+5,3%) e Paesi Bassi (+4,3%), sostenuta principalmente dall’incremento delle vendite di prodotti farmaceutici. Spicca il caso della Turchia, che con un balzo del 23,9% è entrata nella Top 10 dei partner commerciali dell’Italia nel 2024, grazie a un aumento quintuplicato delle esportazioni di gioielli. Al contrario, la Cina è scivolata dall’undicesimo posto, a causa principalmente del calo delle vendite di prodotti farmaceutici nel primo trimestre 2024, dopo un picco eccezionale registrato a inizio 2023.

I TIMORI PER I DAZI USA
Le prospettive per il 2025 si presentano cariche di incognite. Da un lato, la crescita economica europea appare limitata, con persistenti difficoltà nei settori manifatturiero e delle costruzioni, in particolare in Francia e Germania, mercati di riferimento per l’export italiano. Dall’altro, la politica commerciale degli Stati Uniti rappresenta un fattore di rischio significativo, con la potenziale introduzione o estensione di dazi e barriere commerciali. L’Italia risulta uno dei paesi europei più vulnerabili a eventuali misure protezionistiche americane: i settori particolarmente esposti includono macchinari (12,2% dell’export verso gli USA), farmaceutica (16,8%), automotive (12,5%, con picchi del 16,9% per i veicoli), vini e bevande (21,7%), prodotti ceramici e pietre da costruzione (13% per i minerali non metalliferi), mobili (12,2%), calzature e pelletteria (11%). Oltre agli impatti diretti, occorre considerare le ricadute indirette sulle catene di fornitura integrate con partner come la Germania. In questo scenario complesso, diventa strategico per le imprese italiane diversificare i mercati di sbocco, esplorando le opportunità offerte da economie emergenti ad alto potenziale nei Paesi del Golfo e in Asia.
I dati del 2024 evidenziano la stabilità dell’ export italiano dopo il rimbalzo post-pandemia – spiega Pietro Vargiu, Country Manager di Coface Italia –. Preoccupano le contrazioni nell’automotive e nel tessile-abbigliamento, mentre farmaceutica e alimentare mostrano resilienza. Il rallentamento della domanda in mercati chiave come Germania e USA, unito ai potenziali dazi americani per il 2025, richiede alle imprese italiane di diversificare i propri mercati e rafforzare le strategie di protezione del business. In questo scenario, Coface si conferma partner strategico per le aziende che operano sui mercati internazionali. Come player mondiale di riferimento nella gestione del rischio credito, offriamo un ecosistema di soluzioni dall’Assicurazione dei Crediti alla Business Information e al Recupero Crediti, per sviluppare il business in sicurezza sia sul mercato domestico che all’estero”.

Unione italiana vini: altro che dazi, il 50% significa embargo

La politica degli annunci di Donald Trump crea forti tensioni nel comparto vinicolo italiano. L’esternazione via social più recente (definirla ultima vorrebbe dire sottovalutare l’imprevedibilità del Presidente Usa) prospetta l’innalzamento al 50% dei dazi statunitensi su tutti i prodotti provenienti dall’Unione europea inizialmente a partire dal 1° giugno, termine poi rinviato al 9 luglio dopo un colloquio con Ursula von der Leyen, Presidente della Commissione europea. “La nuova minaccia del presidente Trump rappresenta un ulteriore fardello di incertezza per le imprese italiane, a partire da quelle del vino – commenta Lamberto Frescobaldi, Presidente di Unione italiana vini (Uiv) –. Da mesi ormai il settore, che negli Stati Uniti spedisce il 24% (1,94 miliardi di euro) dell’intero export enologico, non riesce più a programmare il proprio futuro, e questo è un danno enorme, a prescindere dall’entità del dazio. Per fare un esempio, in questi giorni le imprese italiane del vino stanno pianificando i bandi europei dell’Ocm Promozione, con investimenti per qualche decina di milioni di euro destinati agli Usa, principale target. Chiaramente, una minaccia di accisa al 50%, che più che un dazio sarebbe un embargo, sortisce l’immediato effetto di rinunciare, giocoforza, all’investimento. E con esso ai piani di sviluppo di un settore che vive sempre più di esportazioni. Chiediamo pertanto – conclude il presidente Uiv – a Bruxelles e a Roma di intensificare le trattative, perché il fattore tempo rappresenta ormai sempre più una discriminante fondamentale”.

BrandContent

Fotogallery

Il database online della Business Community italiana

Cerca con whoswho.it

Diritto alimentare