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Effetto dazi sul vino: export negli Usa calato del 7,5% a volume in aprile

L’export di aprile del vino italiano verso gli Stati Uniti ha registrato un calo del 7,5% a volume e del 9,2% a valore (a quasi 154 milioni di euro), con un decremento del prezzo medio del 2%. Lo rileva l’Osservatorio di Unione italiana vini (Uiv), che ha elaborato i dati export relativi al primo mese soggetto ai dazi dell’amministrazione Trump (dal 2 all’8 aprile al 20%, in seguito al 10%). La caduta di aprile fa contestualmente scendere il consuntivo delle spedizioni nel quadrimestre verso gli Usa in linea di galleggiamento (+0,9% a volume) dopo l’exploit dell’ultimo semestre caratterizzato da una corsa alle scorte pre-dazi. Nel periodo si dimezza anche la performance a valore (+6,7%, 666 milioni di euro: appena un mese prima il saldo era +12,5%). Un crollo annunciato, rileva Uiv, che rende ancor più problematica la situazione complessiva nei mercati extra-Ue: -9% i volumi e -2,4% i valori.

Da tempo – commenta Lamberto Frescobaldi, Presidente di Unione italiana vini – insistiamo nel guardare agli effettivi consumi e non solo ai dati sulle spedizioni, che solo ora si stanno allineando dopo le evidenti corse alle scorte. Uiv ritiene che si debbano affrontare con estrema urgenza – e sarà il tema chiave della prossima assemblea nazionale del 3 luglio – gli squilibri di mercato sempre più evidenti, anche in vista della prossima vendemmia”. Secondo l’Osservatorio, senza il traino statunitense, il saldo nel quadrimestre della domanda extraeuropea a volume scenderebbe da -9% a -15% (-10% il valore), con decrementi in doppia cifra nell’area asiatica (Giappone e Cina, in crescita la Corea del Sud) e in Russia (-65%). Peggiora anche il terzo mercato al mondo, il Regno Unito che cede 5 punti a volume e oltre 6 a valore, mentre sono stabili il quarto e quinto buyer del made in Italy (Svizzera e Canada, che però cresce in volume di oltre l’8%).

I dazi faranno crescere l’Italian Sounding negli USA

I dazi americani faranno crescere negli USA le imitazioni di cibi e bevande italiani. L’Italian Sounding, ovvero i prodotti agroalimentari che attraverso nomi o immagini evocano il Made in Italy senza essere stati realizzati in Italia, negli Stati Uniti aumenterà fino al 15% per effetto dei dazi e dagli attuali 7,5 miliardi di euro raggiungerà gli 8,6 miliardi, quasi 1,1 miliardi di euro in più. I dati sono stati illustrati durante la nona edizione del forum Food&Beverage organizzato da TEHA (The European House – Ambrosetti) a Bormio. “Oltre 6 miliardi di euro di alimenti e bevande Made in Italy dei 7,8 complessivi esportati negli USA – spiega Valerio De Molli, Managing Partner e Ceo di TEHA – sono prodotti che non hanno alternative sul mercato statunitense e perciò difficilmente sostituibili. Se questo può essere un vantaggio in termini di impatto sulle esportazioni, quando i dazi entreranno in vigore faranno crescere l’Italian Sounding, un mercato che colpisce soprattutto i prodotti non sostituibili e che oggi vale 69 miliardi di euro nel mondo, uno in più rispetto all’export agroalimentare italiano. Ciò significa che riducendo queste imitazioni l’export agroalimentare del nostro Paese potrebbe anche raddoppiare, specie negli Stati Uniti”.

L’EFFETTO TRUMP SULL’EXPORT TRICOLORE
I nuovi dazi americani potrebbero generare una riduzione potenziale di 1,3 miliardi di euro di export food italiano, considerando sia lo sforzo di revisione temporanea dei margini da parte delle aziende italiane sia l’elasticità della domanda al consumo. All’interno dell’Ue, il nostro Paese è il più esposto all’effetto dei dazi voluti dal presidente americano, anche perché gli Stati Uniti sono per noi il secondo Paese per esportazioni di cibi e bevande dopo la Germania (10,8 miliardi di euro). Per la Francia il peso dei dazi sarebbe di poco superiore al miliardo di euro (1,1 mld), inferiore per Spagna (0,7 mld) e Germania (0,5 mld). Tuttavia, data l’unicità dell’offerta Made in Italy, la stima realizzata da TEHA è di una contrazione effettiva di circa 300 milioni di euro di esportazione agroalimentare.

CONCORRENZA SLEALE IN GIAPPONE, BRASILE E GERMANIA
Sugli scaffali dei supermercati giapponesi e brasiliani più di 7 prodotti agroalimentari su 10 evocano il Made in Italy, ma solo 3 su 10 provengono davvero dall’Italia. Come emerge dall’analisi dedicata di TEHA, in Germania, Regno Unito e Stati Uniti, l’Italian Sounding rappresenta tra il 60 e il 67% dei prodotti tipici italiani. Viaggiano poco sopra il 50% nei Paesi Bassi, in Cina e in Australia mentre sono poco sotto il 50% le imitazioni dei prodotti italiani venduti nei supermercati di Canada e Francia. I prodotti più contraffatti sono nell’ordine ragù, parmigiano e grana, aceto balsamico, pesto, pizza, prosciutto, pasta di grano duro, prosecco, salame, ecc.
Le imitazioni sono anche più appetibili dei prodotti italiani originali perché i prezzi sono più bassi, a volte anche fino al 70% in meno come succede negli USA per l’olio di oliva, piuttosto che per la pasta (-54%), parmigiano e grana (-44%) e salumi (-40%).

IN CINA C’È DESIDERIO DI MADE IN ITALY
All’estero i consumatori che ci tengono ad acquistare veri prodotti agroalimentari italiani senza badare al prezzo sono soprattutto cinesi, seguiti da giapponesi, canadesi, tedeschi e australiani. Gli inglesi sono, invece, quelli che sembrano badare più al prezzo. I prodotti sui quali si cerca soprattutto la reale origine italiana sono specialmente l’olio d’oliva, l’aceto balsamico, il gorgonzola, la pasta di grano duro, il prosecco, ecc.
Da 4 anni TEHA – afferma Benedetta Brioschi, partner TEHA – elabora il «Manifesto per il contrasto all’Italian Sounding» composto da 8 raccomandazioni e una visione Paese. Sin dalla prima edizione abbiamo evidenziato la necessità di ridurre le barriere tariffarie e doganali, una direzione contraria alle attuali politiche protezionistiche in atto. Si potrebbe agire con nuovi accordi di libero scambio tra Unione Europea e Paesi internazionali e lavorando su rapporti bilaterali per le imprese agroalimentari”.

Export alimentare cresciuto del 9,5% nel 2024

L’ export italiano nel 2024 ha tenuto, replicando i risultati dell’anno prima. E l’alimentare ha performato molto bene, facendo registrare una crescita del 9,5% a valore. È quanto afferma il rapporto “Export Italiano, i rischi e le opportunità” realizzato da Coface, tra i leader mondiali nell’assicurazione del credito e nella gestione del rischio commerciale. Lo scorso anno le esportazioni del nostro Paese si sono attestate a 623,5 miliardi di euro con una variazione minima (-0,4%) rispetto al 2023. Il quadro complessivo è fatto però di luci e ombre: da un lato, il crollo del settore auto (-12,2%) e le difficoltà di tessile-abbigliamento (-4,5%) e metalli (-3,3%); dall’altro, oltre all’ottimo andamento dell’alimentare, i trend positivi di farmaceutica (+7,9%) e gioielleria (+12,4%).
Sul fronte geografico, preoccupa il rallentamento dei principali mercati di sbocco (Germania, Francia e USA), solo in parte compensato dalla crescita in mercati secondari, con il caso emblematico della Turchia che entra nella top 10 grazie al boom dell’export di gioielli. All’orizzonte per il 2025 si profila lo spettro dei dazi americani, che potrebbero colpire settori strategici per il Made in Italy, in un contesto di possibile, ulteriore indebolimento della domanda europea.

CHI SALE E CHI SCENDE
L’analisi settoriale rivela un quadro a due velocità. Il comparto automotive vive un momento particolarmente difficile, registrando un calo del 12,2% e influenzando negativamente la crescita complessiva dell’export per 1,3 punti percentuali. La contrazione ha preso avvio nel secondo trimestre 2024 e ha interessato le esportazioni di autovetture verso quasi tutte le destinazioni principali, con le sole eccezioni di Paesi Bassi e Polonia. Anche il tessile-abbigliamento e accessori mostra segni di debolezza (-4,5%), con una flessione particolarmente marcata per calzature, borse e piccola pelletteria. I metalli completano il quadro negativo con un -3,3%, dovuto principalmente al calo delle esportazioni di ferro e acciaio, penalizzate dalla debole domanda del settore manifatturiero e delle costruzioni in Europa e dai prezzi più contenuti rispetto agli anni precedenti. In controtendenza, il settore alimentare (+9,5%) e quello farmaceutico (+7,9%) mostrano una solida crescita, affiancati dal comparto dei beni manifatturieri diversi (+12,4%), trainato dall’eccezionale performance della gioielleria.

GERMANIA E FRANCIA RALLENTANO
Sul fronte geografico, l’ export italiano ha risentito del rallentamento della domanda da parte dei principali partner commerciali: Unione europea (che assorbe oltre la metà dell’export italiano), Stati Uniti e Cina. In ambito Ue, preoccupa soprattutto la contrazione verso Germania (-5,0%) e Francia (-3,6%), rispettivamente primo e terzo mercato di sbocco, con cali significativi nelle vendite di veicoli, acciaio e ferro. Queste performance negative sono state però bilanciate dalla crescita dell’ export verso Spagna (+4,5%), Regno Unito (+5,3%) e Paesi Bassi (+4,3%), sostenuta principalmente dall’incremento delle vendite di prodotti farmaceutici. Spicca il caso della Turchia, che con un balzo del 23,9% è entrata nella Top 10 dei partner commerciali dell’Italia nel 2024, grazie a un aumento quintuplicato delle esportazioni di gioielli. Al contrario, la Cina è scivolata dall’undicesimo posto, a causa principalmente del calo delle vendite di prodotti farmaceutici nel primo trimestre 2024, dopo un picco eccezionale registrato a inizio 2023.

I TIMORI PER I DAZI USA
Le prospettive per il 2025 si presentano cariche di incognite. Da un lato, la crescita economica europea appare limitata, con persistenti difficoltà nei settori manifatturiero e delle costruzioni, in particolare in Francia e Germania, mercati di riferimento per l’export italiano. Dall’altro, la politica commerciale degli Stati Uniti rappresenta un fattore di rischio significativo, con la potenziale introduzione o estensione di dazi e barriere commerciali. L’Italia risulta uno dei paesi europei più vulnerabili a eventuali misure protezionistiche americane: i settori particolarmente esposti includono macchinari (12,2% dell’export verso gli USA), farmaceutica (16,8%), automotive (12,5%, con picchi del 16,9% per i veicoli), vini e bevande (21,7%), prodotti ceramici e pietre da costruzione (13% per i minerali non metalliferi), mobili (12,2%), calzature e pelletteria (11%). Oltre agli impatti diretti, occorre considerare le ricadute indirette sulle catene di fornitura integrate con partner come la Germania. In questo scenario complesso, diventa strategico per le imprese italiane diversificare i mercati di sbocco, esplorando le opportunità offerte da economie emergenti ad alto potenziale nei Paesi del Golfo e in Asia.
I dati del 2024 evidenziano la stabilità dell’ export italiano dopo il rimbalzo post-pandemia – spiega Pietro Vargiu, Country Manager di Coface Italia –. Preoccupano le contrazioni nell’automotive e nel tessile-abbigliamento, mentre farmaceutica e alimentare mostrano resilienza. Il rallentamento della domanda in mercati chiave come Germania e USA, unito ai potenziali dazi americani per il 2025, richiede alle imprese italiane di diversificare i propri mercati e rafforzare le strategie di protezione del business. In questo scenario, Coface si conferma partner strategico per le aziende che operano sui mercati internazionali. Come player mondiale di riferimento nella gestione del rischio credito, offriamo un ecosistema di soluzioni dall’Assicurazione dei Crediti alla Business Information e al Recupero Crediti, per sviluppare il business in sicurezza sia sul mercato domestico che all’estero”.

Unione italiana vini: altro che dazi, il 50% significa embargo

La politica degli annunci di Donald Trump crea forti tensioni nel comparto vinicolo italiano. L’esternazione via social più recente (definirla ultima vorrebbe dire sottovalutare l’imprevedibilità del Presidente Usa) prospetta l’innalzamento al 50% dei dazi statunitensi su tutti i prodotti provenienti dall’Unione europea inizialmente a partire dal 1° giugno, termine poi rinviato al 9 luglio dopo un colloquio con Ursula von der Leyen, Presidente della Commissione europea. “La nuova minaccia del presidente Trump rappresenta un ulteriore fardello di incertezza per le imprese italiane, a partire da quelle del vino – commenta Lamberto Frescobaldi, Presidente di Unione italiana vini (Uiv) –. Da mesi ormai il settore, che negli Stati Uniti spedisce il 24% (1,94 miliardi di euro) dell’intero export enologico, non riesce più a programmare il proprio futuro, e questo è un danno enorme, a prescindere dall’entità del dazio. Per fare un esempio, in questi giorni le imprese italiane del vino stanno pianificando i bandi europei dell’Ocm Promozione, con investimenti per qualche decina di milioni di euro destinati agli Usa, principale target. Chiaramente, una minaccia di accisa al 50%, che più che un dazio sarebbe un embargo, sortisce l’immediato effetto di rinunciare, giocoforza, all’investimento. E con esso ai piani di sviluppo di un settore che vive sempre più di esportazioni. Chiediamo pertanto – conclude il presidente Uiv – a Bruxelles e a Roma di intensificare le trattative, perché il fattore tempo rappresenta ormai sempre più una discriminante fondamentale”.

Parmigiano Reggiano: 2024 da record, con 3,2 miliardi di euro al consumo

Giro d’affari al consumo ai massimi storici per il Parmigiano Reggiano: il 2024 si è chiuso con 3,2 miliardi di euro contro i 3,05 miliardi del 2023 e un aumento del 4,9%. Risultati positivi per le vendite totali a volume (+9,2%), sostenute da un andamento positivo del mercato italiano (+5,2%) e, soprattutto, dell’export (+13,7%). In crescita anche le quotazioni all’origine: per il 12 mesi la media annuale si è attestata a 11,0 €/kg, segnando un +9% rispetto ai 10,13 €/kg del 2023; per il 24 mesi, l’aumento è stato del +5%, passando dagli 11,90 €/kg dello scorso anno ai 12,5 €/kg del 2024. La produzione è risultata stabile rispetto al 2023: 4,079 milioni di forme vs 4,014 milioni nel 2023 (+1,62%). Tra le provincie della zona di origine, prima per produzione è Parma (1.362.226 forme vs 1.350.415, +0,87%), seguita da Reggio Emilia (1.217.128 forme vs 1.217.380, -0,02%), Modena (877.874 forme vs 860.971, +1,96), Mantova (507.631 forme vs 476.361, +6,56) e Bologna (114.389 forme vs 109.173, +4,77%).
La quota Italia si attesta al 51,3% (osservatorio Sell-In Nielsen). Per quanto riguarda i canali distributivi, la Gdo rimane il primo (65%), seguita dall’industria (18%), che beneficia della crescente popolarità dei prodotti caratterizzati dalla presenza di Parmigiano Reggiano tra gli ingredienti. Il canale Horeca rimane fanalino di coda, e quindi con un enorme potenziale di sviluppo, attestandosi al 7% del totale. Il restante 10% è distribuito negli altri canali di vendita. Le vendite dirette dei caseifici (che si concentrano per oltre l’85% in Italia, pari a circa 9.000 tonnellate) rappresentano il 5,5% delle vendite totali e hanno registrato un forte aumento (+13,0%).
Per il Consorzio, se c’è una certezza che il 2024 ha consolidato è che il futuro del Parmigiano Reggiano è sui mercati internazionali: la quota export rappresenta oggi quasi la metà del totale, il 48,7% (pari a 72.440 t.), con una crescita del +13,7%. Risultati particolarmente positivi sui cinque mercati principali: USA (+13,4%), Francia (+9,1%), Germania (+13,3%), Regno Unito (+17,8%) e Canada (+24,5%). Note positive anche per il Giappone (+6,1%), primo mercato in Asia, e Australia (+28,2%). Con 28,4 milioni di euro investiti per azioni di marketing e comunicazione, Parmigiano Reggiano ha confermato il percorso avviato da alcuni anni per diventare un vero brand iconico globale, pronto ad affrontare gli ostacoli posti da mercati estremamente vasti, ricchi di prodotti d’imitazione e caratterizzati da una marcata confusione al momento dell’acquisto. Il Consorzio sottolinea di lavorare assiduamente per valorizzare la distintività della Dop, fornendo al consumatore più informazioni sulle sue caratteristiche: la stagionatura, la provenienza, il processo produttivo e il gusto, tutti particolari che offrono l’opportunità di differenziarsi dai concorrenti.
Nel prossimo futuro, dovremo sempre più investire sulla crescita nei mercati esteri – dichiara Nicola Bertinelli, Presidente del Consorzio del Parmigiano Reggiano – che rappresentano il futuro della nostra Dop, con una quota export che ha raggiunto quasi la metà del totale, il 48,7%. È obbligatorio creare nuovi spazi nei mercati internazionali e sarà necessario guidare le precondizioni affinché ciò si possa avverare. È evidente come in questo scenario, gli USA, ovvero il nostro primo mercato estero, svolgano un ruolo fondamentale. L’aumento dei dazi sul Parmigiano Reggiano è una notizia che di certo non ci ha rallegrato, ma il nostro è un prodotto premium e l’aumento del prezzo non porta automaticamente a una riduzione dei consumi. Lavoreremo per cercare con la via negoziale di fare capire per quale motivo non ha senso applicare dazi a un prodotto come il nostro che non è in reale concorrenza con i parmesan americani. Con gli USA occorre intavolare un ragionamento sul fatto che non si hanno vantaggi nell’intraprendere una guerra commerciale, né da un lato né dall’altro. Questo dialogo non va condotto bilateralmente dai singoli Paesi, ma dall’Unione Europea. Stiamo attraversando un momento di grande cambiamento, caratterizzato da uno scenario di incertezze legato ai conflitti in essere, da nuovi limiti imposti al libero commercio e da una nuova sensibilità del consumatore che cerca in ciò che mangia quei valori che il nostro prodotto incarna e che deve fare emergere per diventare sempre più una marca globale: non un semplice formaggio, ma uno stile di vita, un’icona del saper fare italiano”.

Export: l’agroalimentare vale 67,5 miliardi di euro, il 10,8% del totale italiano

A fine 2024 le esportazioni di prodotti agroalimentari Made in Italy hanno raggiunto il livello record di 67,5 miliardi di euro, oltre 5 miliardi in più rispetto al 2023 e con una crescita media del 6,5% annuo dal 2010 a oggi. Per la prima volta le vendite all’estero del settore valgono quasi l’11% (10,8%) del totale export italiano. Durante la presentazione della nona edizione del Forum “La Roadmap del futuro per il Food&Beverage: quali evoluzioni e quali sfide per i prossimi anni” organizzato da TEHA (The European House – Ambrosetti) a Bormio (6-7 giugno), Valerio De Molli, Managing Partner e Ceo di TEHA si è soffermato a lungo sul tema dazi, proponendo un’analisi più ottimistica sulle potenziali conseguenze: “Il nostro export agroalimentare negli USA è aumentato del 17% solo nell’ultimo anno esponendoci potenzialmente a un impatto negativo del 20% del totale export, ma qualità e valore dei prodotti italiani fanno la differenza: oltre 6 miliardi di euro di Made in Italy dei 7,8 complessivi esportati negli USA non sono prodotti con alternative sul mercato domestico statunitense e perciò sostituibili, ne deriva che il danno generato dai dazi, se confermati anche dopo la sospensione, potrebbe costare all’Italia solo potenzialmente 1,3 miliardi di euro, ma limitarsi, in realtà, a 300 milioni di euro proprio perché quasi l’80% delle nuove imposte doganali andrebbe a colpire prodotti non sostituibili. Certamente fra questi hanno un peso rilevante i prodotti Dop e Igp, in primo luogo il vino, ma ci sono anche conserve di pomodoro, pasta, salse e farine”.

IL VINO OLTRE GLI 8 MILIARDI DI EURO, BOOM OLIO E CIOCCOLATO
Il vino italiano è il prodotto agroalimentare italiano più esportato con oltre 8 miliardi di euro di valore e una crescita del 5,5% nel solo 2024, seguono pasta e prodotti della panetteria che valgono 7,6 miliardi (+8,6% nell’ultimo anno). Secondo i dati elaborati da TEHA, grassi e oli vegetali italiani (4,1 mld di export) e cioccolato (3,4) hanno fatto registrare le crescite più significative del 2024: rispettivamente +27,2% e +17,8%. In positivo anche i prodotti lattiero-caseari (+9,1% per 6,5 miliardi di export), la frutta (+8,3%, 3,9 miliardi) e i piatti pronti trasformati (+6,2%, 4,1 mld), mentre aumenti più contenuti sono stati rilevati per le bevande ad esclusione del vino (+5% per 4,2 miliardi), cibo per animali (+3,3%, 3,1 mld) oltre che frutta e vegetali trasformati che valgono oggi 6 miliardi all’estero, in linea (+0,7%) con il 2023.

ITALIA LEADER PER ESPORTAZIONI DI POMODORI, PASTA E AMARI
In 15 categorie merceologiche del settore agroalimentare, l’Italia è leader di mercato nel mondo: tra queste i pomodori pelati dove rappresentiamo il 76,3% del mercato globale, la pasta italiana che ne vale quasi la metà (48%) o gli amari e distillati al 34,5%. I salumi italiani nei sette continenti raggiungono una quota del 29,9%, la bresaola del 29% e la passata di pomodoro del 24,1%. Tra le verdure lavorate, il 21,9% del mercato globale viene dal Bel Paese, così come il 9,4% di quello del sidro di mele. L’Italia è seconda al mondo per esportazione di castagne (25,2%), vino (20,7%), olio di oliva (17,4%) e caffè (15,8%). “La forza dei prodotti italiani nel mondo – sottolinea Benedetta Brioschi, Partner TEHA, nel presentare il prossimo Forum Food&Berverage di Bormio che vedrà la partecipazione di manager dell’industria agroalimentare italiana, della distribuzione e rappresentanti di associazioni e istituzioni del settore – risiede nei livelli di qualità che non hanno confronto in Europa: il valore medio delle nostre esportazioni agroalimentari è oggi di 254,5 euro per 100 kg di prodotto, superiore a Spagna (214 euro), Paesi Bassi (207), Germania (172) e Francia (131 euro /100Kg)”.

LOMBARDIA PRIMA PER FATTURATO AGROALIMENTARE
La Lombardia si conferma prima regione in Italia per fatturato agroalimentare con 50 miliardi di euro (19% del totale nazionale), il 41% in più rispetto al 2015, e detta la linea anche per l’export del comparto (10,9 miliardi). La Valtellina, dove si svolgerà la 9° edizione del Forum TEHA di Bormio, è una punta di diamante dell’enogastronomia italiana. Sondrio è l’undicesima provincia italiana su 107 per impatto economico delle produzioni certificate di cibo (260 milioni di euro) e la quarta per produzione di vino con 3,2 milioni di bottiglie ogni anno da 24 milioni di euro di valore complessivo. “Abbiamo scelto Bormio per realizzare uno dei più importanti eventi italiani nel settore agroalimentare – conclude De Molli – per valorizzare l’impegno di una comunità che puntando su qualità e tradizione produce un valore socioeconomico senza eguali per la Lombardia e un modello per l’intero Paese”.

 

Dazi Usa, al via la conta dei danni nel food & beverage italiano

La guerra commerciale con gli Usa è ufficialmente cominciata: sono oltre 100 i Paesi su cui impatteranno i dazi voluti da Donald Trump e tra questi c’è ovviamente l’Italia. Brilla l’assenza nell’elenco di Russia e Corea del Nord, come ha rimarcato già nelle prime ore la stampa internazionale. In sintesi, a partire dal 5 aprile gli Usa applicheranno dazi del 10% su tutte le importazioni e per alcune nazioni – per esempio il Regno Unito – questa sarà l’unica misura adottata. Dal 9 aprile entreranno in vigore tariffe più pesanti e differenziate per una sessantina di Paesi: nel caso dell’Unione Europea – e dell’Italia, dunque – saranno pari al 20%, mentre il 34% annunciato per la Cina dovrebbe andarsi ad aggiungere al 20% già previsto, portando il totale a ben il 54%. Anche per l’Unione Europea e l’Italia le nuove tariffe si vanno a sommare a quelle già applicate per le singole merci. La conta dei danni per il nostro Paese è subito iniziata, accompagnata anche da proposte per affrontare l’emergenza: “Con i sanguinosi dazi americani al 20% il mercato dovrà tagliare i propri ricavi di 323 milioni di euro all’anno – dichiara Lamberto Frescobaldi, Presidente di Unione italiana vini (Uiv) – pena l’uscita dal mercato per buona parte delle nostre produzioni. Perciò Uiv è convinta della necessità di fare un patto tra le nostre imprese e gli alleati commerciali d’oltreoceano che più di noi traggono profitto dai vini importati; serve condividere l’onere dell’extra-costo ed evitare di riversarlo sui consumatori”.

UIV AUSPICA UNA REAZIONE DI FILIERA
Secondo un’analisi dell’Osservatorio Uiv, l’unica soluzione è infatti da ricercare lungo la filiera, con il mercato – dalla produzione fino a importatori e distributori – che dovrebbe farsi carico di un taglio dei propri ricavi per un valore pari a 323 milioni di euro (su un totale di 1,94 miliardi) e mantenere così gli attuali assetti di pricing. Sempre in base ai calcoli di Uiv, ben il 76% delle 480 milioni di bottiglie tricolori spedite lo scorso anno verso gli Stati Uniti si trova in “zona rossa” con una esposizione sul totale delle spedizioni superiore al 20%. I picchi si registrano per il Moscato d’Asti (60%), il Pinot grigio (48%), il Chianti Classico (46%), i rossi toscani Dop al 35%, i piemontesi al 31%, così come il Brunello di Montalcino, per chiudere con il Prosecco al 27% e il Lambrusco. In totale sono 364 milioni di bottiglie, per un valore di oltre 1,3 miliardi di euro, ovvero il 70% dell’export italiano verso gli Stati Uniti. Per Paolo Castelletti, Segretario Generale di Uiv (nella foto in alto), “Rispetto ai partner europei, l’Italia presenta due principali fattori di rischio: da una parte la maggiore esposizione netta sul mercato statunitense, pari al 24% del valore totale dell’export contro il 20% della Francia e l’11% della Spagna. Dall’altra, una lista di prodotti più sensibili su questo mercato, sia in termini di esposizione, che di prezzo medio a scaffale: solo il 2% delle bottiglie tricolori vendute in America vanta un price point da vino di lusso, mentre l’80% si concentra nelle fasce “popular”, che tradotto in prezzo/partenza significa in media poco più di 4 euro al litro”.

CENTROMARCA AVVIA UN’INDAGINE SUL FRONTE INDUSTRIALE
Dal canto suo, Centromarca ha avviato un’indagine rapida per misurare l’impatto che i dazi americani avranno sull’industria di marca e fornire dati utili in sede nazionale ed europea. “Nel settore del largo consumo il prezzo è una componente significativa – sottolinea Vittorio Cino, Direttore Generale di Centromarca –. Le conseguenze non dovrebbero essere omogenee: ogni merceologia ha specifiche dinamiche di esportazione, variabili produttive e commerciali. Per esempio, ci sono diverse elasticità della domanda alle variazioni di prezzo che i dazi potranno determinare per i consumatori. Certo la scelta statunitense crea una discontinuità senza precedenti nel mercato globale: ci vorrà tempo e un’attività diplomatica di vasta portata per recuperarla”.

GLI EFFETTI SUI COMPORTAMENTI DEL CONSUMATORE STATUNITENSE
Secondo una ricerca, condotta in questi giorni negli Stati Uniti da YouGov per Centromarca, circa la metà dei consumatori americani utilizza prodotti grocery italiani: il 14% lo fa ogni settimana, il 25% mensilmente. Tra i prodotti usati abitualmente, nelle prime cinque posizioni troviamo pasta (50% di citazioni), seguita da olio di oliva (46%), formaggi (38%), salse (37%) e vino (33%). In merito all’effetto dazi solo il 16% dei consumatori afferma di essere disposto a pagare di più per acquistare prodotti grocery italiani, il 48% afferma di essere disposto a spendere la stessa cifra che sborsa per altri prodotti, il 10% vorrebbe investire di meno, il 26% non ha un’opinione precisa. Fatto cento coloro che consumano prodotti grocery made in Italy, il 47% asserisce che in caso di aumento dei dazi manterrebbe la quantità di prodotti italiani acquistati, mentre il 30% la ridurrebbe. Tra gli elementi che guidano l’acquisto di prodotti italiani primeggiano qualità percepita, reputazione della marca e rapporto qualità/prezzo.

L’EXPORT DI PRODOTTI DI LARGO CONSUMO NEGLI STATI UNITI
Alcuni dati elaborati da Nomisma per Centromarca descrivono l’importanza dello sbocco statunitense per le produzioni grocery alimentari e non food italiane. Tra il 2023 e il 2024 l’incremento delle importazioni a valore negli Usa è stato del +16%, da 8,5 a 9,9 miliardi di euro. In dettaglio, l’alimentare cresce da 6,8 a 8,0 miliardi di euro e i prodotti per la cura della casa e della persona da 1,7 a 1,9 miliardi di euro. Nel decennio 2014 – 2024 il fatturato grocery complessivo è passato da 3,8 a 9,9 miliardi di euro, pari a una crescita del +161%. Le analisi mostrano che nel 2024 il peso degli Usa sull’export italiano food & beverage era pari al 12%; 13% per i prodotti cura casa/persona. Il 72% dell’export di sidro italiano (spesso usato come intermedio di lavorazione) ha come canale di sbocco gli states. Seguono: acque minerali (41%), olio di oliva (32%), aceti (30%), liquori (26%), vini fermi/frizzanti (25%), spumanti (24%), formaggi duri/semi duri (19%), profumi/fragranze (18%), pasta (16%), trucchi/prodotti di bellezza (15%), conserve di pomodoro (7%). Per il 54% dei consumatori statunitensi acquistare un prodotto alimentare di marca italiana è sinonimo di bontà, per il 49% di qualità delle materie prime, per 36% di sicurezza e tutela della salute. Nell’ambito dei prodotti per il personal & home care il 53% delle persone trova qualità delle materie prime, il 49% sicurezza, il 32% sostenibilità ambientale.

IL POSIZIONAMENTO PREMIUM SALVERÀ IL PARMIGIANO REGGIANO?
A confidare nella specificità della nostra produzione è Nicola Bertinelli, Presidente del Consorzio Parmigiano Reggiano (nella foto a destra): “I dazi sul nostro prodotto passano dal 15% al 35%. Di certo la notizia non ci rende felici, ma il Parmigiano Reggiano è un prodotto premium e l’aumento del prezzo non porta automaticamente ad una riduzione dei consumi. Lavoreremo per cercare con la via negoziale di fare capire per quale motivo non ha senso applicare dazi a un prodotto come il nostro che non è in reale concorrenza con i parmesan americani. Ci rimboccheremo le maniche per sostenere la domanda in quello che è il nostro primo mercato estero e che rappresenta oggi il 22,5% della quota export totale. Il Parmigiano Reggiano copre circa il 7% del mercato dei formaggi duri a stelle e strisce e viene venduto a un prezzo più che doppio rispetto a quello dei parmesan locali. Nel 2019, quando Trump introdusse tariffe aggiuntive pari al 25%, il Parmigiano Reggiano fu il prodotto più colpito con un incremento del prezzo a scaffale dai 40 ai 45 dollari al chilo. Fortunatamente i dazi sono poi stati sospesi il 6 marzo del 2021 e non ci hanno creato problemi in termini di vendite. Gli americani hanno continuato a sceglierci anche quando il prezzo è aumentato. Negli Stati Uniti chi compra il Parmigiano Reggiano fa una scelta consapevole: ha infatti un 93% di mercato di alternative che costano 2-3 volte meno”.

ALLARME NEL MONDO COOPERATIVO
Fortemente impattato è anche il tessuto cooperativo: negli Usa il fatturato delle cantine cooperative è di oltre 570 milioni di euro, il 30% di tutto l’export vitivinicolo nel mercato statunitense, mentre per un altro settore ad alto valore aggiunto con le sue produzioni DOP come i formaggi, le cooperative commercializzano negli Stati Uniti 122 milioni di euro, il 25% di tutte le vendite di formaggi negli Usa, che nel 2024 hanno toccato quota 484 milioni di euro. Seguono poi altre filiere e prodotti in cui la cooperazione esporta valori significativi come il pomodoro da industria. “Per quanto riguarda il settore vino – dice Raffaele Drei, Presidente di Confcooperative Fedagripesca (nella foto in alto) – occorre destinare maggiori risorse per la promozione, se davvero vogliamo aiutare le aziende ad acquisire nuovi mercati. Andrà fatto inoltre un grande lavoro di sburocratizzazione nelle procedure per l’accesso ai bandi. All’Europa chiediamo misure per la promozione più snelle e in generale risposte più efficaci rispetto al passato perché quelle attuali risultano un po’ timide rispetto all’urgenza di aggredire nuovi mercati”. Più in generale, per altri settori fortemente orientati alle esportazioni, le istituzioni secondo Drei “dovranno concentrarsi maggiormente nei rapporti internazionali per promuovere rapporti bilaterali con altri paesi extra-Ue, anche attraverso nuovi accordi di libero scambio al fine di migliorare canali commerciali già consolidati o aprire altri mercati in cui oggi è difficile conquistare quote di mercato. Il settore lattiero-caseario rischia di veder compromessa la stabilità della tutela delle Dop con il conseguente proliferare dell’Italian sounding”.

Uiv: Europa, tieni il vino fuori dalla disputa commerciale con gli Usa

I dazi “ritorsivi” al 200% minacciati dal presidente Trump a vini e alcolici dell’Unione europea rischiano di azzerare un valore complessivo delle esportazioni verso gli Usa pari a 8 miliardi di euro. Le stesse categorie di prodotto esportate dagli Usa e oggetto delle possibili contromisure dell’Ue quotano circa 1,35 miliardi. Lo rileva l’Osservatorio di Unione italiana vini (Uiv) nel considerare inopportuna l’inclusione nella disputa commerciale di categorie di prodotti in cui il “gioco a perdere” è evidente, con un rapporto di 6 a 1. Una sproporzione che secondo Unione italiana vini rischia di mettere in ginocchio un comparto, il vino, che in Italia vale l’1,1% del Pil con un valore aggiunto che supera i 17 miliardi di euro, con un peso pari al 40% (1,93 miliardi di euro) del totale export Ue negli Stati Uniti. Secondo il segretario generale di Unione italiana vini, Paolo Castelletti: “L’annuncio dei dazi al 200% sta determinando effetti negativi sul mercato, con disdette degli ordini di merci destinate oltreoceano che si vanno moltiplicando. Uiv, assieme agli imprenditori europei del Comité vins, chiede pertanto alla Commissione europea una urgente revisione delle liste, con la richiesta di rimozione delle bevande alcoliche americane (spiriti e vino). È indispensabile, vista la sproporzione dei fattori in campo, fare in modo che questi prodotti restino fuori dalla disputa commerciale in corso”.

Dazi sul food: chi rischia di più in una guerra commerciale con gli Usa

È allarme rosso per l’agroalimentare italiano. La guerra commerciale, che potrebbe aprirsi con l’entrata in vigore il 2 aprile dei dazi voluti dal Presidente degli Usa Donald Trump, mette in pericolo l’export di tanti prodotti tricolori. A fare l’elenco dei più esposti è un’analisi di Cia-Agricoltori Italiani, realizzata sulla base dei dati di Nomisma e dell’Ufficio studi confederale. Qualche nome? Chianti e Amarone, Barbera, Friulano e Ribolla, Pecorino Romano, Prosecco e persino sidro di mele, mentre Sardegna e Toscana sono le regioni che potenzialmente potrebbero patire i danni maggiori. “Serve un’azione diplomatica forte per trovare una soluzione e non compromettere i traguardi raggiunti finora – dichiara Cristiano Fini, Presidente nazionale di Cia –. L’export agroalimentare negli Usa è cresciuto del 158% in dieci anni e oggi gli Stati Uniti rappresentano il secondo mercato di riferimento mondiale per cibo e vino Made in Italy, con 7,8 miliardi di euro messi a segno nel 2024. L’Italia può e deve essere capofila in Europa nell’apertura di un negoziato con Trump, visto che abbiamo anche più da perdere. Gli Usa, infatti, valgono quasi il 12% di tutto il nostro export agroalimentare globale, mettendoci in testa alla classifica dei Paesi Ue, molto prima di Germania (2,5%), Spagna (4,7%) e Francia (6,7%)”.

I PRODOTTI AGROALIMENTARI PIÙ ESPOSTI SUL MERCATO AMERICANO
Guardando ai prodotti Made in Italy che trovano negli Stati Uniti il principale sbocco, in termini di incidenza percentuale sulle vendite oltrefrontiera, al primo posto si colloca il sidro, una nicchia di eccellenza che destina il 72% del suo export al mercato americano (per un valore di circa 109 milioni di euro nel 2024), seguito dal Pecorino Romano (prodotto al 90% in Sardegna), il cui export negli Usa vale il 57% di quello complessivo (quasi 151 milioni di euro). Due produzioni molto ricercate dall’industria a stelle e strisce, con “l’Apple Cider” tra le bevande più popolari tra i millenial e il nostro formaggio di pecora utilizzato soprattutto per insaporire le patatine in busta. Ma con i dazi al 25%, avverte Cia, il florido settore americano di chips e snack (2,5 miliardi) potrebbe sostituire il Pecorino nostrano con altri prodotti caseari più convenienti. L’arrivo di nuove tariffe rischia dunque di tagliare di netto il loro mercato, con quote difficilmente rimpiazzabili in altre aree geografiche.
Discorso a parte sul vino italiano, per il quale gli Usa sono la prima piazza mondiale con circa 1,9 miliardi di euro fatturati nel 2024, ma con “esposizioni” più forti di altre a seconda delle bottiglie. Secondo l’analisi di Cia, a dipendere maggiormente dagli Stati Uniti per il proprio export sono infatti i vini bianchi Dop del Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia, con una quota del 48% e un valore esportato di 138 milioni di euro nel 2024; i vini rossi toscani Dop (40%, 290 milioni), i vini rossi piemontesi Dop (31%, 121 milioni) e il Prosecco Dop (27%, 491 milioni). Grandi numeri che i dazi possono scombinare, fa notare Cia, lasciando strada libera ai competitor di aggredire una fetta di mercato molto appetibile: dal Malbec argentino, allo Shiraz australiano, fino al Merlot cileno. Anche per l’olio d’oliva italiano gli Stati Uniti hanno un peso significativo, pari al 32% del proprio export (937 milioni di euro nel 2024), ma meno sostituibile nella spesa degli americani, e così a scendere per i liquori (26%, 143 milioni). Meno esposti al mercato Usa risultano invece Parmigiano Reggiano e Grana Padano, per una quota che pesa per il 17% del valore dell’export congiunto di questi due formaggi (253 milioni), così come pasta e prodotti da forno (13%, 1,1 miliardi).

DANNI MAGGIORI PER LE REGIONI DEL CENTRO-SUD
Se dai singoli prodotti o categorie di prodotti si passa all’export agroalimentare delle regioni, si scopre dai dati Cia che quella più esposta ai nuovi dazi risulta essere la Sardegna (dove si produce oltre il 90% del Pecorino Romano Dop) il cui export agroalimentare finisce per il 49% negli Stati Uniti (e, giocoforza, ci finisce anche il 74% dell’export dei prodotti lattiero-caseari isolani). Al secondo posto per maggior “esposizione” negli Usa figura la Toscana (28% del proprio export agroalimentare, con l’olio in pole position con il 42% e i vini con il 33% delle relative esportazioni). Ma negli Stati Uniti finisce anche il 58% dell’export di olio del Lazio, così come il 28% delle esportazioni di pasta e prodotti da forno abruzzesi e il 26% di quelle di vini campani. Insomma, considerando le diverse aree del Belpaese, sono le esportazioni agroalimentari del Centro e Sud Italia a “rischiare” di più con l’applicazione dei dazi di Trump, anche alla luce di relazioni consolidatesi negli anni con questo importante mercato spesso grazie alla domanda generata dalle comunità di italiani residenti negli Stati Uniti.

Dazi Usa sul vino, Uiv ipotizza danni per un miliardo di euro

Un conto da quasi 1 miliardo di euro solo per l’export. È l’impatto stimato da Unione italiana vini (Uiv) per il vino italiano dei dazi al 25% annunciati dall’amministrazione Trump che potrebbero coinvolgere anche il settore. Un effetto a cerchi concentrici, che parte dagli USA – dove la perdita diretta stimata sarebbe attorno ai 472 milioni di euro, per un saldo rispetto allo scorso anno a -25% – e si allarga ai Paesi impattati direttamente dalle nuove tariffe, per i quali sono previsti rallentamenti economici se non recessione, come in Germania. In Canada l’export italiano potrebbe chiudere i conti del 2025 a -6%, mentre nell’Unione europea le stime si attestano a un -5%, per un saldo valore negativo di 216 milioni di euro. Tra Usa, Canada e Ue, che fanno l’80% del valore export vino italiano, il saldo per l’anno mobile (da aprile 2025 ad aprile 2026) chiuderebbe a -716 milioni di euro (-11%). Il totale delle esportazioni verso il resto del mondo, secondo Uiv, vedrebbe infine una speculare contrazione, che porterebbe il disavanzo tra 2024 e 2025 a -920 milioni di euro. Tutto al netto del mercato interno, che nell’anno mobile subirebbe una ulteriore contrazione di circa 350 milioni di euro, pari al 5% dei consumi.

Per rimanere nel mercato statunitense, che vale per noi circa 1,9 miliardi di euro e il 24% del totale export del settore – precisa Lamberto Frescobaldi, Presidente di Unione italiana vini – ci appelliamo ai nostri partner americani, importatori e distributori. L’obiettivo è fare squadra con le nostre imprese del vino per cercare di ammortizzare insieme il surplus dei costi derivanti dalla guerra commerciale. Ci rendiamo conto che questo sacrificio non sarebbe di facile attuazione e determinerebbe nel breve dinamiche antieconomiche, ma l’imperativo è comunque salvare il mercato e il rapporto speciale che ci lega con i consumatori statunitensi. L’ipotesi dazi al 25% determinerebbe infatti una quasi totale uscita dal mercato, che sarebbe peggiore rispetto alle cifre sopra elencate. In questo mese che ci separa dalle decisioni che saranno adottate dall’amministrazione americana, chiediamo il massimo sforzo della diplomazia italiana ed europea, affinché si avvii, già da adesso, un negoziato sul futuro delle relazioni commerciali con gli Stati Uniti. Il vino deve essere “nella valigetta” delle proposte della Commissione, in merito al riequilibrio commerciale tra i due blocchi”.

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