Dopo il dominio di Iper, torna Esselunga in cima alla classifica dei migliori brand online della grande distribuzione nel mese di luglio. È quanto emerge dalla classifica di BEM Research che ha analizzato l’andamento su Internet di 19 marchi del settore con siti web in lingua italiana. Esselunga ottiene il punteggio massimo per trend di ricerca, velocità e usabilità; Ipermercati Iper fa meglio per visibilità, ma è indietro con i trend di ricerca. Al terzo posto si conferma Coop, che a giugno condivideva la posizione con Decathlon, ora al quarto posto. Chiude la top-five Bricocenter, azienda italiana specializzata in bricolage.
Sembra dunque che anche la grande distribuzione italiana sia trionfalmente entrata nelle logiche della rete e della comunicazione multicanale, mentre l’e-commerce, come previsto, sta decollando, spinto dall’ingresso di Amazon nelle sue varie forme. Il settore in media registra i 35,7 punti-indice, un dato in calo dell’1,2% rispetto alla precedente rilevazione di BEM Research. Esselunga, numero uno a luglio, totalizza 46,6 punti-indice; Ipermercati Iper 46 e Coop 41,6. Il grado di competizione sul web dei diversi marchi è “medio basso”, ma rispetto a un anno aumenta il numero delle ricerche su Google legate al settore di un buon 20%. «Nella grande distribuzione i marchi made in Italy continuano a rappresentare un’eccellenza. Nella top-five ci sono quattro brand italiani, con Decathlon unica presenza straniera – spiega Mariachiara Marsella, Web marketing manager di BEM Research – È un settore che ha saputo innovarsi e che continua a farlo. Chi vende prodotti agroalimentari riesce a raggiungere un pubblico sempre più ampio e aumenta la base dei propri clienti grazie all’e-commerce. La GDO può contare, inoltre, su un pubblico fedele disposto a cercare online il proprio distributore preferito».
È Zalando il sito migliore, in termini di navigabilità, usabilità e risultati di ricerca: è il risultato del report di giugno di BEM Research, che ha analizzato l’andamento sul web di 205 brand operanti in 10 diversi settori economici. L’azienda tedesca di abbigliamento ha totalizzato 65,5 punti indice superando di misura Mondo Convenienza, che si ferma a 64,5. Seguono Ipermercati Iper, poi Ikea e Intesa SanPaolo. Rientrano nella top-ten anche Toys Center, Divani&Divani, Made, Quixa (che segna l’avanzamento maggiore in classifica) e Genertel.
Buone performance per le insegne della Gdo
Nonostante le insegne della Gdo siano dei relativi newcomer nell’arena dell’e-commerce, e in misura minore del web, con la dovuta eccezione di Esselunga, le cose stanno cambiando. L’ingresso di nuovi attori nelle venite online (l’ultimo in ordine di tempo è Simply, e poi c’è iper, che piazza un ottimo terzo posto nella classifica intersettoriale) sta cambiando le carte in tavola. E dunque, se l’arredamento può contare su quattro società nelle prime dieci posizioni in classifica generale, grazie alle performance di Mondo Convenienza, Ikea, Divani&Divani e Made, considerando l’indice di performance online settoriale sono le assicurazioni a comportarsi meglio su Internet (38,4 punti indice di media), ma seguite dalla grande distribuzione (36,2). L’arredamento chiude il podio con 35,7 punti indice su 28 marchi analizzati. La media generale di tutti i 205 brand si attesta a 33,7 punti, in calo dello 0,7% in un mese. Nessuna società dell’editoria rientra nella top-ten, ma il comparto, con la più folta pattuglia di brand, può contare sui siti web con i tempi di caricamento più rapidi e con la migliore usabilità tra tutti i dieci settori presi in esame. «Le aziende che si rivolgono direttamente al pubblico per vendere i loro prodotti online sono quelle più performanti su Internet – spiega Mariachiara Marsella, responsabile marketing online di BEM Research – . L’Italia, più in generale, deve lavorare di più per attrarre aziende straniere nel suo mercato: delle 205 società con un sito Internet in lingua italiana analizzate, ben 126 sono nate in Italia e 62 sono europee. Al di fuori dei confini continentali, si rivolgono ai consumatori italiani 12 aziende statunitensi e 5 società giapponesi».
Una shopping experience profondamente mutata dall’uso del mobile e da un approccio multianale: questo è emerso dalla ricerca Shopping (R)evolution, nona edizione del Convegno dell’Osservatorio Multicanalità promosso da Nielsen, School of Management del Politecnico di Milano e Connexia, in sinergia con Hubility.
Dalla ricerca emerge un’Italia multicanale, dove il 60% della popolazione al di sopra dei 14 anni di età perfeziona il processo di acquisto attraverso un mix di touchpoint tradizionali e digitali: i comportamenti si sono evoluti e i consumatori italiani sono ormai abituati a vivere il processo di acquisto in un ambiente unico, composto da una molteplicità di canali cui attingere. Tra questi, però un dispositivo emerge come emergente, e che sembra imporsi sempre più: oggi il 63% degli utenti Internet si connette al web da smartphone. Un dato in crescita che registra un +43% rispetto al 2012. Crescono anche gli utenti che utilizzano il tablet per accedere al web (+14 % rispetto al 2012) e diminuiscono gli accessi da pc (-15% sul 2012).
La ricerca distingue poi due tipi di “navigatori”: gli InfoShopper e gli eShopper. Gli InfoShopper rappresentano quegli individui che utilizzano touchpoint digitali unicamente per ottenere informazioni su prodotto e/o marca. Parliamo di 11 milioni di italiani, che formano il 35% degli Internet Users e si caratterizzano per il grado di “diffidenza” verso l’utilizzo del digitale per finalizzare transazioni online. Gli eShopper sono invece coloro che utilizzano la rete sia per informarsi sia per effettuare acquisti, che prediligono il web al punto vendita fisico e che, nel 2016, rappresentano 20,5 milioni di italiani, pari al 65% degli utenti internet.
«Dalla ricerca emerge un’Italia molto più evoluta e multicanale rispetto al percepito di aziende e istituzioni – dice Cristina Papini, Director Nielsen –. Per 31,5 milioni di italiani Internet è centrale nel customer journey: 20,5 milioni lo utilizzano lungo tutto il processo d’acquisto. Siamo a un punto di svolta nel quale il ruolo del digitale assume connotazioni e intensità diverse nelle varie categorie di prodotto e tra i segmenti di consumatori individuati. Se non stupisce che il 92% degli eShopper ha acquistato viaggi online e il 72% ha speso online oltre la metà, nell’abbigliamento e accessori – in cui l’aspetto sensoriale e l’auto appagamento sono elevati – troviamo un nutrito 66% di acquirenti Internet e un più contenuto 14% che sviluppa online oltre il 50% del valore».
Il punto vendita? Lo si vuole iperconnesso e hub multicanale
In questo scenario, quali sono le aspettative dei consumatori in relazione al punto vendita e alle piattaforme di e-commerce? Nel Largo Consumo, l’aspettativa è per l’avvento di un negozio iperconnesso, all’interno del quale sia possibile testare nuovi prodotti e ordinare online quelli non disponibili. Ciò che i consumatori più avanzati si attendono sono offerte immediate e personalizzate, casse self-service, controlli rapidi per verificare la disponibilità del prodotto, garanzia di WI-FI all’interno dello store e assistenti alle vendite in grado di accettare pagamenti in mobilità, senza dover necessariamente passare dalla cassa.
Per quanto riguarda le categorie di prodotti del Largo Consumo ritenute maggiormente affini all’acquisto online, al primo posto ci sono i prodotti per l’igiene della casa (71%), seguiti dai prodotti per la cura della persona (72%), dagli alimenti per animali domestici (65%), dai prodotti per l’infanzia (64%) e, per finire, dagli alimenti confezionati (55%).
Il quadro che emerge da Shopping (R)evolution evidenzia quindi come sia in corso una vera e propria rivoluzione nel mondo del business, dovuta principalmente all’ingresso di digital e mobile nelle logiche e nelle dinamiche di consumo. Il tessuto sociale ed economico appare profondamente permeato dal fattore multicanalità, e i trend evidenziati sono in rapido e costante aumento.
«La Ricerca 2016 fotografa una situazione in cui, da un lato, il consumatore italiano più evoluto dà sempre più per scontata la multicanalità, dall’altro la competizione tra le aziende si sposta in modo decisivo sulla capacità di progettare esperienze di marca seamless e personalizzate – commenta Giuliano Noci, Professore Ordinario di Marketing Politecnico di Milano –. Ingrediente fondamentale per tale processo sarà, in modo crescente, la capacità di raccogliere ed elaborare informazioni generate dal consumatore, ma anche dal contesto competitivo, non tanto in ottica di big data, ma secondo una prospettiva di smart data. Le implicazioni per le imprese sono quindi profonde: si assisterà progressivamente a una ridefinizione dei modelli di business attuali, verso una configurazione in cui la capacità di generare intelligence, anche e soprattutto granulare, diverrà il fattore critico di successo per tutte le attività di marketing, di comunicazione e di gestione della relazione con il cliente, attuale e potenziale».
Big data: senza dubbio una grande opportunità. Sul tema il giudizio è unanime come dimostrano anche i risultati di un’indagine internazionale svolta dall’ente di certificazione DNV GL – Business Assurance e dall’istituto di ricerca GFK Eurisko su circa 1200 professionisti che operano in aziende di settori diversi in Europa, nelle Americhe e in Asia.
Emerge infatti che il 52% degli intervistati concorda sul fatto che i big data rappresentino un’opportunità in chiave di business, con punte di ben il 70% per quelle con oltre 1.000 addetti, mentre il 45% riconosce l’impatto diretto dei big data per il proprio modello economico. Il problema, però, è che solo il 23% dispone di una strategia chiara. Tuttavia ci si sta attrezzando: il 65% delle imprese, infatti, si sta preparando a un futuro dove i big data giocheranno un ruolo significativo, mentre il 76% manterrà o incrementerà gli investimenti dedicati. Inoltre, sono in molti a pianificare cambiamenti significativi per il proprio personale, favorendo lo sviluppo di competenze interne specifiche (47%) o di partnership ad hoc (20%).
La maggior parte degli sforzi si concentra sulla creazione delle risorse e competenze necessarie per poter sfruttare i big data al massimo del potenziale. Il 28% ha migliorato la gestione delle informazioni e il 25% ha implementato nuove tecnologie e metodiche. Meno numerose le aziende che hanno intrapreso azioni che hanno influito sulla loro routine quotidiana: il 16% ha lavorato per cambiare la cultura o la struttura organizzativa, mentre il 15% ha mutato modello imprenditoriale.
Quali i vantaggi, fino ad oggi?
Tutte le aziende che sfruttano i big data hanno ottenuto benefici concreti. Il 23% dichiara di aver accresciuto l’efficienza, il 16% ha migliorato i processi decisionali e l’11% ne ha beneficiato in termini di risparmi. Nel 16% dei casi, grazie ai big data, sono migliorati customer experience e coinvolgimento; nel 9%, le relazioni con gli altri stakeholder.
I principali fattori che impediscono alle aziende di progredire ulteriormente hanno a che vedere con la mancanza di una strategia d’insieme e di competenze tecniche (entrambe al 24%).
Un consumatore che cerca un’esperienza sempre più personalizzata di acquisto, ma anche semplificata, veloce e coinvolgente, da intercettare grazie a dotazioni tecnologiche avanzata, ma anche un punto vendita attraente e la capacità di vendere in tutti i mercati e di costituire partnership strategiche: è questa la chiave per interpretare il ruolo del retailer del futuro. Lo rileva un’indagine condotta a livello globale da Economist Intelligence Unit (EIU) per Demandware fra 300 alti dirigenti di aziende retail. I risultati rivelano quelli che, secondo questi leader, sono le quattro dinamiche principali per il settore: la globalizzazione crescente, i rischi sempre più gravi per la sicurezza, il cambiamento del gusto dei consumatori, e l’aumento dei mercati online competitivi a livello mondiale.
Nonostante queste sfide, un segmento di retailer dalle alte performance di vendita sta perseguendo con successo le proprie strategie aziendali, con un approccio capace di offrire un modello di crescita e trasformazione.
“L’innovativa analisi dell’EIU arriva nel momento in cui il settore del retail sta affrontando un periodo di cambiamenti senza precedenti che richiedono ai retailer di riconsiderare i loro approcci strategici e operativi volti a favorire la crescita”, afferma Rob Garf, Vice President of Industry Strategy and Insights di Demandware. “I cambiamenti radicali nelle dinamiche della vendita al dettaglio influenzeranno la capacità dei retailer di sfruttare la tecnologia, modificare la struttura organizzativa e, infine, raggiungere i propri obiettivi strategici.”
È ancora prodotto, servizio, prezzo: ma ovunque, in tempo reale, su mobile
In questo scenario di cambiamenti senza precedenti, la ricerca svolta dall’EIU indica che i top manager del mondo retail stanno “tornando alle origini” per differenziarsi dalla media. Tra le caratteristiche che i manager considerano più importanti per differenziarsi oggi, il 60% ha indicato un “prodotto d’eccellenza”, mentre il 53% ha menzionato il “servizio senza soluzione di continuità”, offrire un servizio clienti di alta qualità e un’esperienza unificata attraverso i canali. I manager si sono accorti che differenziarsi oggi è più complesso a causa del crescente numero di canali. I dati suggeriscono che gli intervistati si avvicinano a questi fattori tradizionali ponendo il cliente al centro di tutte le attività.
Opportunità o minaccia? Il futuro è qui La ricerca ha identificato in particolare un segmento di retailer dalle alte prestazioni che tende a vedere i cambiamenti in atto come opportunità rispetto ai concorrenti che ottengono risultati inferiori. Ad esempio, il 69% dei retailer di successo vede la globalizzazione come un’opportunità, mentre solo il 43% di chi ottiene risultati inferiori fa lo stesso. Analogamente, il 52% dei retailer di successo considera l’espansione del mercato globale un’opportunità – il nuovo “amico-nemico” – mentre solo il 35% delle imprese con risultati inferiori la considera nello stesso modo.
In particolare, questo segmento vanta tre principali iniziative di crescita: espansione geografica, partnership strategiche, nuovi store e format. Inoltre, stanno introducendo la tecnologia in ogni area in cui operano – indicando l’intenzione di aumentare gli investimenti tecnologici (82%), cifra che supera di gran lunga l’investimento tecnologico previsto da performer inferiori (56%). “Questi dati ci dicono che la democratizzazione del settore retail, con accesso e controllo apparentemente illimitati da parte dei consumatori, ha avviato l’ondata successiva di crescita per le imprese che sanno adattarsi e cambiare – continua Garf -. I retailer non possono più contare su un maggiore numero di negozi, e mercati più grandi per crescere; devono abbracciare la realtà: occorre raggiungere i clienti ovunque, in qualsiasi momento e in qualsiasi modo essi richiedano.” Il report Finding Retail Growth: A View from the Corner Officeè disponibile a questo link.
Francesco Morace sociologo e saggista, lavora da oltre 30 anni nell’ambito della ricerca sociale e di mercato, ed è il Presidente di Future Concept Lab. A lui abbiamo chiesto come vede l’evoluzione dei consumi, tra nuove esperienze digitali e di acquisto. Ecco cosa ci ha raccontato.
Francesco Morace, presidente Future Concept Lab.
Come è cambiato il consumatore con l’avvento dell’e-commerce? La dimensione digitale ha cambiato il consumatore in consum-autore, nel senso che, a dispetto di tutto le previsioni che dicevano che questa tecnologia ci avrebbe manipolato ed omologato, sta avvenendo il contrario: le persone se ne appropriano, riescono a fare le proprie scelte e a prendere le proprie decisioni, con un ventaglio di opportunità molto più ampio. Dunque la dimensione digitale e l’e-commerce rappresentano un’amplificazione della dimensione umana. La cosa straordinaria è che i luoghi si raccontano, c’è un genius loci che emerge nel mare magnum della globalizzazione. Questa è un’altra grande previsione che è stata stravolta: non siamo sempre più uguali agli americani, ma ognuno di noi riesce ad essere più se stesso usando queste tecnologie. È chiaro che i rischi esistono, è una tecnologia che va imparata, è un mondo, quello dell’e-commerce, che va assorbito e metabolizzato, ma non c’è dubbio che tra dieci anni i bambini useranno questa modalità per rappresentare se stessi in modo più autentico.
Secondo lei le divisioni tradizionali del marketing per età o ceto sociale non possono più essere utilizzate, perché? Per 30 anni le categorie del marketing hanno seguito una segmentazione in cui ciascuno aveva il proprio stile di vita, vestiva e viveva in un certo modo con i propri brand di riferimento. Tutto ciò è saltato perché oggi è più facile dare spazio alle proprie passioni individuali. Se hai una passione, la puoi coltivare a diverse età e la comunità di chi segue quella passione è molto più eclettica, quindi ciascuno di noi diventa un interlocutore interessante, e dobbiamo essere raggiunti non più secondo categorie entomologiche, come se fossimo delle farfalle, ma come persone che hanno delle esigenze simili e possono incontrarsi sugli stessi territori, anche se sono molto diverse tra loro per età e ceto sociale.
I nativi digitali sono un caso che ha studiato in particolare… Noi li abbiamo chiamati “Bambini terribili”: collegati in tempo reale al mondo digitale, usano il tablet e lo smartphone di mamma e papà e hanno una capacità straordinaria di orientarsi verso il touch e questi strumenti, quindi sono molto più sensibili alle proposte del mondo digitale. Sempre più spesso impongono le loro scelte ai genitori, o comunque hanno un ruolo importante in famiglia. I teenager sono in una dimensione diversa, hanno il problema di costruirsi una propria identità , li abbiamo chiamati Expo-teen: non solo non sono interessati alla privacy, ma al contrario usano YouTube per esporsi, per raccontare se stessi, le proprie attività, per raggiungere i loro coetanei, essere riconosciuti con tanti like o follower. Il mondo degli adulti molto spesso è impermeabile a questi cambiamenti. Genitori e professori che non sanno usare le tecnologie come i ragazzi o i loro figli oggi si trovano in grave difficoltà. Dall’altra parte della piramide sociale ci sono i maturi, un tempo avremmo detto gli anziani, noi li chiamiamo i longevi che, a più di 60 anni, diventano immigrati digitali perché hanno i nipoti che insegnano loro ad usare Skype e i social network, così quando viaggiano in giro per il mondo chattano con il nonno o usano Skype a costo zero. In particolare in Italia, un Paese che sta invecchiando con un’età media di 45 anni, per capirci in Brasile è 28 anni, hanno delle straordinarie opportunità perché hanno tempo, sono sempre più digitalizzati, e desiderano vivere una seconda vita, dopo il lavoro. Hanno ancora 20/30 anni davanti e quindi stanno diventando, insieme ai bambini e ai ragazzi loro nipoti, protagonisti di questa rivoluzione digitale.
Il punto vendita fisico come si deve approcciare a questi nuovi consumatori? Qui viene a cadere un altro pregiudizio, che l’e-commerce avrebbe scardinato le logiche dell’off-line e del negozio fisico. Non è così, le persone ancora una volta sono più avanti, hanno la soluzione, scelgono questi luoghi per quello che possono dare loro di più, quindi confrontano prezzi sul web e vanno in negozio, oppure dal negozio ordinano online il prodotto che al momento non è disponibile. È tutto un unicum, un’esperienza integrale e integrata, e soggetti di diverse età stanno ragionando in questo modo, quindi è necessario curare la dimensione web e quella dello spazio fisico capendo che oggi noi non vogliamo rinunciare a nulla, né alla semplicità e al servizio del digitale ma neanche all’esperienza fisica e sensoriale di entrare in un bel negozio.
Creare nuove customer experience digitali per chi fa shopping, tramite l’adozione di servizi infrastrutturali ICT, di CRM e di soluzioni in-store ed offrire ai retailer nuovi servizi business: questo il senso dell’accordo tra BTeGallerie Commerciali Italia, società Auchan Holding che si occupa della gestione dei centri commerciali di proprietà o in affidamento (in Italia sono 43 centri commerciali e sei retail park).
BT tramite l’utilizzo di tecnologie digitali offrirà ai consumatori una miglior customer experience omnicanale. Il progetto di digital transformation racchiude varie soluzioni multisensoriali in-store, che coinvolgeranno vista, udito, olfatto e tatto grazie alle quali cambierà il modo in cui retailer e clienti interagiscono negli spazi commerciali. Saranno disponibili nuovi modi di interagire e comunicare, grazie a smart screen, device mobili, in-store radio, diffusione di essenze.
La rete di BT fornirà i servizi di connettività wired e wireless. Gallerie Commerciali Italia utilizzerà la rete anche per controllare e raccogliere i dati dalle diverse fonti all’interno dei centri commerciali e per fornire un servizio di Wi-Fi pubblico ai consumatori. I ‘big data’ raccolti saranno utili anche per offrire ai retailer servizi con cui migliorare ulteriormente la customer experience dei loro clienti. L’intesa siglata prevede la realizzazione di una prima fase pilota in tre centri commerciali: Vimodrone, Nerviano e Rescaldina, selezionati per diversa tipologia e dimensione, che permetterà di testare sul campo le specifiche del progetto da sarà successivamente inserito in tutte le Gallerie, che contano 2.200 negozi con 180 milioni di visitatori all’anno.
Gruppo VéGé si conferma all’avanguardia nello sviluppo di nuove forme di relazione con la clientela e di customer engagement, coinvolgendo gli utenti dei social media nella scelta della nuova immagine per la Marca del Distributore VéGé, tramite un sondaggio su Facebook. In questo modo il Gruppo rompe la consuetudine che vuole la scelta di un logo aziendale come assoluta procedura interna coperta dal massimo riserbo, imboccando la strada della trasparenza e della condivisione.
Agli utenti è stato chiesto:
– di scegliere quale fosse, per loro, il logo più convincente in una rosa di dieci proposte grafiche; – di optare per la soluzione, a loro giudizio, più efficace per applicare il logo sulle confezioni di quattro prodotti a marchio: insalate, pomodori pelati, salviettine e candeggina. La risposta da parte degli utenti social è stata superiore a qualsiasi aspettativa. In capo ad appena due settimane dalla pubblicazione, il post su Facebook aveva raggiunto oltre 49.000 persone, di cui oltre 1.500 avevano interagito lasciando un “mi piace”, commentando o condividendo. Si tratta di un tasso di coinvolgimento molto alto per un’iniziativa legata al graphic design che, di norma, si ritiene sia di richiamo solo per pochi “addetti ai lavori”. Nello stesso arco di tempo, il sondaggio online è stato visionato da circa 500 persone, di cui 102 hanno dedicato in media 1 minuto e mezzo per rispondere, a conferma di un elevato livello di attenzione.
Il coinvolgimento degli utenti di Facebook ha quindi condotto, in poco tempo, alla scelta definitiva del nuovo logo dei prodotti VéGé, dimostrando come il coinvolgimento dei consumatori e l’attenzione verso i loro gusti e necessità, che da sempre caratterizzano le scelte di Gruppo VéGé, sia una strategia vincente per rafforzare ancora di più il dialogo che il Gruppo ha con clienti e utenti. “Sono molto soddisfatto di aver portato a termine con successo un’operazione di customer engagement mai sperimentata prima dalla Distribuzione italiana“- dichiara Giorgio Santambrogio, Amministratore Delegato Gruppo VéGé. “Ci saremmo potuti accontentare del riscontro in termini di coinvolgimento degli utenti sui social media, che da solo testimonia la bontà della nostra strategia di comunicazione online, ma i clienti ci hanno premiato affiancandoci realmente nella scelta di uno strumento essenziale per l’ulteriore crescita del brand VéGé.”
Beacon, sempre più spesso sulla bocca di tutti, ma in effetti cosa sono e quali vantaggi possono apportare? Si tratta di devices compatti che sfruttano la tecnologia Bluetooth Low Energy e che, se posizionati in aree strategiche, permettono di erogare contenuti mirati (e con perfetto tempismo) sui dispositivi mobili (smartphone e tablet) degli utenti.
E lo spettro dei vari utilizzi è molto, molto ampio. “Gli usi della tecnologia Beacon, sono potenzialmente infiniti – spiega infatti Luca Vajani, CEO di Aries Tech, software house di Milano – grazie ad essa gli utenti vengono raggiunti da contenuti mirati nel luogo giusto e al momento giusto accompagnandoli nel loro processo di acquisto in modo attivo e fornendo contenuti esclusivi non usufruibili in altri modi. Marketing di prossimità, coupon e offerte, indoor mapping, guide turistiche e museali, servizi, analisi, domotica, sono solo alcune delle destinazioni d’uso delle applicazioni Beacon.”
I vantaggi
I Beacon, oltre a permettere ai retailers di raccogliere dati statistici importantissimi sulle abitudini dei consumatori, offrono una shopping experience nuova, arricchita, che non obbliga l’utente a effettuare ricerche o consultare volantini e brochure.
Tale tecnologia inoltre consuma pochissima batteria e non richiede la sincronizzazione col telefono ricevente ma invia un segnale continuo ricevuto dai telefoni entro un determinato raggio (da 10 cm a 70 mt), tutto quello serve è un’applicazione realizzata ad hoc, uno smartphone aggiornato e il bluetooth acceso.
“L’uso dei Beacon è sempre più diffuso – prosegue Luca Vajani, CEO di Aries Tech – e sono sempre più numerose le applicazioni che sfruttano questa tecnologia. Le più recenti statistiche infatti affermano che entro il 2018 solo negli Stati Uniti ci saranno 4,5 milioni di Beacon in uso di cui i 3/4 destinati al retail. I Beacon stanno rivoluzionando il marketing mobile e cambieranno il modo in cui i brand comunicheranno con il proprio target, basti pensare che il 67% degli italiani usa uno smartphone e, secondo un recente studio di Google, il 50% delle applicazioni installate svolgono un ruolo determinante nel processo di acquisto [Fonte: Google – Mobile app marketing insights 2015].
Dopo un inizio un po’ in sordina, sembrano prendere sempre più piede i pagamenti contactless: secondo Visa ne sono stati eseguiti 3 miliardi negli ultimi 12 mesi: quasi il triplo del numero di transazioni registrato nello stesso periodo un anno fa. I consumatori europei hanno pagato contactless 360 milioni di volte nel solo mese di aprile 2016, circa 140 transazioni al secondo, con una crescita del 150% rispetto ai 143 milioni di operazioni dell’aprile 2015. Sale anche lo scontrino medio, del 12%, per un valore di 13,83 euro, e il rapporto di pagamenti contactless Visa presso i punti di accettazione passa da 1 su 60 nel 2013 a 1 su 5 oggi.
La modalità “senza contatto” è stata usata dai possessori di carta Visa per pagare pranzi, colazioni e cene: i punti di ristorazione hanno infatti registrato la maggiore crescita del numero di transazioni contactless anno su anno (153%), seguiti dal commercio al dettaglio (146%), supermarket (119%) e bar e caffetterie compresi i fast food (96%).
Oggi sono presenti in Europa oltre 3,2 milioni di terminali in negozi e punti di ristorazione: +23% rispetto ai 2,6 milioni ad aprile 2015. Il tasso destinato a crescere, visto che i terminali POS immessi sul mercato da gennaio 2016 sono già abilitati al pagamento contactless, a supporto del raggiungimento dell’obiettivo di dotare tutti i terminali con tecnologia contactless entro il 2020.
Regno Unito primo della classe: +300%
I consumatori in Polonia, Spagna e Regno Unito sono i maggiori utilizzatori di pagamenti contactless. In particolare, l’adozione di pagamenti contactless in Gran Bretagna è cresciuta del 300% per numero di transazioni. La crescita dei pagamenti contactless nello UK è sostenuta dai servizi di trasporto di Transport for London (TfL) che, tra rete metropolitana e quella di superficie, ha generato oltre 400 milioni di accessi contactless dall’introduzione, di cui 9 accessi contactless su 10 su carte Visa. Inoltre, il lancio di Apple Pay, il servizio di pagamento mobile di Apple e di bPay, la gamma di wearable per pagamenti di Barclays, hanno stimolato i consumatori ad adottare nuove modalità di pagamento. Tra gli esercenti britannici che registrano il maggior numero di transazioni contactless ci sono primarie insegne della Gdo e del retail come Tesco, The Co-Operative, e Marks & Spencer, oltre a Transport for London e McDonald’s.
In Italia, sebbene la penetrazione dei pagamenti contactless sia ancora sotto la media europea (5% contro 21% in Europa) la modalità di pagamento senza contatto è in crescita: nel marzo 2016 sono state circa 1,54 milioni le operazioni di pagamento contactless, contro le 120.500 del marzo 2015. Visa in tutta Italia gestiva oltre 5,6 milioni di carte contactless a fine 2015, +210% rispetto all’anno precedente, che nel 2015 hanno generato oltre 105 milioni di euro di spesa. Il network di accettazione di pagamenti contactless conta oggi oltre 725mila terminali abilitati, il 40% del totale dei terminali, in crescita del 43% rispetto a due anni fa.
«Il successo del contactless prepara la strada alla tecnologia dei pagamenti di domani. Più del 70% di tutti i pagamenti in contanti ha un valore inferiore ai 15 euro ed è effettuato presso esercenti che tradizionalmente prima non accettavano le carte per tali importi. Una delle ragioni è che gli esercenti e i consumatori, in genere, considerano l’utilizzo delle carte di pagamento per le spese di piccolo importo meno veloce del pagamento in contanti. L’introduzione della tecnologia contactless ha modificato sostanzialmente questo scenario, e giocherà sempre più un ruolo significativo nell’industria dei pagamenti» ha spiegato Davide Steffanini, Direttore Generale Italia di Visa Europe.
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