CLOSE
Home Tags Filiera agroalimentare

Tag: filiera agroalimentare

Made in Italy sotto attacco, i dazi di Trump mettono a rischio 3,8 mld di export USA

L’ascesa sembrava inarrestabile per i prodotti agroalimentari italiani che hanno vissuto un 2016 eccezionale (vedi Meraviglioso Made in Italy, nel 2016 export alimentare a 38 mld e siamo primi nel vino), e invece no: la politica proibizionistica del neopresidente degli Stati Uniti Donald Trump ci ha messo lo zampino. Ed ora non è solo la Vespa, icona dell’Italian way of life, ma piuttosto sono 3,8 miliardi di esportazioni di made in Italy agroalimentari, che nel 2016 hanno segnato un +6%. È quanto emerge da uno studio della Coldiretti in occasione della diffusione delle indiscrezioni sulla lista di prodotti italiani ed europei sui quali l’amministrazione statunitense sta valutando di imporre dazi punitivi del 100%, E le esportazioni verso gli USA pesano parecchio: il 10% del totale dell ‘agroalimentari italiane nel mondo (38,4 miliardi) con il terzo posto tra i principali italian food buyer dopo Germania e Francia, ma prima della Gran Bretagna. Il vino risulta essere il prodotto più gettonato dagli statunitensi con 1,35 miliardi (+5% nel 2016), davanti a olio (499 milioni +10% nel 2016), formaggi (289 milioni, +2% nel 2016) e pasta (271 milioni, +4% nel 2016) secondo le analisi della Coldiretti: che ora rischieranno un crollo nelle vendite.

 

La lotta si gioca sulla sicurezza alimentare

Secondo Coldiretti un tale success sarebbe frutto anche dei primati qualitativi e di sicurezza alimentare dell’Italia, l’unico Paese al mondo con 4.965 prodotti alimentari tradizionali censiti, 289 specialità Dop/Igp riconosciute a livello comunitario e 415 vini Doc/Docg, e il divieto verso le coltivazioni Ogm e la carne agli ormoni.

Sullo sfondo, la presunzione statunitense di imporre ai cittadini europei la carne trattata con ormoni, che peraltro trova contrari il 98% degli italiani i quali non vogliono correre il rischio di consumarla secondo una indagine Coldiretti/IprMarketing.

Il divieto europeo di far entrare sul proprio mercato carne trattata con ormoni risale agli anni 80 ma nel 1996 gli Stati Uniti e il Canada hanno presentato il ricorso al Wto con il quale è iniziata una lunga battaglia con alti e bassi che sta portando ora gli Usa a definire una lista di prodotti da colpire. L’obiettivo  è individuare particolari prodotti e Stati membri dell’UE da assoggettare all’imposizione di dazi supplementari fino al 100% del loro valore come era già avvenuto in passato, dal 1999 al 2011, quando a farne le spese erano state conserve di pomodoro, carne suina, il formaggio francese Roquefort, acqua minerale, cioccolato e succhi di frutta.

 

 

Un diluvio di Italian sounding, formaggi e vini in primis

Il rischio di chiusura delle frontiere potrebbe portare a una proliferazione sul mercato statunitense del fenomeno dell’Italian sounding, che vale già 20 miliardi di euro, secondo la Coldiretti. Il 99% dei formaggi di tipo italiano sono in realtà realizzati in Wisconsin, California e New York, dal Parmesan al Romano senza latte di pecora, dall’Asiago al Gorgonzola fino al Fontiago, un improbabile mix tra Asiago e Fontina. Ma c’è anche il Chianti prodotto in California, mentre sempre negli States è possibile acquistare del Marsala Wine. Il fenomeno del falso vino “Made in Italy” trova un forte impulso anche dalle opportunità di vendita attraverso la rete dove è possibile acquistare da aziende statunitensi pseudo vino ottenuto da polveri miracolose contenute in wine-kit che promettono in pochi giorni di ottenere le etichette più prestigiose come Chianti, Valpolicella, Frascati, Primitivo, Gewurztraminer, Barolo, Verdicchio, Lambrusco o Montepulciano. Soggetti al “taroccamento” però ci sono anche altri prodotti, dai pomodori san Marzano all’olio d’oliva fino ai salumi.

Trump, Brexit? Ma no, Produit en Bretagne, il marchio regionale che salva posti di lavoro

È ormai chiaro che uno dei temi più caldi del momento è quello della perdita di occupazione in tutti i settori, dall’agricoltura al commercio all’industria, già colpita in passato. Tanto caldo da aver fato da sfondo a decisioni importanti quali la vittoria del sì al referendum sulla Brexit nel Regno Unito e all’elezione del tycoon Donald Trump negli USA. Sono milioni i posti di lavoro a rischio per una serie di motivi: dall’automazione all’ingresso delle intelligenze artificiali in tutti i campi, dalla medicina al commercio, dall’e-commerce ai mutati stili di vita. Ciò su cui più si discute è piuttosto come fare a salvare o addirittura creare nuova occupazione.

Una risposta viene – almeno nelle intenzioni – dal “marchio regionale” lanciato in Francia già da qualche anno con l’obiettivo dichiarato di promuovere le produzioni locali, spingendo i consumatori a fare acquisti a chilometro zero, o quasi. Una sorta di “spesa sociale” che dovrebbe fare da volano, o quanto meno mantenere, posti di lavoro “della porta accanto”. Si chiama “Produit en Bretagne” ed è costituito da “una rete di imprese che hanno come obiettivo la difesa del lavoro locale attraverso la promozione del know-how delle imprese bretoni”. che impiegano 110mila persone.

 

Il ruolo della Gdo

Fin dalla nascita, avvenuta in tempi non sospetti, nel lontano 1993, un ruolo determinante è stato assegnato alla distribuzione, che ha lavorato insieme alle imprese produttrici per creare forti operazioni commerciali con al centro i prodotti bretoni (oltre 4mila). I quali per poter usare il marchio, devono avere dei requisiti specifici, verificati per ogni prodotto che ne fa richiesta: utilizzo di materie prime locali se disponibili, trasformazione nel caso di materie prime esterne in loco secondo criteri specifici, relazioni con altre imprese della regione.

Le insegne che partecipano al progetto si impegnano a promuovere i prodotti a marchio all’interno di un progetto comune, mentre a fine maggio viene lanciata una settimana dedicata nella quale tutte le insegne propongono una stessa selezione di prodotti. 

Un modello replicabile, certamente, anche in altri Paesi e regioni d’Europa e in particolare in Italia, così ricca di specificità territoriali. Un modo chiaro e forte di promuovere non solo i prodotti del territorio, che tutte le ricerche ormai indicano come richiesti dal consumatore e sinonimo di qualità e genuinità, ma anche per sensibilizzare quest’ultimo alle tematiche sociali e fargli sentire che, con la spesa, può dare una mano. 

Frutta esotica matura e bene in vista con il packaging F.lli Orsero

Una nuova linea di frutti esotici “Maturi al punto Giusto”, con un pack che incontra i desideri del consumatore moderno (estetica, trasparenza e informazioni) è la novità di F.lli Orsero. Sembra un terno al lotto ogni volta che si acquista un frutto esotico, sia un mango o un avocado: sarà maturo? Hai voglia a tastare ed annusare, la verità si scopre solo a casa, a taglio. e non sempre è soddisfacente.

Con la nuova linea F.lli Orsero propone frutta prodotta nelle migliori zone di origine e trasportata con cura fino alla tavola dei consumatori, per garantire il gusto unico della frutta appena raccolta e pronta da gustare. Inoltre avocado, mango e papaya – sono questi i frutti esotici che compongono la gamma – sono confezionati in un pack moderno e funzionale valorizzato da consigli per consumare al meglio il prodotto. Oltre alle informazioni nutrizionali e ai suggerimenti di utilizzo c’è infatti un Qr code che porta ad un video tutorial con consigli su come gustare il frutto.

Da oggi sarà possibile acquistare la linea “Maturi al punto Giusto” anche su Amazon Prime Now, il servizio dedicato ai clienti Amazon Prime che, con l’app Prime Now disponibile per i dispositivi iOS e Android, offre consegne gratuite in finestre a scelta di due ore, a Milano e in 46 comuni dell’hinterland milanese, dalle 8 a mezzanotte, 7 giorni su 7.

Oltre alla nuova gamma di frutta, i clienti di Prime Now potranno acquistare anche altri prodotti F.lli Orsero come mele, kiwi, zenzero, curcuma, lime, ananas e banane.

F.lli Orsero è il brand lanciato sul mercato europeo nel 2012, e successivamente distribuito anche in Asia ed America, espressione della tradizione e della passione di una grande azienda familiare italiana. La qualità del prodotto è garantita dalla gestione e dal controllo dell’intera filiera: dalla produzione fino all’arrivo sul punto vendita, sempre in perfette condizioni di freschezza.

Fico Eataly World, la nuova creatura di Farinetti debutta il 4 ottobre a Bologna

Work in progress nell'area Caab di Bologna.

Un parco di divertimenti a tema food, una palestra educativa, la presenza di tutta la filiera dal campo alla tavola, e un food pride della tradizione alimentare italiana: sarà questo è molto di più Fico (fabbrica Italiana Contadina) Eataly World, il nuovo, pantagruelico progetto di Oscar Farinetti che aprirà – ormai è ufficiale – il prossimo 4 ottobre a Bologna, nell’area dell’attuale CAAB (Centro Agroalimentare di Bologna). 

I numeri sono da capogiro: 80mila metri quadri di cui 67mila coperti, un ettaro di “campi dimostrativi” e allevamenti didattici (7mila metri quadri do colture e 4000 metri quadri di stalle), 40 “fabbriche”-laboratori alimentari (su 11mila metri quadri, gestiti da aziende italiane in cui la materia prima sarà trasformata sotto gli occhi dei visitatori), 9mila metri quadri dedicati alla vendita, 25 ristoranti su 7.300 metri quadri dedicati (trattorie tipiche italiane o chioschi street food ) e poi spazi eventi, aule, tre università, un teatro e un cinema e il più grande impianto fotovoltaico su tetto d’Europa. Ci si muoverà con 1000 biciclette messe a disposizione dei clienti nel mercato, con carrello della spesa e spazio frigo. La mobilità da fuori è invece assicurata da 11 grandi pullman elettrici che fanno la spola dalla stazione e dall’aeroporto, mentre il parcheggio sarà di 18mil posti auto. L’uscita dell’autostrada, oggi CAAB, manco a dirlo sarà rinominata Fico Eataly World

Infine, il tocco da maestro: sei giostre tematiche che seguono la storia dell’umanità, dall’ominide Lucy al distopico futuro, accompagnati da personaggi simbolo dell’epoca. «Tutto questo per portarci a casa 6 milioni di visitatori l’anno. Tra cui 2 milioni di stranieri. Vogliamo diventare il monumento più visitato d’Italia, più del Colosseo, vogliamo essere inseriti nei tour degli stranieri in Italia, entrare nelle agenzie di viaggio: ne sono state già coinvolte 5mila» ha detto Farinetti al Retail Innovations 12 di Kiki Lab dove è intervenuto. 

Oscar Farinetti e Fabrizio Valente a Retail Innovations 12.

«A New York fatturiamo 80 milioni, in Italia era impossibile eguagliare un risultato simile. Allora abbiamo aggiunto il turismo e il divertimento, un divertimento assistito con il fine di spiegare il nostro Paese».

Poi c’è il coté educativo, che punta a richiamare 500mila studenti di tutte le età “per renderli orgogliosi dell’Italia e della loro tradizione”, che parteciperanno a un percorso, letteralmente dal campo alla tavola, passando dai campi alle stalle alla produzione di olio, vino e formaggi. Perché il cuore di Fico è “formazione e magia”.

 

Tecnologia “facile”

La tecnologia, assicura Frainetti “entrerà in tutte le maniere”, con “tutti gli strumenti digitali possibili”. 

A Fico però non sarà nemmeno necessario scaricare un’app (cosa che gli italiani non fanno con grande entusiasmo vedi Internet & Italy, due su tre connessi tra social, messaggi e video, latitano le app): basterà avvicinare lo smartphone a un grande quadro all’ingresso e si riceveranno tutte le info man mano che prosegue la visita (come una sorta di “audioguida”). All’uscita, si rimette lo smartphone nel quadro e chi ha percorso più chilometri a piedi avrà la spesa gratis. “Ma ci saranno anche moli “umani” con cui interagire e che daranno tutte le informazioni necessarie”.

Lo sguardo di Farinetti sulle nuove tecnologie (Iot e intelligenza artificiale) è sempre e comunque ottimista. «C’è chi dice che si perderanno posti di lavoro. Io penso che stiamo entrando in un futuro straordinario, e proprio la tecnologia ci aiuterà a gestire un mondo con 10 miliardi di abitanti. Stiamo vivendo una vera e propria rivoluzione tecnologica comparabile alla scoperta del fuoco 1,5 milioni di anni fa. All’inizio è sempre difficile, ci si brucia, si dà fuoco al bosco. ma poi si impara a domarla, la tecnologia, e usarla al meglio. Certo, come ai tempi della scoperta del fuoco un problema c’è: la nuova tecnologia non è patrimonio di tutti ma è in mano a 4/5 aziende che fanno profitti giganteschi e hanno il potere di comprare ogni nuova idea che esce, ed entrano in qualsiasi mercato (dalle auto all’abbigliamento). Ci vorrà un modo per appropriarci di questi strumenti, come è stato per il fuoco, magari una rivoluzione».

 

Prossima aperture Mosca, occhi puntati su LA

Le prossime aperture dell'”Impero Eataly” sono programmate a Mosca, in franchising (10 aprile), a giugno a Stoccolma, a settembre a Los Angeles con uno store di 9mila metri quadri su cui Eataly punta molto. Nel 2018 è la volta di due grandi città europee, Parigi e Londra, all’interno di due luoghi iconici come Galeries Lafayette e Selfridges. Ma l’orizzonte è più che ampio: “ci sono 196 Paesi al mondo, dobbiamo andare in tutti perché la cucina italiana è universale: leggera, facile, sana e facilmente replicabile perché deriva dalla cucina domestica, è nata in casa non a corte come la francese”. Poi “vorrei fare altri due o tre negozi in Italia, belli”.

La visione, insomma, c’è. L’appuntamento è per il 4 ottobre, a Bologna.

Vedi la fotogallery Fico Eataly World Bologna, l’agroalimentare italiano spiegato al mondo

Melinda accelera sul bio, piano per raggiungere 300 ettari in 5 anni (+370%)

Sempre più bio, non solo nei desiderata dei consumatori ma anche nei progetti di Melinda: il “piano bio” è stato presentato alla C.O.CE.A di Segno di Predaia (Tn) durante l’”Assemblea dei 300” che riunisce periodicamente tutti i consiglieri delle 16 Cooperative associate.

Oggi la produzione di Melinda Bio è di circa 2.500 tonnellate, su circa 80 ettari coltivati. Il piano prevede in cinque anni di raggiungere una superficie coltivata con metodo Bio di 300 ettari (+370%) per una produzione di mele stimata in 14mila tonnellate. Tale produzione consentirà a Melinda di essere presente in maniera costante sul mercato e di lavorare il prodotto in massima sicurezza: è prevista infatti una sala di confezionamento dedicata.

Varie le motivazioni per le quali il consorzio ha deciso di ampliare la propria offerta nel biologico. Prima di tutto la il rafforzamento del percorso intrapreso da anni in direzione di una sempre maggiore sostenibilità delle coltivazioni. La possibilità per i soci di differenziare le coltivazioni. Ma anche, banalmente, un’opportunità commerciale perché il Consorzio riuscirebbe in questo modo a garantire forniture costanti ai clienti.

 

La “road map” per realizzare il “Piano Bio”

Il progetto prevede la produzione di varietà adatte alla coltura biologica e richieste dal consumatore bio e che possibilmente abbiano caratteristiche di resistenza e quindi adatte ad una “facile” gestione agronomica.

È previsto un sostegno alla diffusione di Distretti o Isole BIO o comunque superfici sufficientemente grandi che garantiscano sicurezza alle produzioni biologiche.

Sarà organizzato un adeguato servizio di assistenza tecnica alle nuove superfici, con aumento delle unità lavoro dedicate, un eventuale team tecnico Bio con un responsabile e soprattutto promuovendo formazione specifica ai produttori soci. Saranno inoltre coinvolti capillarmente tutti i possibili interessati al progetto, compresi gli amministratori locali. La fattibilità del piano sarà garantita da un’adeguata copertura economica a sostegno dei soci intenzionati ad aderirvi.

«Melinda, da sempre impegnata in una coltivazione attenta al rispetto ambientale ed ai rapporti fra popolazione e sistema agricolo, crede fortemente in uno sviluppo che sia sempre più sostenibile. Il Piano Bio e l’inserimento delle varietà resistenti nell’assetto varietale della valle sono esempi concreti di tale orientamento» ha commentato Michele Odorizzi, Presidente del Consorzio Melinda.

Il Piano è stato illustrato dal Direttore Generale di Melinda Paolo Gerevini. Sono intervenuti anche Michele Odorizzi; Massimiliano Gremes, Responsabile Qualità; Alessandro Dalpiaz, Direttore APOT; Michele Dallapiccola, Assessore all’agricoltura, foreste, turismo e promozione, caccia e pesca della PAT e Federico Barbi, Direttore Commerciale.

Carrefour dice stop alle uova da allevamenti in gabbia

Il tema è caldo già da tempo in Nord Europa, ed ora anche Carrefour Italia ha deciso di vietare la vendita di tutte uova prodotte da galline allevate in gabbia, in tutte le sue insegne (Market, Express, Iper, DocksMarket e GrossIper). Il tema è quello del benessere animale, una preoccupazione che coinvolge fasce sempre più ampie di consumatori.

L’insegna francese ha già da tempo adattato la selezione dei fornitori ai più alti standard di sostenibilità e attenzione al benessere animale. Le uova a marchio Carrefour e le uova sfuse del settore PFT (Prodotti Freschi Tradizionali) infatti provengono già tutte da allevamenti a terra, all’aperto o biologici. Ora Carrefour Italia estende l’iniziativa anche ai prodotti a marchio nazionale del reparto PLS (Prodotti Libero Servizio), rendendo così l’offerta di uova completamente sostenibile e attenta alla qualità della vita degli animali.

L’utilizzo di gabbie nell’allevamento di galline ovaiole, seppur consentito dalla legge, non è ritenuto da Carrefour un sistema in linea con gli standard di qualità della vita animale in quanto spazi ridotti, costrizione fisica e strutture metalliche non permettono agli animali compiere movimenti e adottare comportamenti naturali.

Secondo Assoavi la produzione italiana di uova è di 850mila tonnellate l’anno generate da oltre 42 milioni di galline, presenti in 3.400 allevamenti, di cui circa 1000 con capacità superiore a 1000 capi. Il fatturato di vendite del prodotto finito di 1,5 miliardi di Euro. Il 45% delle uova prodotte è indirizzato all’industria alimentare.

Il consumo italiano pro-capite di uova è pari a 12,6 chili, contro i 14,2 chili nella UE a 25 Paesi.

La metà delle uova italiane proviene dal Nord Italia: 17% in Lombardia e 16% rispettivamente in Veneto e Romagna.

Leggo anche: Dansk Supermarked eliminerà le uova da allevamenti in batteria

Pasta con grano cento per cento italiano, anche Voiello firma

Italiana sì, ma quanto è italiana? Monta la polemica sull’utilizzo di grani stranieri da parte delle aziende di pasta Made in Italy.  E qualcosa si muove. Barilla, ha firmato un accordo triennale, fino al 2019, per garantire la produzione di pasta al 100% italiana venduta con marchio Voiello. Siglato dalla multinazionale di Parma con gli agricoltori italiani prevede l’acquisto di 900mila tonnellate di grano duro per la produzione dei vari tipi di pasta. Si tratta soprattutto del grano duro di tipo Aureo, prodotto di alta qualità e di livello proteico elevato – pari al 15,5% – con cui si realizza la totalità delle tipologie di pasta Voiello. L’accordo premia gli agricoltori del Centro-sud, quelli di Abruzzo, Molise, Campania e Puglia, che in tre anni dovranno produrre 210mila tonnellate di grano duro, tra Aureo (130.000 tonnellate) e Svevo (80 mila tonnellate), per un investimento totale da parte di Barilla di circa 62 milioni di euro; per le aziende la remunerazione sarà elevata, pari a 270 euro a tonnellata come prezzo minimo di vendita rispetto ai 150 euro di qualche anno fa.

Secondo ColdirettiL’accordo per garantire la produzione di pasta al 100% italiana venduta con marchio Voiello è un importante contributo per salvare il grano italiano con le semine 2017 che sono crollate del 7,3% per la scomparsa di centomila ettari coltivati”.

 

Più rischi col Ceta

Sotto la lente la riduzione delle semine sull’intero territorio nazionale – che varia dal -11,6% nel Nord-Est al -5,4% nel Centro mentre nel Sud e Isole si registra un -7,4% – e il crollo dei prezzi pagati agli agricoltori che nella campagna 2016 sono praticamente dimezzati. Ma anche l’approvazione da parte dell’Europarlamento del Ceta (Comprehensive Economic and Trade Agreement) con il Canada che rappresenta il primo esportatore di grano duro in Italia. L’accordo dovrà essere ratificato dal Parlamento nazionale contro il quale, secondo Coldiretti, rischia di scatenarsi una nuova guerra del grano, mettendo in pericolo “non solo la produzione di grano e la vita di oltre trecentomila aziende agricole che lo coltivano, ma anche un territorio di 2 milioni di ettari a rischio desertificazione e gli alti livelli qualitativi per i consumatori garantiti dalla produzione Made in Italy”. La soluzione potrebbe essere l’entrata in vigore dell’etichettatura di origine obbligatoria per il grano usato per produrre la pasta.

Una soluzione in passato avversata da Barilla,c he ha spiegato la sua posizione sul suo sito “Al fine di garantire la stessa qualità, il gusto e la sicurezza della pasta Barilla in tutto il mondo non è possibile utilizzare un’unica varietà di grano, un prodotto naturale, soggetto a cambiamenti anche significativi da una campagna all’altra. È necessario realizzare delle miscele in grado di fornire sempre lo stesso livello di proteine per dare alla pasta il gusto e la consistenza “al dente“ Barilla riconosciuti in tutto il mondo. All’interno di queste linee guida, Barilla cerca quanto più possibile di acquistare il grano negli stessi Paesi in cui produce la propria pasta. Il grano importato dall’estero da Barilla è sempre grano di qualità, acquistato spesso a un prezzo molto più alto di quello che si potrebbe trovare in Italia”.

Sta di fatto che questo richiedono i consumatori sempre più agguerriti e le cui battaglie a volte vincono, come spiega il caso recente dell’olio di palma. Recentemente Il Fatto Alimentare ha pubblicato la lista (in fieri) delle paste “davvero italiane”.

 

Mercati contadini, agli italiani piacciono: cosa possono insegnare alla Gdo?

È boom dei mercati contadini in Italia, con un aumento del 55% dei consumi negli ultimi cinque anni, in controtendenza con il calo dei consumi alimentari generato dalla crisi. Un mercato che non rappresenta una vera alternativa alla spesa nella Gdo, ma che piuttosto viene vissuta come un’esperienza “militante” ma estemporanea, e che pure rappresenta un modello di cui la grande distribuzione deve tener conto.

I dati arrivano dall’indagine su dati Ipr presentata a Roma al Parco della Musica in occasione dell’apertura del mercato degli agricoltori Campagna Amica, di recente “sfrattato” dalla ormai tradizionale sede del Circo Massimo (con coda polemica e petizione con 50mila firme raccolte su change.org per il ritorno): ebbene, oltre 4 italiani su 10 (il 43%) nel 2016 hanno fatto la spesa dal contadino nei cosiddetti mercati degli agricoltori con un aumento record del 55% negli ultimi 5 anni.

 

Più “green” e sicuri, vari e “social” della Gdo

Dal dopoguerra non era mai successo che tanti italiani si rivolgessero direttamente agli agricoltori. Merito, sottolinea Coldiretti, della maggiore attenzione al benessere e alla salute, alla sostenibilità ambientale e in parte anche alla voglia di difendere e valorizzare l’economia e l’occupazione del proprio territorio. L’83% degli italiani considera l’acquisto di prodotti alimentari direttamente nei mercati degli agricoltori sicuro, con una percentuale che è superiore del 23% rispetto ai supermercati e del 15% rispetto al dettaglio tradizionale. Non è un caso che l’81% degli italiani se fosse libero di scegliere preferirebbe comperare la frutta direttamente dagli agricoltori e l’88% degli italiani vorrebbe avere un mercato vicino a casa per avere più possibilità di scelta ed acquisto.

I mercati degli agricoltori vengono scelti per trovare prodotti locali del territorio, cosiddetti a chilometri zero, messi in vendita direttamente dall’agricoltore nel rispetto della stagionalità dei prodotti in alternativa ai cibi che devono percorrere lunghe distanze con le emissioni in atmosfera dovute alla combustione di benzina e gasolio. Gli effetti positivi per i consumatori si fanno sentire anche sugli sprechi che vengono ridotti per la maggiore freschezza della frutta e verdura in vendita, che dura anche una settimana in più, non dovendo rimanere per tanto tempo in viaggio. Oltre a ciò, nei mercati dei contadini è possibile trovare specialità del passato a rischio di estinzione che sono state salvate grazie all’importante azione di recupero degli agricoltori e che non trovano spazi nei normali canali di vendita, dove prevalgono rigidi criteri dettati dalla necessità di standardizzazione e di grandi quantità offerte. I mercati si sono in realtà trasformati nel tempo da luoghi di commercio a momenti di aggregazione, svago e socializzazione. L’Italia vanta la leadership mondiale nei mercati contadini davanti agli Usa e Francia grazie anche alla rete di Campagna Amica alla quale vanno riferimento oggi circa 20mila agricoltori e che è composta da 9.030 fattorie, 1.135 mercati, e 171 botteghe, cui si aggiungono 485 ristoranti, 211 orti urbani e 34 punti di street food, dove arrivano prodotti coltivati su circa 200mila ettari di terreno.

 

Dal mercato allo scaffale…

Un fenomeno che la Grande distribuzione non può ignorare. Per questo sempre più spesso ipermercati e supermercati propongono sugli scaffali prodotti bio e a chilometro zero o comunque regionali, con linee dedicate di prodotti nazionali “private label”, oppure corner in cui i contadini del territorio propongono i loro prodotti, o con degustazioni degli stessi. E sempre più spesso i punti vendita della grande distribuzione sono concepiti con soluzioni architettoniche e tecnologiche che ne abbassano l’impatto sull’ambiente e sul clima. Non solo: le grandi catene stanno sperimentando tecniche per cambiare l’esperienza di acquisto in un ipermercato rendendola sempre più personale e soddisfacente. Anche il contadino ha molto da insegnare.

Lotta allo spreco, Froodly avvisa quando il cibo è vicino alla scadenza (e in promo)

Una delle vie maestre per combattere lo spreco alimentare è, come appare sempre più chiaro, la tecnologia e in particolare le app. Dalla Finlandia ne arriva una che incrocia consapevolezza ambientale del consumatore, voglia di risparmio ma anche interattività e coinvolgimento con l0utente finale: si chiama Froodly e, semplicemente, avvisa l’utente dentro il supermercato quando c’è un’offerta su un cibo che si avvicina alla scadenza. Non solo: l’app dà la possibilità a chiunque di segnalare un prodotto in promozione perché prossimo alla scadenza, semplicemente scattando una foto, e naturalmente promette un “premio”: un caffè o cibo gratis da uno delle insegne o locali “partner” dell’iniziativa.

Il sistema è molto semplice e immediato, e ha la doppia valenza di informare i clienti sulle offerte di prodotti scontati nel mare magnum di etichette e fogliettini e farlo sentire parte della lotta allo spreco evitando che alimenti ancora buoni vadano al macero, ma aiuta anche l’insegna a liberare gli scaffali da prodotti che “scottano” perché presto dovranno essere rimossi.

È sufficiente che il negoziante o anche un cliente facciano una foto del prodotto inseriscano l’ammontare dello sconto e chi si trova nella zona del punto vendita riceverà una notifica sul telefonino. Gli sconti tipicamente variano dal 30 al 70%.

Disponibile per Ios e Android, l’app per ora è disponibile solo per il mercato finlandese.

 

Cittadini contro il glifosato: sarà il prossimo olio di palma?

Un milione di firme: è l’obiettivo che si pone l’iniziativa dei cittadini europei (ICE) per chiedere alla Commissione Europea il bando totale dell’uso del glifosato, l’erbicida più venduto al mondo, accusato di causare problemi per la salute e l’ambiente.

Con eventi in diverse città europee, tra cui Roma, Bruxelles, Parigi, Berlino e Madrid, una coalizione di organizzazioni della società civile ha lanciato l’Iniziativa, che invita la Commissione a proporre obiettivi ambiziosi per ridurre l’uso di pesticidi e consente ai cittadini europei di partecipare direttamente al processo decisionale politico. Una volta raggiunto un milione di firme, la Commissione dovrà adottare una risposta formale per illustrare le eventuali azioni che intende proporre a seguito dell’iniziativa dei cittadini.

L’ICE è sostenuta da decine di organizzazioni in 15 paesi, tra cui Greenpeace, la coalizione StopGlifosato, il Pesticide Action Network, la Health and Environment Alliance, Corporate Europe Observatory e WeMove.EU. Le associazioni di tutela dell’ambiente e della salute chiedono alla Commissione europea, non solo di vietare il glifosato, ma anche di riformare il processo di approvazione dei pesticidi e fissare obiettivi vincolanti per ridurre l’uso dei pesticidi in Europa.

«Quest’anno abbiamo finalmente l’opportunità di togliere il glifosato dai nostri campi e dai nostri piatti. Sono sempre di più i corsi d’acqua in Italia e in Europa contaminati con questo diserbante, classificato come “probabile cancerogeno” dallo Iarc, l’International Agency for Research on Cancer. Si trovano tracce nel cibo, nelle bevande e persino nelle urine. Il messaggio alla Commissione Ue e ai Paesi membri è chiaro: l’interesse e la salute delle persone devono venire prima dei profitti delle aziende agrochimiche» ha spiegato Federica Ferrario, responsabile campagna Agricoltura sostenibile di Greenpeace Italia.

Le firme necessarie per l’Iniziativa dei cittadini devono essere raccolte in un anno e in almeno sette Paesi dell’Ue. Per partecipare si può firmare la ICE #StopGlifosato su www.greenpeace.org/STOPGlyphosate e www.stopglyphosate.org

BrandContent

Fotogallery

Il database online della Business Community italiana

Cerca con whoswho.it

Diritto alimentare