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Codici a barre 2D, 10 step per sfruttarli al meglio

Quale soluzione concreta hanno le aziende del grocery per migliorare la gestione dei prodotti nei punti vendita e ridurre gli sprechi lungo la catena di approvvigionamento? Una, immediata, è passare, subito, ai codici a barre 2D di nuova generazione: i QR code standard GS1. Essendo in grado di includere più dati rispetto all’attuale codice a barre lineare, consentono infatti alle aziende di ottimizzare ed efficientare le attività quotidiane in store. Ma non solo: tramite i sistemi POS, permettono anche di effettuare promozioni mirate per i prodotti vicini alla scadenza e di bloccare la vendita di quelli già scaduti, rafforzando così la fiducia dei consumatori verso l’azienda e i suoi brand.
Se la soluzione è semplice, la strada per realizzarla può essere più complessa. Ma c’è una “ricetta” per renderla più agevole e veloce: è quella delineata nel report “Scaling QR Codes with Embedded Date Codes”, realizzato da ECR Retail Loss, l’organizzazione internazionale, parte della Community ECR, impegnata sul tema nella riduzione delle perdite nel retail, che raggruppa oltre 300 retailer a livello globale, di cui due terzi dei primi 100 retailer al mondo. Il report è il risultato di un lavoro collaborativo che ha coinvolto oltre 60 esperti di spreco alimentare (tra cui 25 retailer e accademici di cinque università), per stilare una roadmap articolata in dieci step per contribuire ad accelerare l’adozione dei codici 2D di nuova generazione nel settore grocery entro il 2030:

  1. Allinearsi alle norme: i codici QR possono facilitare la conformità alle normative emergenti su sicurezza e sprechi alimentari.
  2. Fare della lotta allo spreco alimentare una priorità strategica: inserire la gestione sostenibile degli alimenti tra le priorità aziendali.
  3. Standard comuni: accelerare la standardizzazione end-to-end dei codici 2D con l’ausilio di GS1.
  4. Nominare un responsabile: indicare una figura responsabile del progetto per coordinare e dare impulso alle varie funzioni aziendali.
  5. Costruire un business case: misurare ROI, allocare risorse e definire benefici per tutte le parti interessate.
  6. Prepararsi sul piano tecnologico: dal POS all’ERP, aggiornare i sistemi in modo che possano leggere e utilizzare i dati dei codici QR.
  7. Coinvolgere i team interni: creare strumenti e capacità per integrare l’uso dei codici nelle routine quotidiane.
  8. Preparare fornitori e partner: coinvolgere partner e produttori, condividendo visione, obiettivi e vantaggi della transizione.
  9. Costruire la fiducia dei consumatori: dimostrare come i codici QR possano offrire un valore reale ai clienti, in termini di migliori esperienza, trasparenza e sicurezza.
  10. Promuovere l’inclusività: garantire che la transizione coinvolga anche i piccoli fornitori e coloro che acquistano online.

Il lavoro di ECR Retail Loss contribuisce a supportare l’iniziativa “Sunrise 2027”, con cui GS1 – l’organizzazione no profit che sviluppa gli standard più utilizzati al mondo per la comunicazione tra imprese e che riunisce oltre 2 milioni di aziende attive in 25 settori – insieme con un gruppo di aziende leader mondiali del largo consumo, ha dato il via alla seconda rivoluzione del codice a barre: ossia la transizione globale ai QR code standard GS1. Lanciata il 26 giugno 2024, nel 50° anniversario dal primo passaggio in cassa di un codice a barre, con l’obiettivo che retailer e produttori adottino i codici 2D di nuova generazione già entro il 2027, “Sunrise 2027” è uno sforzo innovativo e collaborativo per far progredire il settore dei beni di consumo in termini di efficienza, sicurezza e sostenibilità con gli standard globali GS1.

Dazi USA, Coldiretti all’attacco di Ursula Von der Leyen

L’accordo stipulato tra Ursula Von der Leyen e Donald Trump non piace al sistema produttivo italiano. Già alla vigilia dell’intesa, che introduce un’aliquota tariffaria di base del 15% sulla maggior parte dei prodotti europei che entrano negli Stati Uniti, il Centro Studi Confindustria aveva diffuso una simulazione sui danni che ne sarebbero derivati, mentre ora è Coldiretti ad attaccare in maniera dura la Presidente della Commissione Europea. In base a un’analisi dell’organizzazione di imprenditori agricoli condotta su dati del Centro Studi Divulga, i dazi al 15% rischiano di far perdere oltre 1 miliardo di euro al comparto agroalimentare italiano. Con un valore che nel 2024 ha sfiorato gli 8 miliardi di euro, gli USA rappresentano il primo mercato extra-Ue per il settore. Negli ultimi cinque anni, l’export verso gli Stati Uniti è cresciuto in media dell’11% l’anno, arrivando a toccare un +17% negli ultimi 12 mesi. Una dinamica positiva, sottolinea Coldiretti, che ora rischia di invertirsi bruscamente.

I SETTORI PIÙ COLPITI
Il vino è il primo prodotto agroalimentare esportato negli USA, con 1,9 miliardi di euro, e con i dazi subirà un impatto stimato in oltre 290 milioni di euro. Per l’olio extravergine di oliva l’export verso gli Stati Uniti vale oltre 937 milioni di euro e il peso stimato dei dazi è superiore ai 140 milioni di euro. Andrà male anche per la pasta di semola: ad oggi esente da dazi, che ora incideranno per 74 milioni di euro. Restano stabili, invece, molti dei formaggi, che erano già tra il 10% e il 15%, ma l’incertezza sull’abolizione delle quote rischia di avere conseguenze sull’export, che nel 2024 ha superato i 486 milioni di euro.
La Presidente della Commissione Europea Ursula Von der Leyen si sta dimostrando totalmente inadeguata al ruolo che ricopre – dichiara senza mezzi termini Ettore Prandini, Presidente di Coldiretti –. Dopo aver già colpito duramente il mondo agricolo con tagli senza precedenti alla Pac, oggi assistiamo all’ennesimo danno provocato da una gestione improvvisata e debole del negoziato commerciale con gli Stati Uniti. L’accordo siglato con Washington è chiaramente più vantaggioso per l’economia americana che per quella europea. Stiamo assistendo anche al fatto che il documento a base dell’accordo non coincide nemmeno con quello statunitense, una situazione lesiva della credibilità stessa dell’Europa. La Von der Leyen ha mancato ancora una volta l’obiettivo di difendere la produzione europea, il lavoro degli agricoltori e la sovranità alimentare dell’Unione. A pagare il prezzo di questa politica remissiva non sarà solo l’agricoltura, ma l’intero sistema produttivo europeo”.

L’IMPATTO SUL WINE BUSINESS A STELLE E STRISCE
Conseguenze negative ci saranno anche sull’altra sponda dell’Atlantico: per quanto riguarda il mondo del vino, l’Osservatorio Uiv stima danni complessivi per 25 miliardi di dollari. L’analisi prende in considerazione impatto diretto, indiretto e indotto di tutto il vino negli USA nella sola fase distributiva, retail e di trasporto, quantificato nel “2025 Economic Impact Report” da Wine America in 144,4 miliardi di dollari. Questa cifra comprende non solo i fatturati delle vendite, ma anche il valore generato lungo la catena distributiva, nonché gli effetti positivi dei salari e del conseguente potere di acquisto e dell’aumento della domanda di beni e servizi in altri settori correlati. Un effetto spillover su cui le tariffe al 15% sui vini europei andrebbero appunto ad inibire – secondo i calcoli Uiv – 25 miliardi di dollari. “Il vino – afferma Lamberto Frescobaldi, Presidente di Unione italiana vini – deve essere inserito nel pacchetto di prodotti agricoli europei a tariffa zero o a dazio ridotto in corso di definizione da parte dei negoziatori, lo chiediamo noi ma anche i nostri partner americani, come testimoniano le comunicazioni che stiamo ricevendo dalla US Wine Trade Alliance e dai nostri importatori oltreoceano”.
Secondo le stime dell’Osservatorio del Vino Uiv, infatti, i dazi determineranno un calo del valore al consumo di vino italiano, francese e spagnolo pari a circa 3 miliardi di dollari, che a sua volta genererà una voragine nei conti di distributori e retailer. La riduzione del valore al consumo è infatti solo la punta dell’iceberg di un effetto valanga che influirà sull’impatto complessivo socio-economico del wine business negli Stati Uniti, con evidenti ripercussioni in termini di salari, domanda di beni e servizi e posti di lavoro, anche oltre il comparto vino.
L’effetto dei dazi al 15%, secondo l’analisi Uiv, porterà nel giro di un anno l’impatto (diretto, indiretto e indotto) del vino da 144,4 a 120 miliardi di dollari, -17% rispetto al valore attuale. In questo scenario, la riduzione del valore dei consumi di vino italiano pesa sul calo in maniera determinante, per 13,5 miliardi di dollari. Sul fronte dei valori al consumo, se per il vino italiano si prevede una flessione del 20% in un anno, anche i vini domestici, già in perdita da tre anni abbondanti, dovrebbero segnare -13% ad agosto 2026. Altrettanto negative le performance degli altri vini comunitari (-19%), così come dei vini esteri non-Ue (-16%) – argentini, australiani e cileni – anch’essi già in calo e soggetti a nuovi dazi.

UN’INTESA PER EVITARE IL PEGGIO
A parlare di compromesso squilibrato – ma che scongiura il peggio – è Coface, player mondiale nella gestione del rischio credito commerciale. L’aliquota del 15% si applicherà a circa il 70% delle esportazioni dell’UE verso gli Stati Uniti. L’accordo evita la minaccia di una tariffa del 30% inizialmente prospettata dal Presidente statunitense, ma rimane comunque ben al di sopra dell’aliquota dell’1,2% applicata nel 2024. L’UE dovrebbe inoltre investire 600 miliardi di dollari negli Stati Uniti e acquistare prodotti energetici statunitensi per 750 miliardi di dollari in tre anni, impegni la cui fattibilità viene messa in discussione. L’accettazione da parte dell’Europa di un accordo giudicato sfavorevole dalle forze produttive si spiega con la volontà di evitare il peggio e ripristinare una certa stabilità commerciale. I paesi esportatori (Germania, Italia, Irlanda) e le nazioni dell’Europa orientale, preoccupati per le ripercussioni geopolitiche, hanno spinto per un rapido compromesso invece di rischiare un’escalation.
Coface precisa però che l’UE resta in una posizione relativamente privilegiata. Solo il Regno Unito gode di un trattamento più favorevole, mentre anche il Giappone affronterà un’aliquota del 15%, l’Indonesia e le Filippine del 19% e il Vietnam del 20%. Per i paesi senza accordo – Canada, Messico, Corea del Sud e Brasile – Trump minaccia dazi compresi tra il 25% e il 50%.
Ampliando lo sguardo all’intero settore manifatturiero, la situazione è molto complicata per l’industria siderurgica, soggetta a tariffe del 50%, mentre automotive, chimico e macchinari si trovano ora di fronte al 15%. Per il settore automobilistico, già indebolito dalla concorrenza cinese, questa tassa rappresenta un ulteriore ostacolo su un mercato statunitense cruciale. C’è poi da considerare l’apprezzamento del 13% dell’euro rispetto al dollaro da gennaio, che sta esacerbando la perdita di competitività di prezzo.

PER ORA IL CONTO LO PAGANO I CONSUMATORI
Chi si farà carico dei maggiori costi lungo la catena del valore, gli esportatori europei (e i loro fornitori) o i consumatori statunitensi? Coface evidenzia che recenti indagini condotte dalle banche regionali della Federal Reserve suggeriscono che le imprese e i consumatori statunitensi stanno assorbendo quasi il 90% dei costi aggiuntivi derivanti dagli aumenti tariffari. Tuttavia, per alcuni prodotti facilmente sostituibili, l’impatto potrebbe essere maggiore per gli esportatori europei e la capacità delle aziende continentali di sobbarcarsi il peso delle tariffe appare già limitata in settori come acciaio, chimico e automobilistico.
L’accordo commerciale raggiunto tra UE e Stati Uniti appare come una soluzione pragmatica per evitare un’escalation ancora più dannosa – conclude Pietro Vargiu, Country Manager Coface Italia (nella foto in alto) – ma lascia emergere un evidente squilibrio che incide negativamente sulla competitività delle imprese europee, in particolare nei settori strategici per l’Italia come automotive, siderurgico e chimico. In questo contesto di maggiore pressione tariffaria e di volatilità valutaria, è cruciale per le aziende italiane implementare strategie mirate per gestire efficacemente i rischi commerciali e finanziari”.

Al via la campagna di Rossotono con Maria Grazia Cucinotta

È Maria Grazia Cucinotta il nuovo volto di Rossotono, insegna di Apulia Distribuzione con oltre 280 punti di vendita in sei regioni del Sud, per un totale di oltre 150.000 metri quadri di superficie di vendita e quasi 1.000 referenze a marchio proprio. La campagna è on air in queste settimane con il primo dei tre spot televisivi previsti, a cui seguiranno altre due uscite, rispettivamente a dicembre 2025 e marzo 2026. Il concept, ideato e scritto da The Jackal, ruota intorno a un punto di vendita Rossotono che si fa “persona” per dare una mano nelle piccole difficoltà quotidiane. Fra le corsie del supermercato, Maria Grazia Cucinotta aiuterà un ragazzo a conquistare una ragazza, suggerendogli di nascosto gli ingredienti per una ricetta perfetta per un primo appuntamento. L’attrice sarà la presenza familiare che accompagna i clienti a districarsi tra dubbi e scelte quotidiane, raccontando – con leggerezza e ironia – il vero significato del claim: “Quando la spesa è fra amici, è Rossotono”. La catchphrase, interpretata dalla stessa Cucinotta insieme ai collaboratori dei punti vendita, diventa il filo conduttore che unisce i tre soggetti e accompagna anche la campagna radio, basata su consigli per una spesa più consapevole, vicina ai bisogni delle famiglie.

The Jackal – agenzia creativa e casa di produzione che ha seguito l’ideazione, la scrittura e la produzione del progetto – è stata scelta da Apulia Distribuzione per il suo approccio contemporaneo e il suo storytelling accessibile, capace di valorizzare l’identità del brand senza snaturarne l’autenticità. La diffusione è multicanale e comprende emittenti televisive locali e regionali, radio, social media (Facebook, Instagram, TikTok, LinkedIn, YouTube), OOH con oltre 100 nuovi impianti in posizioni strategiche, comunicazione in-store e materiali dedicati, Pay Tv, testate stampa cartacee e digitali. La campagna interesserà sei regioni – Puglia, Calabria, Sicilia, Campania, Basilicata e Lazio – e nelle intenzioni dell’azienda sarà il punto di partenza per un racconto continuativo e coerente dell’identità Rossotono. “Maria Grazia Cucinotta è la voce perfetta per trasmettere ciò che siamo: calore, affidabilità, prossimità – afferma Vito Igino, Responsabile Marketing di Apulia Distribuzione –. Con questa nuova campagna portiamo avanti la nostra visione, Rossotono non è solo un luogo dove si compra, ma uno spazio in cui sentirsi accolti. La campagna, ideata, scritta e prodotta, da The Jackal ci ha permesso di raccontarlo in modo originale, empatico e riconoscibile”.

Bevande analcoliche, luci e ombre nel primo semestre 2025

Nel primo semestre del 2025, il mercato italiano delle bevande analcoliche nei canali Gdo e cash & carry mostra segnali di una leggera ripresa, rispetto allo stesso periodo del 2024, ma il quadro complessivo resta fragile e carico di incertezze. A dirlo sono i dati di Circana diffusi da Assobibe, l’associazione di Confindustria che rappresenta le imprese produttrici del settore. I numeri confermano, seppur a fronte di una sostanziale tenuta, un quadro generale instabile che vede alcuni specifici segmenti di prodotto in sofferenza come aranciata e chinotto, da sempre simboli della filiera del Made in Italy, oggi in forte calo in termini di quantità commercializzate.
I volumi venduti in Gdo registrano un incremento del +2,8%, un dato che lascia intravedere una possibile crescita più marcata nei mesi estivi, da sempre periodo di picco per il settore. Tuttavia, questa tenuta si inserisce in un contesto di mercato ancora debole, dove persistono tendenze contrastanti tra le diverse categorie. Alcuni segmenti, come gazzose o limonate – entrambi fortemente radicati nella tradizione italiana – mettono a segno performance positive nei supermercati, così come le cole, che restano trainanti pur mostrando una crescita più contenuta rispetto al passato. I tè freddi e le bevande isotoniche si mantengono sostanzialmente stabili. Di contro, si evidenziano flessioni importanti per categorie consolidate: gli aperitivi analcolici calano del -5,7% a volume, seguiti da chinotto (-3,9%) e aranciata (-1,2%).

VENDITE IN FRENATA NEL CASH & CARRY
La situazione si fa più complessa nel cash & carry, dove i dati delineano una frenata complessiva del -1,3% a volume. Anche in questo canale, categorie simbolo del Made in Italy come aranciata e chinotto subiscono un forte calo: -1,2% di vendite a volume per la prima e -11,4% per il secondo. Bevande a base di tè e le isotoniche mostrano una flessione, mentre le performance positive di nicchia come il pompelmo restano marginali e non in grado di modificare il trend generale.
Questo primo semestre dimostra che il mercato vive un momento di incertezza – commenta Giangiacomo Pierini, Presidente di Assobibe – e, senza l’intervento del Governo che ha posticipato l’entrata in vigore della Sugar tax, le prospettive oggi sarebbero peggiori. Una tassa sulle bevande analcoliche che non trova fondamento da nessun punto di vista, incluso quello della salute, ma che continua a incombere sulle imprese dal 2019. Se, come previsto al momento, questa imposta sarà confermata per il 1° gennaio 2026, ci aspetta un autunno grigio, di profonde incertezze e di grandi preoccupazioni non solo per i produttori, di bevande ma per tutta la filiera, dal mondo agricolo alla distribuzione”.

Retail, più coupon (e di maggior valore) per tutti

Il mercato dei coupon in Italia continua il proprio slancio, con una crescita di tutti i principali indicatori determinata dal progressivo aumento dei buoni digitali, sempre più centrali nelle strategie di retail media, e dalla conferma dei formati più tradizionali. Nei primi 6 mesi del 2025 sono stati distribuiti in Italia complessivamente 115,2 milioni di buoni sconto con una crescita del 6,8% rispetto al primo semestre 2024. Un risultato significativo confermato anche dal valore totale dei coupon, attestatosi a 182 milioni di euro (+12% sull’anno precedente), il cui importo medio è stato pari a 1,58 euro, in crescita del 5,3% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno.
I dati emergono dall’Osservatorio sul mercato del couponing a cura di Savi, martech company attiva nella gestione dei servizi legati all’utilizzo dei buoni sconto e all’analisi dei dati nella Gdo e non solo. La ricerca è stata condotta su un network di oltre 40.000 imprese partner (insegne della Gdo, drugstore, specializzati e farmacie), che coprono l’intero territorio nazionale.
Alla performance registrata sul fronte della distribuzione, si affianca l’aumento nell’utilizzo dei digital coupon, che oggi rappresentano il 18% del transato in cassa, in leggera crescita rispetto ai risultati realizzati nei primi sei mesi del 2024, quando erano stati il 17% del totale. In generale, si osserva una sempre maggiore integrazione tra promozioni digitali e campagne di retail media, con i coupon dematerializzati che si stanno dimostrando strumenti efficaci per attivare il consumatore in modo mirato, misurare le performance e contribuire al tracking dell’intero processo.
Ad oggi il 70% delle aziende partner di Savi utilizza i digital coupon come strumento di integrazione tra promozioni digitali e retail media per stimolare la consideration e tracciare la redemption in modo indipendente.

Sul fronte della conversion dei buoni sconto si registrano ottime performance dei media “legacy”, categoria che racchiude i metodi di distribuzione più tradizionali. Un comparto in cui i coupon “instant on pack”, applicati direttamente sulla confezione, raggiungono una redemption media del 78% (in crescita rispetto al 72% di un anno fa) e rappresentano uno strumento win-win grazie alla convergenza fra media che veicola l’offerta e prodotto da promuovere.
I coupon digitali emessi all’interno di siti web, distribuiti attraverso e-mail, newsletter, social media e associati alle carte fedeltà mostrano una redemption media del 23%, in lieve aumento rispetto allo scorso anno quando si era raggiunto il 22%.
Siamo orgogliosi di constatare come il mercato dei coupon stia evolvendo verso soluzioni sempre più digitali, misurabili e integrate con le nuove logiche del retail media – dichiara Angelo Tosoni, Managing Director di Savi Italia –. Nel nostro settore è oggi fondamentale non soltanto favorire l’utilizzo di soluzioni dematerializzate, più sicure e sostenibili rispetto alle formule più tradizionali, ma riuscire a misurare in tempo reale la performance delle campagne per calibrare le strategie in base ai risultati osservati. L’obiettivo è quello di rendere sempre più accessibili i buoni sconto alle famiglie italiane in ottica anti-inflazione e supportare le aziende che li vogliono mettere a disposizione”.

Si rafforza la prevenzione per i prodotti da latte crudo

Il Ministero della Salute, su iniziativa del Sottosegretario Marcello Gemmato (nella foto in alto), ha trasmesso a Regioni, Province autonome di Trento e Bolzano e alle principali Associazioni di categoria il documento tecnico: “Linee guida per il controllo di Escherichia coli produttori di Shiga-tossine (STEC) nel latte non pastorizzato e nei prodotti derivati”, frutto del lavoro del Tavolo tecnico istituito presso il Ministero. “Queste Linee Guida – spiega Gemmato – sono uno strumento tecnico-scientifico fondamentale per rafforzare la prevenzione delle infezioni da STEC. Offriamo al territorio un documento aggiornato, condiviso e operativo, con l’obiettivo di proteggere soprattutto i soggetti più fragili: bambini, anziani e persone immunocompromesse”.

Nei mesi scorsi, in accordo con il Ministro Lollobrigida, è stato avviato un Tavolo tecnico composto da esperti del Ministero della Salute e del MASAF, dell’Istituto Superiore di Sanità, degli Istituti Zooprofilattici e delle associazioni di categoria per definire misure di mitigazione più stringenti, volte a garantire la sicurezza alimentare e ridurre il rischio di gravi infezioni da Escherichia coli associate al consumo di latte crudo e derivati. “In estate – continua il Sottosegretario – il rischio microbiologico può aumentare, anche per la maggiore produzione di formaggi a latte crudo in contesti montani. Per questo il Governo ha ritenuto urgente intervenire in parallelo al percorso parlamentare di modifica della normativa nazionale”.
Le infezioni da STEC possono manifestarsi in modo variabile: da forme lievi o asintomatiche fino a diarrea emorragica e sindrome emolitico-uremica (SEU), principale causa di insufficienza renale acuta nei bambini. Il documento fornisce indicazioni pratiche sia per gli operatori della filiera alimentare, utili in fase di autocontrollo, sia per le ASL impegnate nella vigilanza e nei controlli ufficiali, al fine di garantire una gestione più efficace del rischio STEC.

Coop avvia una raccolta fondi per la popolazione di Gaza

Si chiama #CoopforGaza la raccolta fondi lanciata da Coop e finalizzata a sostenere l’attività svolta da Medici Senza Frontiere in 11 strutture mediche a Gaza, tra ospedali, ospedali da campo e centri di salute primaria. MSF è una delle poche organizzazioni umanitarie che ancora oggi continua a svolgere la sua attività nella Striscia, dove i circa 1.000 operatori e operatrici umanitari curano tutti coloro che ne hanno bisogno. Dall’inizio del conflitto MSF ha visitato oltre 1 milione di pazienti, operato 23.000 persone e assistito 13.000 parti. Le cooperative di consumatori hanno già messo a disposizione uno stanziamento di 500.000 euro, mentre le donazioni dei soci e dei consumatori possono confluire su un conto corrente dedicato su Banca Etica (IT77 B050 1802 8000 0002 0000 890). La raccolta si chiuderà il prossimo 30 settembre.

Un atto concreto per un impegno più ampio per la pace e per la solidarietà che sono da sempre nel dna di Coop – spiega Ernesto Dalle Rive, Presidente di Ancc-Coop (Associazione Nazionale Cooperative di Consumatori) –. All’unanimità tutte le cooperative di consumatori hanno deciso un primo stanziamento che avvii gli aiuti, e poi vogliamo permettere ai soci e ai clienti di contribuire a loro volta. Consideriamo questo atto come l’avvio di una campagna umanitaria che auspichiamo possa arrivare a coinvolgere, oltre al mondo Coop, anche altri operatori istituzionali ed economici. Non risolveremo i problemi di una popolazione che ora si trova sotto le bombe, ma daremo così un contributo rapido e concreto alle persone in questo momento maggiormente colpite. Al tempo stesso rinnoviamo l’appello al Governo italiano affinché si adoperi con il massimo impegno a riaprire i corridoi umanitari e auspichiamo la fine delle ostilità e la liberazione degli ostaggi israeliani dopo il brutale attacco del 7 ottobre. Una pace giusta è il punto di arrivo da conquistare”.

Ringraziamo Coop per aver scelto di sostenere i nostri progetti a Gaza – dichiara Stefano di Carlo, Direttore Generale di MSF –. Questa donazione si concretizzerà in medicinali, garze, attrezzature mediche e nel potenziamento di tutte le strutture mediche in cui operiamo. Mentre assistiamo allo smantellamento sistematico del sistema sanitario nella Striscia, con continui attacchi alle strutture mediche ormai in gran parte distrutte o non più funzionanti, queste risorse sono più essenziali che mai per continuare a garantire cure salvavita a chi ne ha un disperato bisogno”.

NewPrinces acquisisce Carrefour Italia per 1 euro

Non lo hanno visto arrivare. Mossa a sorpresa di Angelo Mastrolia (nella foto in alto), Presidente di NewPrinces che ha annunciato di aver sottoscritto con Carrefour un accordo vincolante per l’acquisizione del 100% del capitale sociale di Carrefour Italia sulla base di una valutazione pari a circa 1 miliardo di euro, ma a fronte di un equity value (il valore riconosciuto agli azionisti, cioè la casa madre francese) di solo 1 euro. Grazie a questa acquisizione – soggetta all’ottenimento delle consuete autorizzazioni da parte delle autorità competenti, un fronte su cui però non si intravedono particolari ostacoli – NewPrinces diventa il secondo gruppo italiano nel food per fatturato – pari a circa 6,9 miliardi di euro – e il primo operatore in termini occupazionali, con 13.000 operatori diretti in Italia e più di 18.000 nel mondo, oltre a ulteriori 11.000 persone coinvolte nelle attività accessorie fornite da aziende esterne.
Si chiude così la lunga esperienza italiana di Carrefour, avara di soddisfazioni sotto il profilo finanziario (secondo l’area studi Mediobanca, nel quinquennio 2019-2023 le perdite hanno raggiunto gli 874 milioni di euro) e che negli ultimi anni aveva visto una decisa virata verso il franchising, proprio con lo scopo di ottenere maggiore flessibilità nel presidio del mercato. Carrefour in Italia gestisce una rete multiformato di 1.188 punti vendita (41 ipermercati, 315 supermercati, 820 negozi di prossimità e 12 cash & carry) e ha registrato nel 2024 un fatturato lordo di 4,2 miliardi di euro (3,7 miliardi senza includere i carburanti, con un Ebitda di 115 milioni di euro), pari a circa il 4% del fatturato del gruppo. Dopo una fase di rilancio dal 2020 al 2022, Carrefour Italia ha registrato un calo del fatturato, nonché un risultato operativo corrente e un free cash flow negativi nel 2024.
Nell’ambito dell’operazione, Carrefour reinvestirà quale contributo una tantum 237,5 milioni di euro nella filiale italiana a sostegno del rilancio industriale e della continuità operativa, mentre NewPrinces si impegna a investire al closing 200 milioni di euro, destinati a iniziative di sviluppo, innovazione logistica e rinnovamento del brand. Il marchio Carrefour sarà utilizzato su licenza per un periodo transitorio, seguito dal rilancio di quello GS.

SINERGIE TRA INDUSTRIA E RETAIL
La campagna acquisti di NewPrinces delle ultime settimane è impressionante: prima  l’operazione Plasmon (per un valore di 120 milioni di euro) e quella di Diageo Operations Italy, poi il grande investimento immobiliare nel Regno Unito (per una cifra complessiva che si aggira sui 95 milioni di euro) e ora l’acquisizione di Carrefour Italia. Di tutti i colpi portati a segno, di sicuro quello più impegnativo. Nella nota stampa con cui ha comunicato l’accordo, NewPrinces fa professione di ottimismo e sottolinea che attraverso questa operazione potrà: accedere direttamente al consumatore finale, ampliando il proprio presidio lungo la catena del valore; ottimizzare le sinergie tra produzione e distribuzione, migliorando l’efficienza logistica e riducendo i costi operativi; valorizzare il suo portafoglio di brand all’interno della rete retail; sviluppare nuove piattaforme omnicanale per la vendita e la delivery di prodotti freschi e confezionati; rafforzare la propria posizione in mercati chiave a livello europeo, partendo da un’infrastruttura solida e radicata nel territorio italiano.
L’acquisizione di Carrefour Italia rappresenta una tappa fondamentale nella traiettoria di crescita del nostro gruppo – dichiara Angelo Mastrolia, Presidente di NewPrinces Group –. Con questa operazione, compiamo un passo decisivo verso l’integrazione verticale tra produzione e distribuzione, rafforzando la nostra capacità di generare valore lungo l’intera filiera. Abbiamo scelto di investire con determinazione in un asset strategico per l’Italia, con l’obiettivo di rilanciare una rete capillare e di valorizzare al massimo le sinergie tra retail e industria. La nostra volontà è chiara: costruire un modello sostenibile, solido e orientato al lungo termine, in grado di offrire benefici concreti a clienti, dipendenti, fornitori e azionisti”.

L’Irlanda rinvia al 2028 le etichette sanitarie sugli alcolici

L’Irlanda ci ha ripensato. Non definitivamente, ma lasciando un margine di tempo più ampio – fino al 2028 – prima introdurre le etichette sanitarie obbligatorie sulle bevande alcoliche. Il regolamento avrebbe dovuto essere applicato a partire da maggio 2026. Secondo notizie di stampa, a suggerire il rinvio sarebbe stato il già complicato scenario degli scambi commerciali internazionali e il timore di potenziali impatti sull’export irlandese.
La notizia è stata accolta positivamente in Italia. Nell’esprimere l’auspicio che si possa arrivare alla cancellazione definitiva della norma, Coldiretti ricorda come l’iniziativa del Governo irlandese era stata di fatto avallata dall’Unione Europea, nonostante i pareri contrari di Italia, Francia e Spagna e altri sei Stati Ue, che consideravano la misura una barriera al mercato interno. Coldiretti sottolinea, inoltre, di aver denunciato a più riprese come la proposta irlandese finisca per assimilare in maniera del tutto scorretta l’eccessivo consumo di superalcolici tipico dei Paesi nordici a quello moderato e consapevole di prodotti di qualità a più bassa gradazione, come il vino.
Il rischio paventato da Coldiretti non riguarda ovviamente il mercato irlandese in sé – che nel 2024 ha importato vino tricolore per soli 59 milioni di euro – ma che le etichette di Dublino, le cosiddette “warning labels”, aprano le porte in Europa e nel mondo a campagne di demonizzazione che colpirebbero una filiera che in Italia vale 14,5 miliardi di euro, dal campo alla tavola, e garantisce 1,3 milioni di posti di lavoro.

Sulla stessa lunghezza d’onda Paolo Castelletti, Segretario Generale di Unione italiana vini: “La decisione del Governo irlandese di rinviare al 2028 l’entrata in vigore del regolamento sull’etichettatura degli alcolici rappresenta un punto di svolta positivo per le imprese del vino italiane ed europee. È necessario infatti preservare l’integrità del mercato unico europeo, al riparo dalle singole iniziative degli Stati membri in materia di etichettatura. Una fuga in avanti come nel caso irlandese avrebbe come unica conseguenza quella di complicare l’attività delle imprese e al tempo stesso aumentare i costi di adattamento alle regole dei singoli 27 Paesi”.
Secondo Uiv, l’impostazione del regolamento di Dublino risulta particolarmente preoccupante per il comparto vinicolo europeo in quanto non tiene conto della distinzione tra consumo e abuso e si pone in contrapposizione con la risoluzione BECA (Beating cancer) del Parlamento europeo del 2022. La proroga al 2028 delle etichette sanitarie consentirà di lavorare a soluzioni armonizzate e, al tempo stesso, di informare il consumatore in maniera intelligente sul consumo moderato di vino, come peraltro già indicato dai deputati europei.
Uiv condivide infine quanto affermato dalla presidente del Comité Européen des Entreprises Vins (Ceev), Marzia Varvaglione, secondo cui gli obiettivi di salute pubblica debbano essere perseguiti in modo giuridicamente solido e coordinato, e non attraverso una frammentazione che genera confusione per i consumatori.

Dazi USA al 15%: il food & beverage perderebbe 2,9 miliardi di export

A fare i conti è stato il Centro Studi Confindustria e il risultato non lascia molto spazio all’ottimismo: dazi USA al 15% si tradurrebbero in una riduzione dell’export italiano pari a 22,6 miliardi di euro, mandando in fumo oltre un terzo del valore delle vendite nel mercato statunitense. Fortemente danneggiati alimentari e bevande che nel loro insieme perderebbero quasi 2,9 miliardi di euro di esportazioni.
La simulazione prende le mosse da quello che al momento si profila come lo scenario più probabile. La tariffa unica del 15% sembra infatti essere il punto di approdo tra Usa e Ue, capace di scongiurare una guerra commerciale dagli esiti imprevedibili. L’intesa ricalcherebbe l’accordo stipulato dall’amministrazione Trump con il Giappone solo qualche giorno fa e stando a quanto riportato da vari organi di stampa, sarebbe ritenuto un compromesso sostanzialmente accettabile dai 27 Paesi membri dell’Unione europea. Va detto che eventuali esenzioni di specifici settori – tra quelli citati in queste ore ci sono anche i prodotti agricoli e gli alcolici – cambierebbero non poco lo scenario, in particolare per un Paese esportatore come l’Italia.

LE STIME DEL CENTRO STUDI CONFINDUSTRIA
La simulazione del Centro Studi Confindustria si basa su una serie di ipotesi, a cominciare da quella di dazi USA al 15% su tutti i prodotti UE (senza differenze settoriali) e del 10% sulle merci del resto del mondo; a seguire, una svalutazione del 13,5% del dollaro sull’euro da inizio 2025 (equivalente a -10% sulla media 2024) e un’incertezza geoeconomica ai massimi storici, soprattutto negli USA (+300% all’inizio di luglio rispetto a fine 2024). Fatte queste premesse, il risultato è quello già anticipato: -22,6 miliardi di euro di export negli Stati Uniti. Parte di queste perdite sarebbero compensate da maggiori vendite degli esportatori italiani nel resto del mondo (fino a circa 10 miliardi).
In valore assoluto, i settori più colpiti sarebbero macchinari e farmaceutica (rispettivamente -4,3 miliardi e -3,4 miliardi di euro). L’alimentare è quarto e lascerebbe sul terreno 1,820 miliardi di euro, che vorrebbero dire -3,9 sull’export settoriale totale. La perdita per le bevande sarebbe inferiore in valori assoluti (-1,068 miliardi di euro), ma più che doppia se calcolata come percentuale sul totale delle esportazioni: -8,4% e cioè la flessione più importante tra quelle stimate nella simulazione. Cifre che giustificano pienamente la levata di scudi di filiere come quella del vino, per le quali i dazi al 15% avrebbero un impatto devastante.

L’IMPATTO DELLA SVALUTAZIONE DEL DOLLARO
C’è un ultimo aspetto messo in luce dal Centro Studi Confindustria e che chiama in causa le politiche monetarie europee: una riduzione delle tariffe USA o un minore deprezzamento del dollaro, a parità di altre condizioni, avrebbero un effetto quantitativamente simile. In pratica, ciascun punto percentuale in meno di dazi equivale a circa 1 miliardo di export italiano negli Stati Uniti in più, ma lo stesso effetto si otterrebbe con un punto in meno di svalutazione del dollaro. Per esempio: con dazi al 10% o dollaro in risalita del 5% sull’euro, l’export italiano negli USA ridurrebbe le perdite a -17,6 miliardi. Come a dire che il futuro dei settori manifatturieri europei passa sì da Washington e Bruxelles, ma anche da Francoforte. Ovvero, da cosa deciderà il Presidente Donald Trump, dalla capacità negoziale dell’Unione e dalle mosse della Banca Centrale Europea.

 

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