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The Cru (Colruyt) market puts the accent on simplicity and seasonality

In Overijse, a few kilometres from Brussels, in a renovated farmhouse, the first Cru store, a market dedicated to food and sharing between employees, partner producers and customers, developed by the Belgian group Colruyt, has been open since a few months.

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A new concept, which partly recalls the experience of Eataly, developed to attract lovers of fine food and those looking for pure flavours and authentic products. In a friendly and relaxed atmosphere, like a covered market, Cru offers a selection of fresh produce, including meat, fish, fruit and vegetables, bread made on the premises, dairy products and flowers. An there is no shortage of craft beers, wines sold by the glass, bottled fresh juices and tea or coffee roasted on the premises.

Local products, seasonal specialities, bread and pastry production workshops and organic products are a must around which the Cru market rotates. “Every day we buy products from farmers in the area around Brussels – says the head of fruit and vegetables – and for this reason fresh and seasonal products, preferably organic, are available according to their growing period and maturity”.

Bakery products are made with natural yeast and organic flour, without enhancers or fat. The bread dough rests 48 hours before being baked in wood-fired ovens. Also the meat comes from farms that overlook the North Sea, the cheeses are selected from small producers in Flanders and the fish is extremely fresh.

The points on which the Cru offer focusses are the authenticity and quality of the foodstuffs, the link with the local area (but if a product is worth it, it is also bought abroad) as well as the expertise of those responsible for the various departments who advise and converse with customers and become part of the shopping experience. Precisely to facilitate the customer, the range is limited, focussing more on research and quality than on breadth of offer. But it is not a luxury store, albeit a thousand miles away from the classic Colruyt store. “They are everyday products – said Jean-Pierre Roealands, the Cru project team leader – but well prepared and presented. Simplicity is the new horizon of luxury”.

Of course, you can buy the products but also consume them on the premises, where there is a place to sit, have a coffee, eat a sandwich or a cooked dish.

And also technology plays its part. At the entrance, customers receive a tablet to be affixed to the shopping cart to record the products purchased, create a shopping list and share ideas and recipes with others. And the tablet is also used to pay. You offload the products and pay without any controls, strengthening the bond of trust with the customer. Which is reciprocal, since no receipt is issued but rather sent via e-mail.

 

 

 

I consumatori e la carne in un’indagine Swg a Eurocarne

Di fronte a un consumatore che alza il livello delle richieste di garanzia, sicurezza, informazione e rassicurazione, il settore delle carni, e in particolare quello della do, deve ripensare agli strumenti dell’offerta se vuole mantenere i livelli di consumo che, oggi, sono in diminuzione per quanto riguarda la carne bovina e domani potrebbero toccare anche quella suina.

Secondo l’indagine presentata da Swg (“la prima indagine completa negli ultimi tre anni con l’obiettivo di sostenere i  consumi di carne”, ha affermato il presidente di Verona Fiere Ettore Riello) rispetto a frutta e verdura, le cui intenzioni di consumi nei prossimi 5 anni indicano un aumento medio mensile, per la carne il futuro è ambivalente. Rimarrà sostanzialmente stabile il consumo di carne avicunicola (da 7,54 a 7,61 atti di consumo dichiarati al mese), mentre potrebbe subire una flessione la carne suina (da 4,95 a 4,63) e quella bovina (da 6,47 a 5,74).

In termini generali, parlando comunque di intenzione al consumo, salgono i legumi, la frutta e la verdura e scendono i carboidrati. La propensione al consumo di carne cambia, con un saldo comunque positivo (+26,8%) per quella avicunicola e negativa per bovino (-13,6%) e suino (-24,7%).

Carne, perché si? Chi manifesta una propensione al consumo di carne lo fa per differenti ragioni legate alla sfera salutistico-funzionale ed edonistica, considerando tale categoria un alimento essenziale per una dieta equilibrata. In particolare, nel caso dell’avicunicolo per il profilo dietetico della carne (53,8%) associato al «piacere di gusto» (40,2%), mentre per la carne bovina le motivazioni trainanti attengono al peculiare apporto proteico (40,2%) e nutrizionale (56,4%); nel suino la propensione al consumo è sostenuta dalla bontà gustativa (53,8%), che fa il paio con la valenza nutrizionale (32,7%).

Anche chi ha manifestato una propensione al consumo, però, evidenzia dei freni di natura essenzialmente economica, a partire dal prezzo elevato (che raggiunge addirittura il 61,5% per il bovino) o dall’assenza di promozioni accattivanti (23,1% sia per la carne bovina che per quella suina, 20,1% per l’avicunicolo). Altro aspetto rilevante attiene all’area dell’“insoddisfazione” nella fase del consumo data dalla scarsa resa in cottura (il 28,5% nel caso dell’avicunicolo), in contrasto con le aspettative di base.

Carne, perché no? Si ispirano a motivazioni di natura salutistica o dietetica quanti invece hanno manifestato in partenza avversione al consumo di carne, dichiarando la volontà di ridurne il quantitativo. Lo afferma il 64% degli intervistati, con riferimento alla tipologia di carne suina, seguita dal 61,5% del bovino e dal 46,3% dell’avicunicolo. Pesano anche i dubbi sulla salubrità del prodotto, che toccano il 53,7% per la carne avicunicola (43,7% per quella bovina, 32,3% quella suina).

I canali d’acquisto. Per quanto concerne i canali d’acquisto, prevale la grande distribuzione (supermercato o ipermercato), seguita dalla macelleria. Le percentuali, però, cambiano a seconda della tipologia di carne scelta. Se il 73,7% degli intervistati si affida alla gdo quando deve comprare carne bianca, tale percentuale scende al 68,6% per gli acquisti di carne bovina (dove in parallelo sale il gradimento del negozio tradizionale al 46 per cento) e al 69,9% per la carne suina.

Differenziata è l’aspettativa sulla qualità del prodotto, in base al luogo di acquisto: nella macelleria, per tutte le tipologie di prodotto, la bontà attesa, ma anche quella percepita, è più elevata rispetto alla gdo o al discount.

Pregi e difetti della Gdo. Fra i pregi del supermercato, i responsabili degli acquisti intervistati hanno indicato i fattori prezzo (inferiore rispetto alla macelleria, presenza di offerte e promozioni), assortimento (maggiore scelta, ampio smercio/freschezza, praticità delle confezioni, visibilità del prodotto), garanzia (sensazione di maggior controllo sull’origine) e servizio (non si fa la fila/estensione oraria), mentre fra le criticità i consumatori hanno menzionato la qualità (diffusa insoddisfazione per la qualità della carne di manzo nella gdo) e il servizio (manca qualcuno a cui chiedere delucidazioni/consigli sulla carne).

Imparare dalle macellerie? Scenario differente per la macelleria tradizionale. I punti di forza individuati dagli intervistati sono risultati essere assortimento (qualità migliore e carne più selezionata, ma anche assenza di carne extra-europea) e servizio (consigli sul taglio di carne e modalità di cottura, servizio dedicato, possibilità di prenotare tagli o carni speciali, rapporto di fiducia, maggiore riguardo se frequentato con assiduità); al contrario i fattori di insoddisfazione sono stati individuati negli elementi prezzo (più alti, nessuna promozione), garanzia (tracciabilità meno visibile) e altri elementi di servizio (minor controllo sulle quantità, si perde tempo in fila, se il rapporto non è costante il trattamento può essere scadente, imbarazzo a rifiutare una carne che non convince).

Le informazioni tra etichette e internet. Tra le informazioni in etichetta nella gdo, il consumatore si mostra interessato a specifici contenuti sul tipo di allevamento, sull’alimentazione e l’età dell’animale alla macellazione. Elementi giudicati di rassicurazione rispetto alla carne e distintivi della reale qualità del prodotto acquistato. Allo stesso tempo, anche la tipologia del taglio carneo; la fascia di prezzo e la provenienza, magari con indicazioni sul luogo di allevamento, le certificazioni di prodotto, il prezzo per porzione.

La preparazione delle carni è un elemento sul quale riflettere, perché accanto ai «consigli della mamma», ai quali ricorrono il 43,4% degli intervistati in caso di dubbio sulle modalità di gestione e cottura, avanza la ricerca autonoma di informazioni su internet (28,7%), soluzione che scavalca addirittura l’aiuto del macellaio (27,3 %).

Riflessioni sul packaging. Quanto alla confezione, chi acquista carne compra preferibilmente nel vassoio tradizionale o termosaldato (se nella gdo) o il prodotto sfuso (se si rivolge al macellaio); in particolare il vassoio termosaldato viene percepito come il più sicuro in termini di igiene alimentare. Lo skin pack, invece, è più utilizzato all’estero rispetto all’Italia.
Del resto considerando la gestione delle carni dopo l’acquisto si dovrebbe pensare a diverse opzioni di confezionamento. Per avicunicolo e suino, le carni vengono spesso acquistate in quantitativi superiori alle necessità quotidiane, per cogliere le opportunità promozionali che quasi tutti gli intervistati ammettono di cercare. Al contrario, la carne di manzo viene acquistata e consumata direttamente.

Due comportamenti che richiederebbero soluzioni diverse anche in termini di confezionamento: un packaging di grande formato pre-porzionato per suino e avicunicolo, una logica di skin pack pre-porzionato per la gestione degli acquisti di carne bovina.

MD Discount inaugura un polo logistico nazionale non food. Presto l’e-commerce

Gricignano d’Aversa, provincia di Caserta: qui il Gruppo Lillo (MD Discount-Ld Market) ha inaugurato l’8 maggio, a soli sei mesi dall’avvio dei lavori, un nuovo polo logistico nazionale per il non food: oltre 6 mila metri quadrati di superficie per 4,5 milioni di investimento. Il magazzino può accogliere 1000 container all’anno per 20 mila tonnellate di prodotti, dispone di 7 mila posti pallet e 8 porte di carico che possono lavorare contemporaneamente e, quel che conta, aumenterà la capacità distributiva del gruppo di oltre il 40%. Inoltre un sistema di illuminazione a Led che si attivano solo al passaggio degli addetti e un impianto di climatizzazione di ultima generazione garantiscono l’efficienza energetica e la riduzione dei consumi.

Patrizio Podini, patron e fondatore di Lillo Spa, secondo player italiano del discount con le insegne MD Discount e LD Market
Patrizio Podini, patron e fondatore di Lillo Spa, secondo player italiano del discount con le insegne MD Discount e LD Market

L’inaugurazione, festeggiata con i dipendenti e i fornitori di MD-LD, fondata nel 1994 da Patrizio Podini, bolzanino con l’idea di sviluppare il canale discount nel Sud, negli anni in cui il fenomeno esplodeva in Italia, riveste una serie di valenze che vale la pena raccontare.

La location. La nuova ala non food completa il polo distributivo del gruppo che si estende su una superficie di 62 mila metri quadrati e si trova nella Zona ASI di Gricignano, salito alle cronache in queste settimane perché qui si trova anche l’impianto Indesit che i neo proprietari di Whirlpool intendono chiudere, con ricadute pesanti sull’occupazione del territorio. Il contrasto con un’azienda distributiva che invece investe per crescere è clamoroso. E se ne sono accorti anche i rappresentanti delle istituzioni presenti all’inaugurazione. tanto che è stata annunciata (ma siamo in campagna elettorale) l’ipotesi di creare una zona franca industriale nell’area con detrazione per tre anni per le aziende che assumono.

Sulla motivazione di creare un polo logistico nazionale concentrato, Podini, che sull’efficienza logistica ha costruito il successo del gruppo, ha le idee molto chiare: «Importiamo dalla Cina prodotti che generano l’80% del fatturato non food. Avevamo quindi bisogno di essere vicini a un porto. L’area di Gricignano è poi più adeguata per servire la Sicilia e la Sardegna più di quanto fosse Genova. D’altro canto i nostri camion non fanno mai un viaggio a vuoto e questo ci consente un risparmio di qualche milione all’anno».

La strategia. Patrizio Podini l’ha ripetuto più volte. «Il non food è strategico per il nostro gruppo. Completa l’assortimento non alimentare ed essendo continuativo serve a portare clienti nei nostri punti vendita». Il polo di Gricignano ha infatti una valenza nazionale. Da qui verranno serviti gli altri cinque depositi del gruppo (Trezzo, Mantova, Macomer, Bitonto ed Enna) e i punti vendita di riferimento.

Per inciso, a Macomer in Sardegna, è prevista la trasformazione del deposito di 45 mila metri quadrati in un nuovo polo da 210 mila metri quadrati nei prossimi due anni.

Ma il non food è talmente strategico per il gruppo Lillo che 1.000 metri quadrati dei 6.000 complessivi sono destinati alla nuova attività di e-commerce, che sarà online da giugno. Una sfida impegnativa non solo per il  fatto che si tratta del primo discounter italiano ad entrare nell’e-commerce. Ma anche perché è immediato il confronto con Amazon ed eBay, due competitori non da poco. «Nell’online ci crediamo ed è necessario fare esperienza in questo canale», sottolinea Podini, che però esclude il ricorso al click & collect ritenendolo troppo oneroso dal punto di vista organizzativo.

L’assortimento prevede non solo i prodotti a marchio MD come MxD e Axil nelle lampadine a basso consumo (Led) «acquistate in Italia, perché più performanti», ma anche alcuni prodotti di marca soprattutto nell’elettronica.

Lo sviluppo. Ma l’orizzonte strategico nell’online non fa perdere di vista i canali fisici. Con 2 miliardi di euro di vendite, 5.000 dipendenti e 720 punti vendita il Gruppo Lillo ha una quota del 15% nel comparto del discount ed è il secondo player italiano. Ma la marcia non si arresta. «Due mesi fa è partita una nuova società MD Immobiliare – spiega Podini – con il progetto di aprire 60 nuovi punti vendita in cinque anni grazie a un investimento di 250 milioni di euro e di realizzare un nuovo format da 1.200-1.500 metri quadrati con 200-250 posti auto e la previsione di assumere 1250 persone». Intanto sta partendo il piano rinnovo dei punti vendita e di sostituzione dell’illuminazione con nuove lampadine Led che in cinque anni cambierà il volto a tutta la rete MD Discount, destinata a diventare l’unica insegna del Gruppo.

Ma non è tutto, perché, non dichiarate, ci sono ancora altre novità che traghetteranno MD in un ampliamento dell’offerta a settori che solo qualche anno fa il discount non considerava nemmeno.

Allora, abbiamo chiesto, ha senso ancora parlare di discount? Patrizio Podini non ci pensa nemmeno un secondo: «Oggi il discount costituisce ancora un valore perché spiega ai consumatori che cosa facciamo e qual è la nostra promessa».

Gruppi della Gdo: 2007-2015, vincitori e vinti

Foto: Fabrizio Gomarasca

Nel convegno a Tuttofood dell’IRI è stata presentata una tabella che ha sollevato qualche puntualizzazione: è quella che riguarda la variazione delle quote di mercato dei gruppi della distribuzione tra il gennaio del 2013 e il 2015. L’obiezione, sollevata da Mario Gasbarrino, ad di Unes era motivata dal fatto che in una condizione di mercato come quella vissuta in questi anni, vi è la necessità di un’analisi più micro, vale a die che occorre poter ragionare per insegna più che per gruppi. È vero, le medie generali da sole non consentono più di leggere adeguatamente la realtà. Ed è ancora più vero nel caso della distribuzione, dove i livelli di analisi cambiano a seconda della prospettiva.

Quello che vogliamo proporre come contributo è proprio una diversa prospettiva temporale. Abbiamo recuperato i dati relativi alle quote di mercato dei gruppi della distribuzione a giugno 2007 (Fonte Top Trade Iri, pubblicati su Beveraggi & Grocery dicembre 2012) e li abbiamo confrontati con quelli al gennaio 2013 e al gennaio 2015, sempre di fonte Iri Top Trade. Esclusi i discount. Ma forse bisognerà cominciare a inserirli in queste classifiche.

Quasi otto anni che vanno dal periodo pre-crisi a oggi ci consentono di osservare come i diversi gruppi siano usciti da questa turbolenza, ammesso che sia terminata e non ci attendano, come prevedibile, altri scossoni. La tabella mostra infatti come sono cambiate le quote di mercato dei diversi gruppi e si notano subito alcune evidenze.

Grafico quota gruppi
Fonte: Iri Top Trade

Vi è un gruppo di aziende che ha affrontato senza apparenti scossoni la tempesta della crisi (Conad, Esselunga, Selex, Sigma, Sun, Crai, Agorà) essenzialmente per lo sviluppo degli ultimi anni grazie ad acquisizioni e a nuove aperture, ma anche, nel caso della Gdo per lo storico spostamento di imprese da un gruppo all’altro.

Vi sono poi gruppi che nel lungo periodo hanno perso, ma sono in recupero tra il 2013 e il 2015. Tra questi Coop e Végé (prima Interdis). Al contrario Auchan aveva guadagnato tra il 2017 e il 2013 ma ha perso nel secondo periodo considerato e gli episodi sindacali di queste settimane sono lì a dimostrarlo.

Decrescita per tutti gli altri, in qualche caso di pochi decimali, in altri più consistente.

Nel periodo più lungo, dunque le cose risultano un po’ diverse e proviamo a cogliere a cogliere qualche sintesi.

La prima è che la maggior parte dei gruppi della distribuzione organizzata tengono, hanno una reattività al mercato che è mancata ai big esteri. L’uscita dall’Italia di Rewe e le difficoltà di Auchan e di Carrefour ne sono la prova. Anche i gruppi espressone di imprenditori molto concentrati sul territorio hanno manifestato un andamento positivo. Altro discorso riguarda invece la tenuta nel tempo delle piccole imprese della DO, ma questo non è oggetto di questa analisi.

La seconda, ma si sapeva, è che i gruppi più sbilanciati sul formato ipermercato hanno registrato una flessione.

Quanto ai quattro gruppi di testa le dinamiche sono diverse. Coop sembra in ripresa dopo aver registrato una flessione tra il 2007 e il 2013, mentre la politica espansiva di Conad, gli investimenti di Esselunga e il consolidamento di Selex sono alla base della tendenza positiva in tutti gli anni considerati. Ovviamente in questi sette anni è cambiato il contesto nel quale opera la do da una fase di crescita dei consumi si è passati una fase di caduta, di cambiamento delle dinamiche interne dei consumi, ciò che ha messo alla prova i modelli operativi dei gruppi distributivi, dei formati e delle insegne.

Questo scenario è però destinato a cambiare ancora sia per i cambiamenti intervenuti negli ultimi mesi (Conad e Carrefour che si sono spartiti Billa-Rewe e l’ingresso de Il Gigante in Selex per citarne due) sia perché le vendite e i consumi non si sono ancora stabilizzati, ma procedono un po’ a dente di sega e, da ultimo, le condizioni generali che , con l’ipotesi di un aumento dell’Iva ancora pendente, non fanno dormire sonni tranquilli agli imprenditori e ai manager della distribuzione.

GS1 Italy: la condivisione delle informazioni coinvolge anche il consumatore

Soluzioni e servizi di sistema finalizzati ad aumentare efficienza ed efficacia in tutti i processi di interfaccia tra fornitore e distributore. È quanto fa GS1 Italy | Indicod Ecr per la filiera del largo consumo, e a questi argomenti ha dedicato un convegno nel corso dell’edizione di Tuttofood appena conclusa.

I servizi Immagino e Catalogo elettronico – GS1 GDSN hanno infatti questa finalità: offrire alle aziende un unico modello di condivisione e comunicazione delle informazioni di prodotto nel rispetto delle recenti disposizioni normative.

Queste soluzioni contribuiscono inoltre a migliorare anche il trasferimento di informazioni al consumatore finale, che grazie al progetto GS1 Source e alla tecnologia dei dispositivi mobile potrà beneficiare di informazioni di prodotti provenienti da fonti note ed attendibili.

 

Grappa, alla scoperta di un rito emotivo profondo

Fiera Milano Media e Centro Studi Assaggiatori propongono un programma per la valorizzazione della grappa attraverso la ricerca di un rito che la possa distinguere a livello internazionale. Il programma, a cadenza annuale e con respiro poliennale, si struttura in una ricerca rivolta ai professionisti dell’ospitalità, ai giornalisti e ai tecnici del settore che ha come obiettivo di individuare riti per il consumo della grappa. Ogni anno Fiera Milano Media e Centro Studi Assaggiatori organizzeranno questo evento che si concluderà con una dimostrazione dei riti proposti e assegnando il riconoscimento ai migliori riti.

Il rito discende dal mito. E se quest’ultimo è la narrazione di qualcosa di straordinario e trascendentale, il rito indica un atto – o un’insieme di atti – che vengono svolti secondo una precisa procedura, in virtù di un mito, capaci di riassumerlo e di renderlo attuale.

Il rito ha una derivazione inconscia, a volte superstiziosa e intima (come quando ci si bagna il retro del lobo dell’orecchio con il vino versato sperando che porti bene), ma in genere ha una valenza sociale per riaffermare un credo e l’appartenenza a un gruppo. In questo ambito il rito rafforza i legami sociali e rinnova il mito.

Comunque sia, il rito necessita di un coinvolgimento emotivo profondo, raggiungibile attraverso una precisa sequenza di azioni e molte volte con il compendio imprescindibile di stimoli esogeni: luci, suoni, movimenti, odori e sapori.

Al rito, religioso o pagano, ci si prepara, e la preparazione fa già parte del rito. Una ragazza che si trucca e poi si veste per andare in discoteca sta già entrando nel rito, il barman che elabora un cocktail con movimenti studiati sta officiando un rito, alla pari del maître che gestisce un piatto alla lampada davanti ai commensali.

Se è vero che molti riti si compiono con l’acqua, i più comuni trovano sempre elementi rafforzativi in bevande che contengono almeno un po’ di alcol o di caffeina.

Come logica conseguenza i riti sono diventati i maggiori sponsor delle bevande fermentate e alcaloidee.

Possiamo immaginare che la vostra mente sia corsa al rito anglosassone del tè delle 5 caro al mondo londinese o alla ben più complessa cerimonia che si svolge intorno alla bevanda in estremo oriente e in Giappone in particolare, subito pensando che queste costituiscano una vistosa eccezione alla tesi di cui sopra, ma così non è: anche il tè contiene una significativa quantità di stimolanti.

Dai riti rinascono i miti

Lo possono diventare la bevanda e il suo produttore assumendo valori sbalorditivi, come può entrare nel mito l’officiante: l’assaggiatore, il narratore, il sommelier, il barman, il cuoco e il maître.

Ecco quindi che il mito rafforza il rito, lo rende esclusivo di un gruppo o di un momento e pienamente appagante del bisogno per il quale era sorto. Nello stesso tempo il rito genera una forte valorizzazione degli elementi che lo compongono, templi i cui si svolge inclusi.

I cardini sui quali un rito si svolge e si afferma sono sostanzialmente tre: il luogo, il narratore e gli elementi di mediazione. Tra questi ultimi quelli di maggior spicco sono le bevande: il vino in primis, a seguire birra e altri fermentati (si pensi al sakè), acquaviti, caffè e tè.

Se è difficile trovare un rito senza una bevanda, non esiste una grande bevanda senza un rito. E non di rado è stato proprio il rito a generare il successo di una bevanda.

Pensiamo un attimo al tequila: ricavato da una materia prima povera di sostanze aromatiche e facile preda di microrganismi, distillato un tempo in alambicchi primitivi, non è mai stato una gioia dei sensi. Per sopperire a questa carenza naturale fu introdotto l’uso del limone e del sale sull’incavo formato dall’indice e dal pollice: una leccata e poi un bicchierino d’acquavite tutto d’un fiato. Divenne rito e per il tequila fu la fortuna.

Non meno importante, volendo riferirci a tempi più vicini a noi, è stato il recupero della tradizione dello spritz (pirlo per i Bresciani, furlan per i Friulani) con un conseguente insperato business per gli ingredienti (Prosecco, Aperol, Campari) e per i bar che organizzano aperitivi.

Qui sorge spontanea un’altra riflessione: la complessità del rito

Recarsi al bar al mattino per un espresso veloce è comunque un rito, per molti irrinunciabile, ma è decisamente semplice. Sedersi in un bar a Vienna, farsi servire un caffè in tazza di porcellana fine con panna e latte a parte, dosare con cura gli ingredienti, intercalare il sorseggio con piccola pasticceria costituisce un rito decisamente più complesso.

Ecco che i riti possono nascere da abbinamenti tra più elementi sapientemente uniti dal partecipante o dall’officiante del rito. Se invece di essere una caffè alla viennese avessimo preso come esempio un cappuccino a Costa Masnaga, a fare la parte del leone sarebbe stato il barista con la sua capacità di montare il latte alla perfezione e di versarlo con arte su di un espresso eccellente.

Molti riti – da quello del tequila al cappuccino – sono costruiti attraverso abbinamenti.

L’ombra con l’ovetto, tipicamente veneta, è costituita da un semplice bicchiere di vino (in genere bianco) con un nuovo sodo: il piacere di un’abitudine che diventa rito irrinunciabile, con conseguente aumento dei consumi.

Una bevanda semplice diventa rito quando soddisfa un mito collocandosi in un preciso momento di aggregazione, come può farsi complessa diventando rito stesso la sua preparazione. Caso classico la caipirinha.

Ma un mito può volere un rito: quanti prenderebbero mai in mano disinvoltamente una bottiglia di vino da qualche centinaio di euro e la stapperebbero distrattamente versandone il contenuto in un vetraccio di infimo ordine?

Un rito ha naturalmente la necessità di una scenografia, coerente con il rito stesso. Fanno parte di questa il luogo, gli arredi e i complementi di arredo. La piazza di Manzanarre in Spagna è il luogo del rito dell’aperitivo serale per tutta la città. Quattro bar offrono preziosi Xeres serviti in piccoli bicchieri e accompagnati da formaggi e stuzzichini a base di pesci, entrambi scelti con estrema cura.

La poltrona di casa vostra può essere il tempio in cui officiate il rito di un incontro con voi stessi accompagnato da un Cognac d’annata, servito per l’occasione in un balloon di vetro leggerissimo da avvolgere nel palmo della mano.

Ma non meno importante è l’officiante di un rito che ha il compito di preparare il tempio curando ogni minimo particolare, ma anche di dimostrarsi all’altezza del proprio ruolo attraverso uno stile impeccabile. Se un ballon può essere riscaldato nel palmo della mano e un tumbler gestito con disinvoltura e incuranza, un calice da degustazione va tenuto rigorosamente per lo stelo pinzandolo tra il l’indice e il medio o, se volete fare i fighetti, pinzando il piede con il pollice e l’indice.

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Alla Cascina Triulza- Expo Plef discute del “senso ritrovato”

© 2015 Alberto Prina > Cascina Triulza

All’interno di Expo 2015 Cascina Triulza è il luogo di riferimento delle organizzazioni ella società civile, il laboratorio, crediamo, dove sarà più forte e più diretto il legame con il tema dell’Esposizione universale “Nutrire il pianeta, energia per la vita”.

“É il primo Expo che dedica un Padiglione alla Società Civile. Ognuno deve fare il suo per costruire un mondo migliore. Basti pensare che solo nei prossimi dieci anni il gap tra domanda e offerta di cibo si acuirà del 20%. Non possiamo tollerare che donne, uomini e peggio bambini muoiano di fame. A Expo, dentro Cascina Triulza portiamo i valori del territorio, della persona, dell’inclusione. La nostra partecipazione é una scelta valoriale convinta“, ha dichiarato Maurizio Gardini, presidente di Confcooperative.

Tra i protagonisti di Cascina Triulza Plef (Planet life economy foundation), che si occupa di dare concretezza ai principi della Sostenibilità inseriti nelle dinamiche dell’impresa, Plef organizza il progetto “Il senso ritrovato“, insieme a 5 imprese romagnole associate e sponsor del progetto (Curti spa, Stafer Spa, Gruppo Erbacci, Coop. Zerocento e Mpr), e a 12 organizzazioni no profit che porteranno la loro testimonianza all’interno degli altrettanti appuntamenti organizzati in Cascina Triulza nel corso dei 6 mesi.

Si comincia il 13 maggio con la giornata dell’Economia sul tema Una nuova economia è possibile. Le economie sostenibili si incontrano, con un programma che al mattino affronta il tema della responsabilità sociale dei territori attraverso il rapporto che le imprese hanno con i consumatori, fornitori e la comunità dei Paesi di approvvigionamento. Verranno presentati i risultati del progetto “mobilitarsi per una nuova economia”, dando vita a un dibattito pubblico su come è possibile creare reti territoriali partendo dalle specificità dei singoli territori. Nel pomeriggio uno spettacolo teatrale e un dibattito pubblico spiegheranno come i cittadini possono incidere sul comportamento delle aziende, facendo cambiare convenienze e strategie sostenibili

Il Retailer Awards 2015 del Cncc premierà la qualità del retail

Il presidente del Consiglio nazionale dei centri commerciali Massimo Moretti la chiama la terza rivoluzione: è costituita dalla maggiore attenzione e dalla maggiore valorizzazione dei retailer presenti nei centri commerciali italiani, un business che vale 51 miliardi di euro di vendite all’anno grazie ai 35 mila punti vendita attivi e ai milioni di persone che li visitano ogni giorno.

Se consideriamo che dai dati della ricerca Dove va lo shopping, presentata oggi da Trade Lab al convegno organizzato da Canali&C, il 61% dei visitatori frequenta i centri commerciali più per le gallerie commerciali che per gli ipermercati e che il paradigma “àncore integrate da gallerie si sta trasformando in gallerie integrate da àncore” (Luca Pellegrini), si capisce bene perché il Cncc ha voluto marcare questa rivoluzione istituendo il Retailer Awards. In tal modo l’accento del premio viene spostato dal centro commerciale in quanto prodotto alle tante identità che connotano i diversi centri commerciali, uscendo dall’autoreferenzialità e valorizzando le capacità e le specificità dei vari retailer.

L’obiettivo di retailer Awards 2015 è quindi quello di dare visibilità e risalto al ruolo dei retailer nella crescita dei centri commerciali, stimolare la qualità dell’offerta nelle shopping gallery e in tutti i luoghi del commercio, anche di chi non opera in un centro commerciale, ma potrebbe farlo, promuovendo la cultura dell’eccellenza e dell’innovazione.

Il premio prenderà infatti in considerazioni gli elementi di innovazione, quelli legati all’esperienza d’acquisto e allo sviluppo in cinque aree di attività così identificate: Big Box, per gli store son una superficie superiore ai 501 metri quadrati, compresi gli ipermercati e i supermercati alimentari, Small Medium, per i negozi fino a 500 metri quadrati di superficie, Leisure e servizi, perché è l’area di maggiore potenziale sviluppo, così come Ristorazione e Food e, infine per i contenuti di innovazione, Temporary e Chioschi.

Le informazioni e il regolamento di adesione è visibile nel sito del Consiglio nazionale dei centri commerciali.

Quale onda della ripresa cavalcherà il retail? Il convegno Iri a Tuttofood

Cavalcare l’onda della ripresa. Si, ma come? È stato questo il tema dell’incontro organizzato da Iri nell’ultima giornata di Tuttofood. E in effetti di fronte alla crescita delle vendite in valore del 3,7% e in volume del 3,2% a marzo, il retail alimentare italiana non può pensare di essere uscito dalle secche, anche se una boccata d’ossigeno è innegabile, dopo quattro anni di apnea, durante i quali ne sono successe di ogni, con cessioni, uscite dal mercato, nuove alleanze, fino ad arrivare all’unione delle tre Coop emiliane.

La realtà è che questi quattro anni consegnano a Idm e Gdo un’eredità che è fatta di non certezze e di una buona dose di confusione. Lo dimostra il fatto che il brand, la grande marca non è più intoccabile: dal 2011 le top 25 aziende alimentari che valgono più di un terzo delle vendite hanno perso circa 800 milioni, quanto cioè hanno guadagnato le Pmi, le quali, però, non solo hanno registrato aumenti delle promozioni, ma non hanno intaccato le vendite regolari (Iri).

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E i casi di eccellenza nelle Pmi non sono forse il risultato del grande lavoro fatto insieme alla distribuzione, che nello stesso quadriennio ha aumentato le vendite dei prodotti Mdd di oltre 500 milioni? Ma anche qui qualcosa sta cominciando a incrinarsi, anche se la realtà non è univoca e le medie danno sempre un quadro non veritiero della realtà. Ancora confusione, quindi.

Perché confusione? Perché nonostante se ne parli da sempre, le promozioni continuano ad aumentare e nonostante si parli da tempo di razionalizzazione degli assortimenti, Iri certifica che questi sono cresciuti, che l’industria sta rispondendo alla crisi con nuovi lanci (e Tuttofood ne è stato un esempio concreto). Perché? Perché di fronte a categorie che crescono e che vanno meglio di altre si verifica un repentino affollamento, con il rischio – abbastanza probabile – che tra non molto avremo per esempio una mezza dozzina di yogurt greci sugli scaffali che faranno fatica a mantenere tassi di crescita come quelli  registrati nell’ultimo quadriennio (+264% a valore) o nell’ultimo anno (+79%). Ma di quanto potrà crescere l’attuale valore di 97 milioni di euro? Come spiegare questo ipertrofismo assortimentale?

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 Per l’amministratore delegato di Unes Mario Gasbarrino, la risposta è nel fatto che volendo intercettare quelle aree di nuovi consumi che sono i più dinamici, dal senza glutine al vegano, al salutistico, all’etnico, ai food lovers, si inseriscono prodotti nuovi senza però volere-potere abbandonare il core business. «Però – segnala Gasbarrino – la numerosità delle referenze in sé non dice niente, non dà ragione delle cose, perché dietro questo movimento bisogna leggere il tentativo dei distributori di scegliere come vogliono collocarsi sulla scacchiera. Tutto ciò avviene lentamente, perché non si ha il coraggio di prendere una strada e quindi si aumentano le referenze per intercettare un certo tipo di domanda, senza voler perdere il resto. Ma non potrà durare all’infinito».

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Da sinistra, Gilberto Cappellin, Ceo Emmi Holding Italia; 
Mario Gasbarrino, Amministratore Delegato Unes; Ivo Ferrario, giornalista; 
Roberto Gheritti, direttore commerciale Italia Alimentari; 
Giorgio Santambrogio, amministratore delegato Gruppo VéGé

In questo contesto va anche letto il fato che se vi sonno categorie che crescono e insegne che vanno bene è perché sono state fatte scelte precise.

Eppure, di fronte allo stato delle cose, qualcuno torna a percorrere la strada del prodotto a marchio del distributore di fantasia, «non troppo impegnativo», come ha riferito Roberto Gheritti, direttore commerciale di Italia Alimentari.

Scelta meditata o ulteriore conferma di questa mancanza di coraggio a volere “decidere che cosa voler fare da grandi”?

E ancora (sempre Gasbarrino) sono pronti i 9000 supermercati italiani a contrastare gli attacchi portati non solo dagli specializzati (cura persona e cura casa, petfood e i vari non food) ma anche da quella nuova generazione di category killer che sono i negozi di prodotti biologici, i diversi formati distributivi di prossimità che stano nascendo un po’ dovunque, fino ai monomarca tipo Nespresso? «Non dimentichiamo che il 30% dei supermercati ha una redditività inferiore ai 3.000 euro al metro quadrato e che in Italia abbiamo più di 2000 supermercati che sarebbero da chiudere. La verità è che stiamo vivendo una crisi di formati distributivi. Per questo la diversità è un grande vantaggio».

E il vantaggio è nel consumatore che cerca qualcosa di diverso, che non si accontenta più di avere lo stesso tipo di proposta commerciale. Un concetto fatto proprio da Gheritti quando esorta da  un lato a guardare con attenzione ai trend di consumo ma anche a ricordare che la ancora eccessiva frammentazione distributiva frena i processi di innovazione, e differenziazione primo tra tutti quello dei prodotti a Mdd.

Del resto però Giorgio Santambrogio, amministratore delegato di Gruppo VéGé sottolinea che in generale non ha senso avere come obiettivo un numero smisurato di prodotti Mdd. «Il ruolo del punto vendita è fare Ebit e non lo fa certo ampliando indefinitamente la marca del distributore. Lo deve però fare in quelle categorie dove è strumentale all’aumento della redditività. Per le altre l’industria assolve egregiamente al compito. Piuttosto, si guardi al consumatore, o meglio ai milioni di consumatori diversi: oggi la tecnologia ce lo consente e dobbiamo incamminarci lungo quella strada», ha detto Santambrogio. Secondo il quale sulla base di questo ragionamento occorrerebbe abolire il listing fee così come è sempre stato, ma cominciare a pensare di correlarlo alle performance a scaffale del prodotto su una base variabile. «Purché sia in percentuale», ha risposto Gilberto Cappellin, Ceo Emmi Holding Italia. «E che lasci prevalere il buonsenso, perché interesse comune è inserire un prodotto che si venda», gli fa eco Gheritti.

Una provocazione o il cambiamento delle relazioni tra industria e distribuzione passerà anche da qui? Vero è che probabilmente il vero fattore di cambiamento sarà abbandonare i riti e le modalità di confronto del passato e rifocalizzarsi sul consumatore (sull’individuo, meglio ancora, come dice Santambrogio) e fare le cose utili per lui:  «Fargli risparmiare tempo, denaro o risorse per l’ambiente», spiega Gasbarrino.

Intanto però dietro l’onda da cavalcare si profilano ancora dei marosi, che hanno il nome dei dieci miliardi di euro da recuperare per le pensioni e, soprattutto, la spada di Damocle dell’aumento dell’iva. In altre parole minore potere d’acquisto e minori risorse nelle tasche degli italiani.

 

Dagli USA la conferma del valore del cibo italiano: intervista a Pray di Kroger

Sono stati oltre 78 mila i visitatori dell’edizione di Tuttofood che si è chiusa oggi, con un incremento del 40,8% rispetto alla precedente edizione e del 78,7% per quanto riguarda i visitatori esteri.

Rilevante è il fatto che  2.100 top buyer internazionali selezionati hanno incontrato i 2.838 espositori, di cui 433 esteri, in rappresentanza di 7.000 marchi, in 11.790 appuntamenti prefissati tramite l’agenda online Expo Matching Program. Tanto da far dire al neo amministratore delegato di Fiera Milano Corrado Peraboni che “Tuttofood è ‘lo’ strumento per eccellenza per l’ulteriore internazionalizzazione dell’agroalimentare italiano. Grazie a Tuttofood, moltissime aziende medio-piccole di qualità hanno avuto accesso a mercati dove molto difficilmente avrebbero potuto farsi conoscere in altro modo. L’obiettivo dei 50 miliardi di export è sempre più alla portata del sistema food e noi stiamo facendo la nostra parte”.

Una survey qualitativa condotta proprio sui top buyer internazionali durante la manifestazione rivela che i prodotti italiani sono richiesti nel mondo, oltre che per l’appeal della nostra enogastronomia, anche perché hanno reputazione di prodotti naturali, sicuri e di qualità. Tra i mercati emergenti, indiani e cinesi sono i più sensibili al valore aggiunto di ingredienti all-Italian mentre i consumatori medio-orientali apprezzano soprattutto la naturalità. La ricerca della specialità originale e poco nota è invece il pallino di americani e nordeuropei.

Questo forte interesse per il cibo italiano è confermato da questa testimonianza di Kennet Pray, director di Kroger (2619 supermercati e 786 conveniente store negli Stati Uniti) per il quale i food lover americani sono fortemente atterrati dal cibo italiano, che è accessibile e semplice e, soprattutto la clientela upscale è alla costante ricerca di specialità di qualità.

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