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Dazi USA, Coldiretti all’attacco di Ursula Von der Leyen

L’accordo stipulato tra Ursula Von der Leyen e Donald Trump non piace al sistema produttivo italiano. Già alla vigilia dell’intesa, che introduce un’aliquota tariffaria di base del 15% sulla maggior parte dei prodotti europei che entrano negli Stati Uniti, il Centro Studi Confindustria aveva diffuso una simulazione sui danni che ne sarebbero derivati, mentre ora è Coldiretti ad attaccare in maniera dura la Presidente della Commissione Europea. In base a un’analisi dell’organizzazione di imprenditori agricoli condotta su dati del Centro Studi Divulga, i dazi al 15% rischiano di far perdere oltre 1 miliardo di euro al comparto agroalimentare italiano. Con un valore che nel 2024 ha sfiorato gli 8 miliardi di euro, gli USA rappresentano il primo mercato extra-Ue per il settore. Negli ultimi cinque anni, l’export verso gli Stati Uniti è cresciuto in media dell’11% l’anno, arrivando a toccare un +17% negli ultimi 12 mesi. Una dinamica positiva, sottolinea Coldiretti, che ora rischia di invertirsi bruscamente.

I SETTORI PIÙ COLPITI
Il vino è il primo prodotto agroalimentare esportato negli USA, con 1,9 miliardi di euro, e con i dazi subirà un impatto stimato in oltre 290 milioni di euro. Per l’olio extravergine di oliva l’export verso gli Stati Uniti vale oltre 937 milioni di euro e il peso stimato dei dazi è superiore ai 140 milioni di euro. Andrà male anche per la pasta di semola: ad oggi esente da dazi, che ora incideranno per 74 milioni di euro. Restano stabili, invece, molti dei formaggi, che erano già tra il 10% e il 15%, ma l’incertezza sull’abolizione delle quote rischia di avere conseguenze sull’export, che nel 2024 ha superato i 486 milioni di euro.
La Presidente della Commissione Europea Ursula Von der Leyen si sta dimostrando totalmente inadeguata al ruolo che ricopre – dichiara senza mezzi termini Ettore Prandini, Presidente di Coldiretti –. Dopo aver già colpito duramente il mondo agricolo con tagli senza precedenti alla Pac, oggi assistiamo all’ennesimo danno provocato da una gestione improvvisata e debole del negoziato commerciale con gli Stati Uniti. L’accordo siglato con Washington è chiaramente più vantaggioso per l’economia americana che per quella europea. Stiamo assistendo anche al fatto che il documento a base dell’accordo non coincide nemmeno con quello statunitense, una situazione lesiva della credibilità stessa dell’Europa. La Von der Leyen ha mancato ancora una volta l’obiettivo di difendere la produzione europea, il lavoro degli agricoltori e la sovranità alimentare dell’Unione. A pagare il prezzo di questa politica remissiva non sarà solo l’agricoltura, ma l’intero sistema produttivo europeo”.

L’IMPATTO SUL WINE BUSINESS A STELLE E STRISCE
Conseguenze negative ci saranno anche sull’altra sponda dell’Atlantico: per quanto riguarda il mondo del vino, l’Osservatorio Uiv stima danni complessivi per 25 miliardi di dollari. L’analisi prende in considerazione impatto diretto, indiretto e indotto di tutto il vino negli USA nella sola fase distributiva, retail e di trasporto, quantificato nel “2025 Economic Impact Report” da Wine America in 144,4 miliardi di dollari. Questa cifra comprende non solo i fatturati delle vendite, ma anche il valore generato lungo la catena distributiva, nonché gli effetti positivi dei salari e del conseguente potere di acquisto e dell’aumento della domanda di beni e servizi in altri settori correlati. Un effetto spillover su cui le tariffe al 15% sui vini europei andrebbero appunto ad inibire – secondo i calcoli Uiv – 25 miliardi di dollari. “Il vino – afferma Lamberto Frescobaldi, Presidente di Unione italiana vini – deve essere inserito nel pacchetto di prodotti agricoli europei a tariffa zero o a dazio ridotto in corso di definizione da parte dei negoziatori, lo chiediamo noi ma anche i nostri partner americani, come testimoniano le comunicazioni che stiamo ricevendo dalla US Wine Trade Alliance e dai nostri importatori oltreoceano”.
Secondo le stime dell’Osservatorio del Vino Uiv, infatti, i dazi determineranno un calo del valore al consumo di vino italiano, francese e spagnolo pari a circa 3 miliardi di dollari, che a sua volta genererà una voragine nei conti di distributori e retailer. La riduzione del valore al consumo è infatti solo la punta dell’iceberg di un effetto valanga che influirà sull’impatto complessivo socio-economico del wine business negli Stati Uniti, con evidenti ripercussioni in termini di salari, domanda di beni e servizi e posti di lavoro, anche oltre il comparto vino.
L’effetto dei dazi al 15%, secondo l’analisi Uiv, porterà nel giro di un anno l’impatto (diretto, indiretto e indotto) del vino da 144,4 a 120 miliardi di dollari, -17% rispetto al valore attuale. In questo scenario, la riduzione del valore dei consumi di vino italiano pesa sul calo in maniera determinante, per 13,5 miliardi di dollari. Sul fronte dei valori al consumo, se per il vino italiano si prevede una flessione del 20% in un anno, anche i vini domestici, già in perdita da tre anni abbondanti, dovrebbero segnare -13% ad agosto 2026. Altrettanto negative le performance degli altri vini comunitari (-19%), così come dei vini esteri non-Ue (-16%) – argentini, australiani e cileni – anch’essi già in calo e soggetti a nuovi dazi.

UN’INTESA PER EVITARE IL PEGGIO
A parlare di compromesso squilibrato – ma che scongiura il peggio – è Coface, player mondiale nella gestione del rischio credito commerciale. L’aliquota del 15% si applicherà a circa il 70% delle esportazioni dell’UE verso gli Stati Uniti. L’accordo evita la minaccia di una tariffa del 30% inizialmente prospettata dal Presidente statunitense, ma rimane comunque ben al di sopra dell’aliquota dell’1,2% applicata nel 2024. L’UE dovrebbe inoltre investire 600 miliardi di dollari negli Stati Uniti e acquistare prodotti energetici statunitensi per 750 miliardi di dollari in tre anni, impegni la cui fattibilità viene messa in discussione. L’accettazione da parte dell’Europa di un accordo giudicato sfavorevole dalle forze produttive si spiega con la volontà di evitare il peggio e ripristinare una certa stabilità commerciale. I paesi esportatori (Germania, Italia, Irlanda) e le nazioni dell’Europa orientale, preoccupati per le ripercussioni geopolitiche, hanno spinto per un rapido compromesso invece di rischiare un’escalation.
Coface precisa però che l’UE resta in una posizione relativamente privilegiata. Solo il Regno Unito gode di un trattamento più favorevole, mentre anche il Giappone affronterà un’aliquota del 15%, l’Indonesia e le Filippine del 19% e il Vietnam del 20%. Per i paesi senza accordo – Canada, Messico, Corea del Sud e Brasile – Trump minaccia dazi compresi tra il 25% e il 50%.
Ampliando lo sguardo all’intero settore manifatturiero, la situazione è molto complicata per l’industria siderurgica, soggetta a tariffe del 50%, mentre automotive, chimico e macchinari si trovano ora di fronte al 15%. Per il settore automobilistico, già indebolito dalla concorrenza cinese, questa tassa rappresenta un ulteriore ostacolo su un mercato statunitense cruciale. C’è poi da considerare l’apprezzamento del 13% dell’euro rispetto al dollaro da gennaio, che sta esacerbando la perdita di competitività di prezzo.

PER ORA IL CONTO LO PAGANO I CONSUMATORI
Chi si farà carico dei maggiori costi lungo la catena del valore, gli esportatori europei (e i loro fornitori) o i consumatori statunitensi? Coface evidenzia che recenti indagini condotte dalle banche regionali della Federal Reserve suggeriscono che le imprese e i consumatori statunitensi stanno assorbendo quasi il 90% dei costi aggiuntivi derivanti dagli aumenti tariffari. Tuttavia, per alcuni prodotti facilmente sostituibili, l’impatto potrebbe essere maggiore per gli esportatori europei e la capacità delle aziende continentali di sobbarcarsi il peso delle tariffe appare già limitata in settori come acciaio, chimico e automobilistico.
L’accordo commerciale raggiunto tra UE e Stati Uniti appare come una soluzione pragmatica per evitare un’escalation ancora più dannosa – conclude Pietro Vargiu, Country Manager Coface Italia (nella foto in alto) – ma lascia emergere un evidente squilibrio che incide negativamente sulla competitività delle imprese europee, in particolare nei settori strategici per l’Italia come automotive, siderurgico e chimico. In questo contesto di maggiore pressione tariffaria e di volatilità valutaria, è cruciale per le aziende italiane implementare strategie mirate per gestire efficacemente i rischi commerciali e finanziari”.

L’Irlanda rinvia al 2028 le etichette sanitarie sugli alcolici

L’Irlanda ci ha ripensato. Non definitivamente, ma lasciando un margine di tempo più ampio – fino al 2028 – prima introdurre le etichette sanitarie obbligatorie sulle bevande alcoliche. Il regolamento avrebbe dovuto essere applicato a partire da maggio 2026. Secondo notizie di stampa, a suggerire il rinvio sarebbe stato il già complicato scenario degli scambi commerciali internazionali e il timore di potenziali impatti sull’export irlandese.
La notizia è stata accolta positivamente in Italia. Nell’esprimere l’auspicio che si possa arrivare alla cancellazione definitiva della norma, Coldiretti ricorda come l’iniziativa del Governo irlandese era stata di fatto avallata dall’Unione Europea, nonostante i pareri contrari di Italia, Francia e Spagna e altri sei Stati Ue, che consideravano la misura una barriera al mercato interno. Coldiretti sottolinea, inoltre, di aver denunciato a più riprese come la proposta irlandese finisca per assimilare in maniera del tutto scorretta l’eccessivo consumo di superalcolici tipico dei Paesi nordici a quello moderato e consapevole di prodotti di qualità a più bassa gradazione, come il vino.
Il rischio paventato da Coldiretti non riguarda ovviamente il mercato irlandese in sé – che nel 2024 ha importato vino tricolore per soli 59 milioni di euro – ma che le etichette di Dublino, le cosiddette “warning labels”, aprano le porte in Europa e nel mondo a campagne di demonizzazione che colpirebbero una filiera che in Italia vale 14,5 miliardi di euro, dal campo alla tavola, e garantisce 1,3 milioni di posti di lavoro.

Sulla stessa lunghezza d’onda Paolo Castelletti, Segretario Generale di Unione italiana vini: “La decisione del Governo irlandese di rinviare al 2028 l’entrata in vigore del regolamento sull’etichettatura degli alcolici rappresenta un punto di svolta positivo per le imprese del vino italiane ed europee. È necessario infatti preservare l’integrità del mercato unico europeo, al riparo dalle singole iniziative degli Stati membri in materia di etichettatura. Una fuga in avanti come nel caso irlandese avrebbe come unica conseguenza quella di complicare l’attività delle imprese e al tempo stesso aumentare i costi di adattamento alle regole dei singoli 27 Paesi”.
Secondo Uiv, l’impostazione del regolamento di Dublino risulta particolarmente preoccupante per il comparto vinicolo europeo in quanto non tiene conto della distinzione tra consumo e abuso e si pone in contrapposizione con la risoluzione BECA (Beating cancer) del Parlamento europeo del 2022. La proroga al 2028 delle etichette sanitarie consentirà di lavorare a soluzioni armonizzate e, al tempo stesso, di informare il consumatore in maniera intelligente sul consumo moderato di vino, come peraltro già indicato dai deputati europei.
Uiv condivide infine quanto affermato dalla presidente del Comité Européen des Entreprises Vins (Ceev), Marzia Varvaglione, secondo cui gli obiettivi di salute pubblica debbano essere perseguiti in modo giuridicamente solido e coordinato, e non attraverso una frammentazione che genera confusione per i consumatori.

In vigore il sigillo di garanzia sul tonno rosso

Foto: Ministero dell’Agricoltura, della Sovranità alimentare e delle Foreste

È entrato in vigore il 12 maggio l’obbligo di apporre un sigillo di garanzia su ogni esemplare di tonno rosso che arriverà nei porti siciliani o per il tonno pescato da palangari. Dal 26 maggio l’obbligo sarà esteso a tutti i porti italiani e per tutta la pesca professionale. Al momento dello sbarco e della convalida del documento elettronico di cattura (eBCD), il sigillo con ben visibile l’origine e altre informazioni verrà apposto per facilitare il tracciamento del pesce in tutte le fasi della commercializzazione, sia quando è presentato intero che eviscerato. “Con questa misura – spiega Francesco Lollobrigida, Ministro dell’Agricoltura, della Sovranità alimentare e delle Foreste – compiamo un ulteriore passo avanti nella lotta alla pesca illegale e nella tutela della filiera ittica virtuosa. Il sigillo permetterà di identificare ogni esemplare e assicurare che giungano sulle tavole degli italiani prodotti sicuri, certificati e garantiti”.

I sigilli – predisposti dall’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato – saranno distribuiti a tutte le Autorità Marittime coinvolte. L’obbligo si applica inizialmente agli sbarchi effettuati da unità autorizzate alla pesca con palangari e successivamente per tutte le catture di tonno. “Sostenere la pesca significa difendere il lavoro di chi, come i nostri pescatori, rispetta le regole e garantisce ai cittadini un prodotto di eccellenza. Con il sigillo di garanzia – conclude Lollobrigida – rafforziamo la credibilità del nostro sistema e valorizziamo una risorsa strategica per l’economia italiana”.

Positivo il commento di Coldiretti Pesca, che ha definito la misura “Un passo avanti verso la trasparenza rispetto a una situazione del settore ittico che, a causa di un’indicazione dell’origine obbligatoria ma poco chiara, rende oggi difficile distinguere sui banchi dei supermercati e delle pescherie il pesce nazionale da quello straniero. Senza dimenticare il pesce servito ai ristoranti, dove non c’è alcuna etichetta. Ma l’obbligo del sigillo contribuirà a ridurre soprattutto l’illegalità – conclude Coldiretti Pesca – tutelando il lavoro della flotta nazionale”.

Olio, è allarme speculazioni per invasione del prodotto tunisino

L’invasione di olio tunisino a prezzi stracciati alimenta il rischio di speculazioni ai danni dei produttori nazionali, rendendo necessario alzare la guardia contro il pericolo frodi. A denunciarlo sono Coldiretti e Unaprol in riferimento al fatto che l’Italia diventato è il principale importatore di prodotto dalla Tunisia, con ben 1/3 del totale giunto nel nostro Paese nei primi due mesi di campagna olivicola, proprio in concomitanza con l’arrivo dell’olio nuovo nazionale. Oggi l’olio tunisino viene venduto sotto i 5 euro al litro, con una pressione al ribasso sulle quotazioni di quello italiano che punta a costringere gli olivicoltori nazionali a svendere il proprio al di sotto dei costi di produzione. Una concorrenza sleale, sia considerata l’alta qualità del prodotto Made in Italy, sia il fatto che nel Paese africano non vigono le stesse regole in materia di utilizzo di pesticidi e di rispetto delle norme sul lavoro vigente nell’Unione Europea. A favorire le importazioni dalla Tunisia è anche l’accordo stipulato dalla Ue che prevede l’importazione annuale, nel periodo 1° gennaio – 31 dicembre, di 56.700 tonnellate di oli vergini d’oliva, nella cui categoria merceologica sono compresi olio extravergine d’oliva, olio vergine d’oliva e olio lampante, senza applicazione di dazi doganali.

“Per tutelare gli olivicoltori italiani occorre rivedere il periodo di applicazione dell’accordo tra Ue e Tunisia, restringendolo al periodo 1° aprile – 30 settembre ed evitando così che l’olio magrebino arrivi proprio in concomitanza di quello “nuovo” nazionale” sottolinea David Granieri, Presidente di Unaprol.

L’arrivo di olio straniero low cost alimenta peraltro anche il rischio frodi – ricordano Coldiretti e Unaprol -, con il prodotto estero spacciato per italiano. Da qui la richiesta dell’istituzione di un sistema telematico di registrazione e tracciabilità unico a livello europeo per proteggere l’olio extravergine d’oliva e garantire trasparenza lungo tutta la filiera produttiva, come scritto in una recente lettera al Ministero dell’Agricoltura e della Sovranità alimentare.

L’olio d’oliva rappresenta un comparto strategico per il Made in Italy agroalimentare, grazie all’impegno delle circa 400mila aziende agricole nazionali per garantire un prodotto dagli standard elevatissimi, con un patrimonio di 250 milioni di piante e 533 varietà di olive, il più vasto tesoro di biodiversità del mondo, secondo l’analisi Coldiretti. L’Italia ha la leadership in Europa per il maggior numero di oli extravergini a denominazione in Europa (43 Dop e 7 Igp).

Dieta mediterranea, un patrimonio italiano da tutelare

La dieta mediterranea vince la sfida delle diete 2025. Ad annunciarlo è la Coldiretti sulla base del nuovo best diets ranking elaborato dai media statunitense U.S. News & World’s Report’s, noto a livello globale per la redazione di classifiche e consigli per i consumatori. La dieta mediterranea ha fatto registrare un punteggio di 4,8 su 5, davanti alla dash contro l’ipertensione (seconda con 4,6) e alla flexitariana, che si basa su prodotti di origine vegetale ma senza escludere del tutto la carne, terza con 4,5. Nella top five seguono la mind, che previene e riduce il declino cognitivo (4,4), e la mayo clinic (4,0) un programma di dodici settimane che enfatizza frutta, verdura e cereali integrali. La dieta mediterranea aiuta a prevenire molte patologie come il diabete, l’obesità e la sindrome metabolica, le malattie cardiovascolari e osteoarticolari o i tumori.

Facile da seguire, la dieta incoraggia un consumo moderato di grassi sani, come l’olio d’oliva, e limita i grassi malsani, come i grassi saturi. È anche benefica per la salute cardiovascolare, poiché è stata associata a una riduzione della pressione sanguigna, del colesterolo e del peso corporeo, nonché a miglioramenti generali della salute del cuore e a un abbassamento dei tassi di malattie cardiache e ictus. L’abbondanza di frutti di mare nutrienti, noci, semi, olio extravergine, fagioli, verdure a foglia verde e cereali integrali nella dieta mediterranea offre anche numerosi vantaggi per il cervello. In particolare, gli antociani contenuti nelle bacche, nel vino e nel cavolo rosso sono considerati particolarmente benefici per la salute. I suoi benefici furono studiati dallo scienziato americano Ancel Keys che visse per quarant’anni a Pioppi, frazione del Comune di Pollica, oggi “capitale” della dieta mediterranea.

Un patrimonio del Made in Italy messo a rischio dalla diffusione dei cibi ultra-trasformati che mette a rischio la salute, soprattutto delle giovani generazioni, e alimenta l’obesità, come sostenuto unanimemente dalla scienza medica. Un fenomeno che va fermato – sottolinea Coldiretti – aumentando le ore di educazione alimentare nelle scuole e mettendo in campo campagne di sensibilizzazione per far conoscere i pericoli associati all’assunzione sistematica e continuativa di cibo spazzatura, come chiesto dall’82% dei genitori italiani, secondo un’indagine Coldiretti/Censis. In particolare serve definire forme di etichettatura per evidenziare che un determinato prodotto appartiene alla categoria degli ultra-trasformati e vietarne del tutto l’uso nelle mense scolastiche e nei distributori automatici negli edifici pubblici.

Americani innamorati della dieta mediterranea: vola l’export di formaggi, vino e olio

Volano le esportazioni negli Stati Uniti dei prodotti-simbolo dello stile alimentare italiano che negli ultimi dieci anni hanno fatto registrare aumenti in valore anche a tripla cifra: dal +67% dell’olio d’oliva al +193% della pasta. Il dato emerge da una recente analisi di Coldiretti su dati Istat elaborata per il Summer Fancy Food 2024 e diffusa in occasione dell’iniziativa al Farmers Market Grow Nyc di Union Square a New York, nella prima giornata dedicata alla Dieta mediterranea negli Usa, alla presenza del Presidente della Coldiretti Ettore Prandini, dell’Amministratore Delegato di Filiera Italia Luigi Scordamaglia e del Direttore di Campagna Amica Carmelo Troccoli.

Nel più famoso mercato contadino della Grande Mela, insieme al Consorzio mozzarella di bufala campana Dop e a quello del Grana Padano Dop, gli agricoltori della Coldiretti si sono messi all’opera coinvolgendo le famiglie newyorchesi nella preparazione della pasta fatta in casa e nella conoscenza di alcune delle ricette della tradizione contadina che esaltano i prodotti del vero made in Italy. Una lezione di dieta mediterranea con la speciale partecipazione di Mimmo La Vecchia, uno degli storici casari italiani che, per la prima volta, ha portato a New York l’arte della vera mozzarella di bufala, facendo vedere dal vivo le diverse fasi di lavorazione di uno dei prodotti principali del nostro made in Italy promosso dal Consorzio di tutela.

Le vendite di pummarola&co. negli States sono praticamente triplicate (+133%) ma anche i formaggi, dal Parmigiano Reggiano dop al Grana Padano dop, sono quasi raddoppiate con +86%, secondo l’analisi Coldiretti su dati Istat. E anche il vino è sempre più presente sulle tavole americane con un incremento del 63% in valore. Ma il prodotto simbolo resta l’olio d’oliva, con gli Stati Uniti che hanno scavalcato la Spagna al secondo posto tra i maggiori consumatori mondiali, con 375mila tonnellate, ed entro il 2030 potrebbero superare addirittura l’Italia.

Export del cibo italiano alle stelle, è boom in Germania, UK e Stati Uniti

Le esportazioni di cibo Made in Italy crescono il doppio (+19%) del dato generale ad aprile e fanno segnare un nuovo storico record nonostante le tensioni internazionali, con guerre e blocchi che ostacolano i transiti commerciali. È quanto emerge da una recente analisi Coldiretti sui dati Istat relativi al commercio estero del quarto mese del 2024 nel confronto con lo stesso periodo dell’anno precedente.

Tra i principali Paesi acquirenti, la crescita più consistente si registra sul mercato statunitense, il primo sbocco extra Ue, con un aumento del 29% delle vendite di alimentari tricolori – rileva Coldiretti –, ma l’aumento è a doppia cifra anche in Gran Bretagna (+17%) e in Germania (con un +15%). L’agroalimentare nazionale si conferma pure e in Francia, dove si registra un +9%. Tra gli altri mercati, da segnalare la crescita del 17% in Cina e del 40% in Russia. Se si guarda il dato del quadrimestre, le esportazioni agroalimentari totale hanno raggiunto il valore di 22,6 miliardi di euro, portando in positivo il saldo commerciale rispetto alle importazioni.

Un risultato che potrebbe migliorare il record fatto segnare nel 2023, per un valore che ha superato i 64 miliardi di euro, secondo l’analisi Coldiretti. Per sostenere il trend di crescita dell’enogastronomia nazionale serve però rimuovere gli ostacoli commerciali ma anche agire sui ritardi strutturali dell’Italia e sbloccare tutte le infrastrutture che migliorerebbero i collegamenti tra sud e nord del paese, ma anche con il resto del mondo per via marittima e ferroviaria in alta velocità, con una rete di snodi composta da aeroporti, treni e cargo. L’obiettivo – conclude Coldiretti – è portare il valore annuale dell’export agroalimentare a 100 miliardi nel 2030.

Grano duro: cala il raccolto, ma c’è fiducia per nuova varietà resistente alla siccità

Quest’anno la produzione di grano duro scenderà sotto i 3,5 milioni di tonnellate per effetto della riduzione delle superfici coltivate causata dalla concorrenza sleale di prodotto straniero e della siccità che ha colpito le regioni del Sud Italia: a stimarlo sono Coldiretti e Cai – Consorzi Agrari d’Italia in occasione dell’iniziativa “Giornata in campo” a San Lazzaro di Savena (Bologna).

Le superfici coltivate si sono ridotte per il grano duro dell’11% rispetto all’anno precedente, scendendo sotto gli 1,2 milioni di ettari con punte del 17% nelle aree del Centro Sud, da dove viene circa il 90% del raccolto nazionale. A remare contro è la concorrenza sleale dell’estero con quasi 900 milioni di chili di grano russo e turco giunti solo nel 2023, un’invasione mai registrata nella storia del nostro Paese secondo l’analisi del Centro Studi Divulga. Un vero e proprio fiume di prodotto che, aggiunto a quello di grano canadese, ha superato il miliardo di chili e ha impattato sui prezzi del grano nazionale. In calo (-8%) pure i terreni coltivati a orzo mentre in leggero aumento (+1,4%) le superfici coltivate a grano tenero che si attestano poco sopra i 600mila ettari, per una produzione stimata di circa 3 milioni di tonnellate.

Per far fronte alle oscillazioni dei prezzi di mercato e tutelare gli agricoltori, Consorzi Agrari d’Italia ha messo in campo contratti di filiera sul grano, oltre a importanti investimenti in ricerca. Per Cai i contratti di filiera rappresentano 12 diverse produzioni, di cui 4 relative al frumento, promosse e sviluppate nell’ottica della valorizzazione della produzione italiana. Sul totale dei prodotti ritirati da Consorzi Agrari d’Italia, il solo frumento rappresenta oltre il 50% del volume ed è quindi il primo prodotto. Si tratta di circa 400 mila tonnellate di grano, quantità che identifica Cai come il primo player sul mercato nazionale per questa produzione. Il 25% di questo frumento rientra proprio all’interno di contratti di filiera: un buon segnale ma non abbastanza per le ambizioni di Cai che mira a estendere tale quota a vantaggio di agricoltori e qualità del prodotto.

“Negli ultimi due anni questa strategia ha pagato e nonostante il calo delle produzioni su scala nazionale, Cai registra un +2% sul totale del volume ritirato, con un incremento dovuto proprio all’aumento delle filiere del grano duro Senatore Cappelli. Segno che stiamo lavorando bene sulle filiere autoctone, valorizzando il lavoro dell’agricoltore e delle produzioni nazionali. Proprio grazie agli accordi di filiera, Cai riesce a garantire un premio all’agricoltore che può arrivare – sul grano duro – anche all’8% in più rispetto al prezzo di mercato” spiega Gianluca Lelli, Amministratore Delegato di Cai.

Sul fronte della ricerca, infine, c’è una buona notizia che potrebbe rappresentare una possibile risposta al problema della produzione di grano duro. Una nuova varietà studiata da Sis – Società Italiana Sementi e denominata Superbo, che verrà lanciata a partire dalla prossima stagione, si è dimostrata particolarmente resistente agli stress idrici rispondendo così a una delle maggiori criticità dovute al cambiamento climatico.

Agroalimentare italiano sotto scacco del cibo straniero: l’allarme di Coldiretti

Il 2023 ha segnato un record storico degli arrivi di cibo straniero che hanno raggiunto la quota di 65 miliardi di euro, in aumento del 5% rispetto all’anno precedente. A denunciarlo è la Coldiretti sulla base dei dati Istat sul commercio estero delle regioni italiane, sottolineando che si tratta di prodotti spesso provenienti da Paesi che non rispettano le regole di sicurezza alimentare e ambientale.

Coldiretti sostiene che si possa parlare di un vero e proprio attacco al patrimonio agroalimentare dell’Italia favorito dalle follie europee che stanno facendo calare la produzione agricola nazionale spingendo il deficit alimentare del Paese che è arrivato a produrre appena il 36% del grano tenero che le serve, il 53% del mais, il 51% della carne bovina, il 56% del grano duro per la pasta, il 73% dell’orzo, il 63% della carne di maiale e i salumi, il 49% della carne di capra e pecora mentre per latte e formaggi si arriva all’84% di autoapprovvigionamento.

Il prodotto simbolo di questa invasione è il grano. In Italia, nel 2023, sono più che raddoppiate, per un totale di ben oltre il miliardo di chili, le importazioni di cereale dal Canada trattato con glifosato secondo modalità vietate a livello nazionale. Ma se il Paese dell’acero resta il primo fornitore, la vera invasione che ha segnato il 2023 è quella di grano russo e turco aumentati rispettivamente del +1004% e del +812% secondo un’analisi pubblicata dal Centro Studi Divulga. Un fenomeno mai registrato nella storia del nostro Paese e che ha fatto calare in maniera significativa le quotazioni del prodotto italiano.

Aumentano anche gli arrivi di frutta e verdura dall’estero, in ascesa del 14% in quantità con punte del 39% per le patate, con una vera e propria invasione di prodotto francese, tedesco ed egiziano, Paese quest’ultimo che ha più che raddoppiato le importazioni in Italia, secondo l’analisi Coldiretti su dati Istat.

A pesare, rimarca ancora Coldiretti, sono anche gli accordi commerciali agevolati che portano in Italia prodotti coltivati spesso con l’uso di pesticidi vietati nell’Unione Europea che fanno concorrenza sleale a quelli nostrani, deprimono i prezzi pagati ai produttori e rappresentano una minaccia per la salute dei cittadini. Si va dal riso asiatico che viene coltivato utilizzando il triciclazolo, potente pesticida vietato nell’Unione Europea dal 2016, ma che entra in Italia grazie al dazio zero, alle lenticchie canadesi, anch’esse fatte seccare con il glifosato, che rappresentano i 2/3 del totale importato nel nostro Paese.

Ci sono poi le arance egiziane, oggetto di notifiche dal Rassf, il sistema di allerta rapido dell’Ue, per la presenza di Clorpirifos un pesticida bandito nell’Unione Europea dal 2020; le nocciole turche su cui pesa anche l’accusa del Dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti di essere coltivate con lo sfruttamento del lavoro minorile; i limoni argentini coltivati usando pesticidi tra cui propiconazolo, vietato dal 2019. Senza dimenticare il concentrato di pomodoro cinese che costa la metà di quello tricolore grazie allo sfruttamento dei prigionieri politici e fa abbassare le quotazioni del prodotto nazionale.

Coldiretti chiede dunque un netto stop all’ingresso di prodotti provenienti da Paesi fuori i confini Ue che non rispettano gli standard garantendo il principio di reciprocità delle regole: “si tratta di concorrenza sleale, che mette a rischio la salute dei cittadini e la sopravvivenza delle imprese agricole” afferma il Presidente della Coldiretti Ettore Prandini.

Agroalimentare italiano affossato dal cibo straniero: Coldiretti protesta a Bruxelles

Dal grano di Putin a quello canadese fatto seccare con il glifosato: nel 2023 in Italia è arrivato così tanto cibo straniero da raggiungere il record di 65 miliardi di euro di valore di importazioni agroalimentari. Si tratta di prodotti spesso provenienti da Paesi che non rispettano le regole di sicurezza alimentare e ambientale e di rispetto dei diritti dei lavoratori. A denunciarlo è Coldiretti sulla base di dati Istat in occasione della protesta a Bruxelles con migliaia di agricoltori guidati dal Presidente Ettore Prandini scesi in piazza con un corteo arrivato a pochi passi dal Parlamento europeo, dove si tiene il Consiglio dei Ministri agricoli.

“Chiediamo che sull’import ci sia un netto stop all’ingresso di prodotti da fuori dei confini Ue che non rispettano i nostri stessi standard garantendo il principio di reciprocità delle regole, poiché non possiamo più sopportare questa concorrenza sleale, che mette a rischio la salute dei cittadini e la sopravvivenza delle imprese agricole” afferma Prandini, aggiungendo che “occorre lavorare per aumentare la produzione agricola agendo sul fronte dell’innovazione, con nuove tecnologie di miglioramento genetico per recuperare le produzioni in termini non solo di sostenibilità, ma anche in termini quantitativi e su quello dei contratti di filiera, fondamentali per aumentare il livello di aggregazione dell’offerta, caratterizzando e valorizzando qualitativamente il prodotto nazionale”.

Un vero e proprio attacco al patrimonio agroalimentare dell’Italia favorito dalle follie europee che fanno calare la produzione agricola nazionale spingendo – sottolinea Coldiretti – il deficit alimentare del Paese che è arrivato a produrre appena il 36% del grano tenero che le serve, il 53% del mais, il 51% della carne bovina, il 56% del grano duro per la pasta, il 73% dell’orzo, il 63% della carne di maiale e i salumi, il 49% della carne di capra e pecora mentre per latte e formaggi si arriva all’84% di autoapprovvigionamento.

Il prodotto simbolo di questa invasione è senza dubbio il grano. In Italia nel 2023 sono più che raddoppiate per un totale di ben oltre il miliardo di chili – denuncia la Coldiretti – le importazioni di cereale dal Canada trattato con glifosato secondo modalità vietate a livello nazionale. Ma se il Paese dell’acero resta il primo fornitore, la vera invasione che ha segnato il 2023 è quella di grano russo e turco aumentati rispettivamente del +1164% e del +798% secondo un’analisi pubblicata dal Centro Studi Divulga. Un fenomeno mai registrato nella storia del nostro Paese, che ha fatto calare in maniera significativa le quotazioni del prodotto italiano.

Ma a pesare ci sono anche gli accordi commerciali agevolati che portano in Italia prodotti coltivati spesso con l’uso di pesticidi vietati nell’Unione Europea – denuncia Coldiretti – che fanno concorrenza sleale ai prodotti italiani, deprimono i prezzi pagati ai produttori e rappresentano una minaccia per la salute dei cittadini. Si va dal riso asiatico che viene coltivato utilizzando il triciclazolo, potente pesticida vietato nell’Unione Europea dal 2016, ma entra in Italia grazie al dazio zero, alle lenticchie canadesi, anch’esse fatte seccare con il glifosato, che rappresentano i 2/3 del totale importato nel nostro Paese. Ci sono poi le arance egiziane, oggetto di notifiche dal Rassf, il sistema di allerta rapido dell’Ue, per la presenza di Clorpirifos un pesticida bandito nell’Unione Europea dal 2020; le nocciole turche su cui pesa anche l’accusa del Dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti di essere coltivate con lo sfruttamento del lavoro minorile; i limoni argentini coltivati usando pesticidi tra cui propiconazolo, vietato dal 2019. Senza dimenticare il concentrato di pomodoro cinese che costa la metà di quello tricolore grazie allo sfruttamento dei prigionieri politici e fa abbassare le quotazioni del prodotto nazionale.

I cibi e le bevande stranieri sono oltre dieci volte più pericolosi di quelli made in Italy, con il numero di prodotti agroalimentari con residui chimici irregolari oltre i limiti di legge che in Italia è stato pari al 6,4% nei prodotti di importazione, rispetto alla media dello 0,6% dei campioni di origine nazionale, secondo i dati dell’ultimo Rapporto pubblicato da Efsa nel 2023 relativo ai dati nazionali dei residui di pesticidi. Resta anche la minaccia dell’accordo Mercosur, il mercato comune dell’America meridionale di cui fanno parte Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay, con le gravi inadempienze di molti Paesi sudamericani sul piano della sostenibilità delle produzioni agroalimentari con rischi per l’ambiente, la sicurezza alimentare e lo sfruttamento del lavoro minorile evidenziato dallo stesso dipartimento del lavoro statunitense.

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