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Il Largo Consumo Confezionato nella seconda parte del 2019. Le stime di IRI

Come sarà per il Largo Consumo Confezionato la seconda parte dell’anno in corso? All’interno di uno scenaro economico alquanto delicato, tuttavia IRI prevede una leggera ripresa innescata dai trasferimenti pubblici alle famiglie.

Vediamo nel dettaglio.

Come anticipato, la cornice socio economica non è (per usare un eufemismo) esaltante: nel 2019, infatti, l’economia italiana procede verso la stagnazione. Le turbolenze geo-politiche continuano ad influenzare negativamente il commercio mondiale impattando principalmente sull’Export delle economie a larga base industriale (fra cui l’Italia). E anche sul fronte interno non è tutto rose e fiori:  cresce ulteriormente la pressione sui conti pubblici con il conseguente sforamento dei parametri di finanza pubblica concordati a livello comunitario. Eppure… qualche barlume, si intravede.

Nonostante infatti la congiuntura economica delicata, IRI   prevede per l’anno in corso uno scenario moderatamente positivo dei consumi, che contrasta con un atteso peggioramento a medio termine dove probabilmente saranno non più rimandabili le manovre di aggiustamento dei conti pubblici, necessariamente di orientamento restrittivo (in primis il rischio di aumento dell’IVA). Anche lo scenario del Largo Consumo è influenzato dalla stagnazione economica che comunque comprime la domanda della maggior parte dei mercati di consumo. Tuttavia questo effetto sarà contrastato dalle politiche espansive a favore delle famiglie,  che dovrebbero compensare la caduta dei volumi acquistati. E non basta: ci sono anche altri elementi che stanno determinando l’andamento del comparto.

– Una dinamica dei prezzi in rallentamento, coerentemente con l’inflazione generale. Ciò aiuterà a sostenere la domanda a volume.

– Il rinnovo dell’offerta (che segue i nuovi trend valoriali consolidatisi negli ultimi anni) che, benché in rallentamento, continuerà a portare una moderata spinta ai consumi.

– Un calendario favorevole. (Parte degli acquisti di Capodanno sono confluiti nella contabilità dell’anno commerciale 2019. Ciò ha portato in eredità all’anno corrente un paio di decimi di punto di crescita della domanda).

– L’effetto climatico. Il giugno “bollente” ha consentito di recuperare i contraccolpi negativi sulle categorie di stagionalità estiva causati da una primavera eccezionalmente fredda e piovosa.

In sintesi il 2019 si prospetta un anno di recupero dei volumi per la maggior parte dei comparti del Largo Consumo Confezionato (+0,6% il dato complessivo). Vengono perciò riviste al rialzo le previsioni espresse all’inizio di quest’anno. La crescita più elevata si registrerà per le Bevande che comunque non recupereranno appieno i livelli di consumo registrati nel 2017 (due anni fa). Riprendono a salire anche gli acquisti degli Alimentari grazie soprattutto al contributo di Freschi ed Ortofrutta. Ancora aspettative di flessione per il Cura Casa. Il Cura Persona segnerà invece un parziale recupero del calo subito l’anno scorso. Resta l’incognita dell’evoluzione climatica che potrebbe modificare anche di molto (in positivo o in negativo) le performance soprattutto di Bevande e di molti mercati stagionali dell’Alimentare.

Le attese sono positive anche per i ricavi, sostenuti dai volumi. Il rallentamento dei prezzi, più marcato rispetto alle attese espresse in precedenza, stimola la crescita della domanda a volume che diviene perciò il primo contributore al trend delle vendite in valore. Queste ultime si attesteranno al +0,9% rispetto all’anno precedente. In controtendenza il Cura Casa che soffre ancora di una domanda debole in presenza di prezzi sostanzialmente fermi.

Note: Le previsioni IRI sono aggiornate a giugno 2019 e sono realizzate considerando il Totale Largo Consumo Confezionato in Italia nei seguenti canali di vendita: Ipermercati + Supermercati + Libero Servizio Piccolo + Specializzati Cura e Persona + Discount. L’andamento prospettico dei driver esterni macroeconomici attinge alle previsioni elaborate da REF Ricerche (edizione aprile 2019).

Free from: c’è chi rallenta. Ma anche chi cresce

Foto di kalhh da Pixabay

Il free from rallenta. Non tutto, certo ma alcuni segmenti sì.

Vediamo quanto emerge dalle rilevazioni dell’Osservatorio Immagino.

Si configura uno scenario dinamico, con due fenomeni opposti che si compensano tra loro, dando come risultato una “somma zero”. Da un alto vediamo infatti ancora il segno più su prodotti con i claim “senza zuccheri aggiunti” (+5,4% di vendite), “pochi zuccheri” (+5,1%), “senza glutammato” (+4,8%), “senza additivi” (+3,6%) e “poche calorie” (+2,5%) e (occhio al fenomeno!) “senza antibiotici”.

Dall’altro si nota invece l’andamento penalizzato dei claim più tradizionali del “free from” (in particolare “senza conservanti”, “senza coloranti” e “senza grassi idrogenati”). Le cause di questa situazione?

Probabilmente la maturità del mercato sostanzialmente fermo.

I settori: l’andamento

Il più importante in termini di incidenza sull’assortimento e sul sell-out resta senza
conservanti, che accomuna il 6,5% dei prodotti alimentari analizzati e genera il 10,5% delle vendite totali del food. Ma sembra ormai maturo, tanto da aver chiuso il 2018 con calo del -4,0% delle vendite. Un altro fenomeno che si va attenuando è quello del “senza olio di palma”: sebbene il 2018 si sia chiuso con
un trend positivo delle vendite (+3,8% rispetto al 2017), sembra che la spinta
evidenziata nei 12 mesi precedenti si stia esaurendo.

Fashion renting: dagli Usa con furore il fenomeno arriva in Italia

Il pensiero corre immediatamente a Louise, la dinamica e provvidenziale segretaria di Carrie Bradshow (leggete pure: la protagonista di Sex and the City).

La ricordate Louise? Amante di Lois Vuitton, ma un po’ a corto di fondi, lei le borse le affittava. Il risultato? Perfettamente appagata del suo look brandizzato.

E sull’onda di questo fenomeno (il fashion renting, appunto) ormai da tempo diffuso negli USA (ma parecchio in voga pure in Cina e nel Regno Unito), anche in Italia si comincia a cambiare modus operandi. Tanto che si parla di una vera e propria rivoluzione da qui al 2023, quando il fashion renting, specialmente nella sua formulazione online, potrebbe arrivare a valere secondo Allied Market Research fino a 1,9 miliardi di dollari. 

Ed oltre a fare bene all’organizzazione degli armadi e al contenimento dello stress (secondo il The Telegraph, infatti, le donne spendono in media 287 giorni per scegliere il giusto outfit) il fashion renting potrà dare un grosso aiuto pure all’ambiente. Visto uno dei grandi attentatori alla salute del Pianeta è proprio la produzione eccessiva e indiscriminata di indumenti a basso prezzo “usa e getta”. Come riporta El País, infatti, negli ultimi 15 anni la durata dei capi di abbigliamento è diminuita del 36% e oggi i vestiti hanno una vita media inferiore ai 160 utilizzi, una situazione che genera ogni anno 16 milioni di tonnellate di rifiuti tessili nella sola Unione Europea. E a questo proposito  The Guardian lancia il suo monito: se nei prossimi anni non ci sarà un cambio di passo di qui al 2050 l’industria del tessile sarà responsabile di un quarto del consumo del carbon budget, causando un aumento della temperatura di ben 2°C. 

“Con il fashion renting chiunque può realizzare il desiderio d’indossare capi d’alta moda per un’occasione speciale – spiega Caterina Maestro, fondatrice di DressYouCan (startup milanese protagonista del fenomeno “fashion renting”) – o semplicemente risolvere il quotidiano problema dell’outfit da ufficio, affidandosi completamente alle competenze di esperte fashion renter. Il noleggio di abiti rappresenta un asso nella manica per stupire con la propria eleganza nonché una perfetta soluzione per chi sogna un guardaroba illimitato che non alimenti sprechi e inquinamento. L’idea della nostra startup è l’esatto opposto della moda low cost: punta sulla qualità e rende l’abbigliamento di classe alla portata di tutti con prezzi accessibili e con un sistema di noleggio online e offline molto semplice che sta riscuotendo grande successo”.

 

Il noleggio di abiti e accessori è un trend la cui crescita è confermata anche dagli esperti accademici come il prof. Giovanni Maria Conti, docente di Storia e Scenari della Moda presso il Politecnico di Milano: “Il fashion renting rappresenta un nuovo modo di consumare soprattutto per Generazione Z e Millennial, i target più attenti alla sostenibilità. Da tre anni a questa parte il concetto di sharing si è allargato e andiamo verso un consumo che non è più originato dal possesso, ma dalla possibilità di poter utilizzare, anche solo per poche ore, un oggetto: probabilmente non è più il tempo di possedere, ma di potersi permettere un’esperienza”.

 

 

Trafilato al bronzo, artigianale o fatto a mano: ecco i claim preferiti dai consumatori

Conoscere con quale tecnica sia stato ottenuto un alimento è un plus sempre più gradito dai consumatori. Per questo vanno forte claim come  “non filtrato”, “trafilato a bronzo”, “fatto a mano”, “artigianale”, “lievitazione naturale”, “estratto a freddo”, o “essiccato”. Lo conferma la nuova edizione dell’Osservatorio Immagino che riporta come sui 72.100 prodotti di largo consumo monitorati, ben il 3,0% (circa 2.138) evidenzia in etichetta la tecnica o una particolare procedura con cui è stato realizzato. E  proprio questo 3% l’anno scorso è riuscito a sviluppare oltre 645 milioni di euro di vendite nei supermercati e negli ipermercati italiani, mettendo a segno una crescita del +6,4% rispetto al 2017.

Due le cause concomitanti di questa crescita: l’espansione dell’assortimento (+5,2%) e la propensione all’acquisto da parte degli italiani (+1,2%).

Otto claim particolarmente significativi

L’Osservatorio Immagino ha rilevato i claim più apprezzati, da questa classifiche emerge che il più importante, per diffusione e giro d’affari, è “trafilato a bronzo”: sono 824 le referenze di pasta che lo segnalano in etichetta e il loro giro d’affari è aumentato nel 2018 del +5,9%, arrivando a superare i 142 milioni di euro.

Importante anche lievitazione accurata: sono 288 i prodotti (dalle pizze surgelate alle merendine, dai cracker ai prodotti da forno) accompagnati da claim come “lievitazione lenta”, “lievitazione naturale” e “lievitazione lunga”. Un universo molto vivace: nel 2018 l’offerta è salita del +5,0% e la domanda è aumentata del +2,9%, facendo crescere del +7,9% il giro d’affari di questi prodotti, che ha sfiorato i 130 milioni di euro.

La performance più brillante del 2018 è quella del claim “non filtrato”: rispetto ai 12 mesi precedenti, è cresciuto di ben il +47,4% il giro d’affari dei 90 prodotti che lo segnalano in etichetta. Il mercato è ancora limitato (circa 75 milioni di euro di sell-out), ma dinamico, ed è dominato dalla birra “non filtrata”, che contribuisce per circa il 53% al giro d’affari e che è l’unica artefice dello sviluppo di questo segmento di mercato.

Bilancio positivo anche per i 210 prodotti presentati come “lavorati a mano” (in particolare tonno, grissini, mozzarelle, prodotti da forno e gelati), che hanno superato gli 88 milioni di euro (+3,4% sul 2017), e per i 523 definiti “artigianali” (come patatine, prodotti da ricorrenza, sostitutivi del pane, birre e formaggi), arrivati a oltre 85 milioni di vendite (+2,5% annuo).

Tra gli otto claim relativi ai metodi di produzione rilevati dall’Osservatorio Immagino, solo uno è stabile: si tratta di “essiccato” (rappresentano soprattutto dalla pasta, con 119 prodotti), che non vede aumentare le vendite, ferme a 10 milioni di euro, a dispetto dell’aumento di +6,1% dell’offerta.

Due sono, invece, i claim con un trend negativo: “estratto a freddo”, presente su 203 confezioni di olio extravergine di oliva, che nel 2018 ha ottenuto 130 milioni di euro di vendite, ossia il 5,3% in meno rispetto all’anno precedente, benché resti il secondo claim per giro d’affari. L’altro è “affumicato” (presente soprattutto su salmone e formaggi) che, nello stesso periodo, ha perso il 3,4% del fatturato rispetto al 2017, arretrando a 24 milioni di euro.

A fronte di “vecchi” claim che segnano il passo, ne arrivano di nuovi che cominciano a farsi notare. L’Osservatorio Immagino li ha già intercettati, anche se hanno ancora piccoli numeri, e li segnala come fenomeni ad alto potenziale: sono i claim “gourmet”, “rustico”, “non raffinato” e “non fritto”. Da tenere d’occhio perché ne sentiremo parlare.

8 miliardi di euro: vola alta l’avicoltura italiana

Foto di congerdesign da Pixabay

Con un valore di circa 8 miliardi di euro, nel 2018 la filiera di pollo e carni bianche ha generato ricadute economiche e occupazionali per 7,9 mld, pari a quasi mezzo punto del PIL 2018 (0,45%) e superiori alla crescita attesa per l’intera economia italiana per il 2019 (+0,3%). A rivelarlo lo studio Althesys* “La filiera avicola crea valore per l’Italia”. L’indagine, che per la prima volta fotografa il contributo diffuso del settore al Paese tra effetti diretti, indiretti e ricadute indotte – evidenzia come la filiera avicola, con 21,7 mld di giro d’affari complessivo, non solo sia un’eccellenza della zootecnia italiana e del settore primario ma un vero e proprio “moltiplicatore economico”. Ogni euro di valore condiviso generato nella fase di trasformazione infatti ne produce 5,70 sul resto del comparto. Effetti tangibili si riscontrano anche sul fronte dell’occupazione (circa 83.000 addetti lungo la filiera). Per ogni dipendente nella trasformazione, vengono creati altri 2 posti di lavoro e mezzo lungo tutte le altre fasi della filiera (incubatoi, agricoltura, mangimi, industria, housing allevamenti, servizi, logistica, distribuzione e vendita).

In nome del benessere animale

“I dati di Althesys confermano l’eccellenza dell’avicoltura italiana, l’unico comparto zootecnico che garantisce un prodotto e una filiera 100% made in Italy: dagli animali, nati e allevati in Italia, alla trasformazione, dalla logistica al prodotto finale. In meno di 10 anni il settore ha fatto passi da gigante sul fronte del benessere animale, della sicurezza e della riduzione degli antibiotici (-80%), registrando, a fronte di importanti investimenti, una crescita di fatturato del 7,5%, oggi a quota 5,7 miliardi.

Tuttavia per mantenere positive le performances a 360 grai servirebbe un maggior sostegno alle imprese, specialmente sul fronte dell’export. Le esportazioni, infatti, dal 2017 perdono in media il 3,9% l’anno in valore. Serve dunque accedere ai nuovi mercati, anche in vista delle previsioni sul tasso di crescita annuale dei consumi Ue per il 2030 (0,3%* contro l’attuale 2,2%/anno del 2018). È ancora fermo ad esempio il dossier Cina, per il quale chiediamo al più presto una cabina di regia tra Mipaaft, Ministero della Salute, Ministero degli Affari esteri e MISE.

Foto di RitaE da Pixabay

Il valore del pollo

Non solo è tra le carni più prodotte a livello mondiale (124 milioni di tonnellate nel 2018), ma il pollo è anche la carne più amata dagli italiani. Con il 35% degli acquisti domestici delle carni fresche, le carni avicole sono le più consumate nelle case italiane e registrano una crescita costante sia nei volumi che nella spesa (+0,6% i volumi e +3,6% sul 2017, elaborazione dati Ismea su dati Nielsen).  Il Sud rappresenta il 30% degli acquisti (+2,8% sul 2017), il Nord Ovest copre il 26%, mentre il  Centro Italia si attesta al 25%. A trainare i consumi delle famiglie italiane sono panati e preparati (+ 9,3% in volume e +10% in valore sul 2017): prodotti a maggiore valore aggiunto che vengono prediletti per facilità e velocità di preparazione. In crescita il valore delle carni avicole tal quali (+ 1,5%), a fronte di una lieve flessione fisiologica dei volumi (-1,5%) dopo anni di costante incremento.

Tra i driver di consumo, la garanzia di acquistare sempre un prodotto 100% made in Italy, buono, sicuro e sempre freschissimo, grazie a una filiera integrata e ai controlli rigorosi in materia alimentare. Quella avicola infatti è l’unica tra le filiere zootecniche ad essere tutta italiana e ad avere un tasso di autoapprovvigionamento superiore al 100% (106%, dati Unaitalia). A ciò si aggiunge la ricchezza nutrizionale delle carni bianche, salutari e adatte a ogni età consigliate dai nutrizionisti per l’apporto proteico e per i pochi grassi.

 

 

 

 

Sport Industry: gli italiani riscoprono l’attività fisica

Parlando di manifatturiero italiano, il comparto degli aricoli sportivi non se la passa certo male.

E a dirlo sono i numeri emersi nel corso dell’Assemblea di Assosport, l’Associazione Nazionale fra i Produttori di Articoli Sportivi che rappresenta 130 aziende e 350 brand del settore. In Italia, infatti, il fatturato della Sport Industry ha superato gli 8 miliardi di euro, con 911 operatori e 22.369 addetti. Un risultato dovuto per il 55% all’abbigliamento, per il 27% al settore articoli sportivi, e per il restante 18% alle calzature. Un dato in crescita, una tendenza confermata anche dai numeri più recenti a disposizione, che vedono la produttività in aumento del 3,4%, sia nel 2018 che nelle previsioni per il 2019 (dati Cerved). 

Dati che fanno ben sperare, dunque, e che traggono forza anche dall’export, come spiega bene il presidente dell’Associazione Federico De Ponti (CEO di Boxeur Des Rues): “Internazionalizzazione delle imprese e incremento della pratica sportiva – spiega De Ponti – sono due degli obiettivi principali su cui abbiamo lavorato, in continuità con chi ci ha preceduto. L’export delle nostre aziende rappresenta una quota sempre maggiore del loro fatturato, addirittura oltre l’82% nel comparto della calzatura sportiva. Siamo il secondo Paese esportatore d’Europa.”

Lo sport globale

Nel villaggio globale, anche lo sport non può essere da meno. La tendenza a dedicarsi alle attività fisiche prosegue infatti a ritmi più che positivi. Tanto che a livello mondiale, nel 2023, come ha illustrato PwC Italia, il mercato mondiale dello sportswear varrà quasi 400 miliardi di euro (CAGR +7,2%), rispetto ai 280 miliardi di oggi. Sarà trainato dalla crescita degli USA, mercato maggiore per market share, e da India e Cina che registreranno i maggiori tassi di crescita.

“Athleisure, contaminazioni fra luxury & sport, sostenibilità, tecnologia e retail esperienziale ridefiniranno il futuro dello sportswear mondiale”. Spiega De Ponti “le nostre aziende devono conoscere sempre meglio il consumatore finale per intercettarne le esigenze. Non facile, dato che soprattutto le nuove generazioni non stanno abbandonando i negozi tradizionali, ma sembrano preferire un originale mix tra acquisto virtuale e acquisto di persona.”

Il mercato in Italia

Nel nostro Paese, il comparto vale circa 9,3 miliardi di euro (dati NPD), sostanzialmente stabile rispetto al 2017. I dati CONI del 2018 in tal senso dipingono un quadro positivo, fatto di oltre 20 milioni di praticanti, 758 mila in più nell’ultimo anno. Di questi, il 25,7% sono praticanti continuativi, a cui si aggiungono il 9,6% di saltuari.

In termini distributivi, i dati Dimark mostrano un mercato estremamente parcellizzato: dei 4.214 punti vendita, solo l’11% appartengono a catene, il restante 89% è rappresentato da negozi indipendenti. Quando però si guarda agli acquisti, le catene pesano col 56% del valore.

Sull’evoluzione futura PWC prevede per il 2023 una crescita dello sportswear superiore ai 7 miliardi, con più del 40% di market share in mano ai primi 5 brand. Fisico o digitale?

Nel 2018 in Italia – evidenzia PWC – per lo sportswear l’online si attesta intorno al 5,6% del totale mercato (+ 18% vs 2017) e sviluppa un fatturato di circa 354 milioni di euro. Ovviamente siamo lontani dalle percentuali a stelle strisce (19% per l’online) o da quelle della Cina dove l’online traggiunge il 37% supportato dai social, ma comunque la crescita è significativa.

Un pericolo incombe dunque sullo store fisico?

Non sembra, in effetti. Da un’indagine PwC condotta sulle abitudini d’acquisto di oltre 21.000 consumatori in 27 paesi, emerge infatti che negli ultimi 7 anni gli store fisici reggono bene, rivelandosi “tosti” interlocutori del mobile. Tanto è vero che il 49% sceglie ancora gli store fisici per lo shopping settimanale e quotidiano (+ 7% vs 2013) e “solo” 24% preferisce il mobile (+18% vs 2013).

E non basta: pare infatti che per intercettare e soddisfare i Millennials ela Gen Z la praticità dell’onlne non basti. Serve piuttosto il coinvolgimento in store.Nuove tendenze sostenibili

E per assecondare la tendenza sempre più diffusa ad adottare atteggiamenti sostenibili,  anche la moda dello “sharing” è in crescita, forte di un 30% di consumatori disponibili a condividere l’attrezzatura sportiva outdoor, terza categoria dopo auto e altri mezzi di trasporto. Per i consumatori italiani i dati sono ancora più marcati: il 48% e 45% rispettivamente sono disposti a noleggiare o condividere automobili e altri mezzi di trasporto, e il 40% l’equipaggiamento da sport.

Malnatt: nasce progetto brassicolo per l’inserimento di carcerati ed ex-carcerati

Si chiama “Malnatt, il gusto del riscattol’innovativo progetto brassicolo della città di Milano che vuole accendere l’attenzione sul tema e il valore del reinserimento delle persone carcerate ed ex-carcerate nel mondo produttivo.

Il progetto nasce dalla collaborazione tra i Direttori dei tre Istituti penitenziari milanesi di Bollate, Opera e San Vittore e un gruppo di imprenditori ed esercenti del territorio milanese, grazie al supporto del Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria e del Comune di Milano.

Finalità del progetto è rafforzare ulteriormente il ponte tra le attività educative e produttive svolte in carcere e il territorio milanese: grazie alla filiera birraria, Malnatt darà un’opportunità concreta di formazione e lavoro ad alcuni detenuti ed ex-detenuti, in particolare nelle fasi di produzione – presso l’Azienda Agricola La Morosina nel Parco del Ticino – e di distribuzione presso la società Pesce.

A tendere, l’inserimento potrà coinvolgere anche le attività di servizio grazie alla collaborazione con gli esercenti che si renderanno disponibili.

L’obiettivo atteso, a 24 mesi dal lancio, è duplice: reinserire almeno dieci detenuti o ex-detenuti e generare risorse per sostenere ulteriori progetti che procurino ricadute positive sul sistema di esecuzione penale.

Le birre Malnatt, attualmente in fase di distribuzione presso il canale horeca e moderno (a seguire l’elenco dei locali milanesi che hanno già aderito), sono birre agricole – ovvero prodotte con materie prime coltivate in loco presso La Morosina – ad alta fermentazione, non pastorizzate, non filtrate e rifermentate in bottiglia o in fusto. Tre saranno le referenze prodotte e dedicate ai tre istituti carcerari di Milano: Malnatt San Vittore, birra chiara non filtrata di solo malto d’orzo; Malnatt Bollate, birra di frumento; Malnatt Opera, birra rossa.

Nome e logo di Malnatt (termine del dialetto milanese che sta affettuosamente a significare “nato male”), ideati da Take, l’Agenzia di comunicazione partner del progetto, pongono in particolare l’accento sulla milanesità del progetto e sulla cultura popolare meneghina. Non a caso, è un malnatt il protagonista di Ma mi, la celebre canzone, scritta da Giorgio Strehler e cantata da Ornella Vanoni e poi da Enzo Iannacci, che racconta di una detenzione nel Carcere di San Vittore.

La presenza digitale di Birra Malnatt – attraverso il sito www.birramalnatt.it e i canali Facebook e Instagram – è curata da Redfarm, società di produzione e comunicazione digitale controllata da Take.

 

Bofrost, prima nel settore della filiera del freddo, adotta la blockchain

Bofrost, in nome del profondo rapporto di fiducia con i propri clienti, renderà possibile tracciare i prodotti in ogni fase della filiera grazie alla Blockchain.

Per il settore frozen food si tratta di una novità assoluta, spiega l’amministratore delegato di Bofrost Italia Gianluca Tesolin: «L’innovazione digitale sta rivoluzionando la filiera agroalimentare e, in questo caso, la parola chiave è Blockchain, la tecnologia che funziona come un “notaio virtuale” per registrare ogni passo della catena produttiva, in maniera inalterabile. Tutti dati che Bofrost rende accessibili, in totale trasparenza: infatti, scansionando il QR code sulla confezione, si potrà vedere la storia del prodotto direttamente sullo smartphone. Così i consumatori potranno fare scelte d’acquisto consapevoli, basate su informazioni verificabili riguardo l’origine, la qualità e la sicurezza dei prodotti».

Per implementare la blockchain sul sistema di tracciatura dei prodotti Bofrost si è affidata a EY, con la sua soluzione OpsChain Traceability.

Commenta Giuseppe Perrone, EY Blockchain Hub Mediterranean Leader: «La soluzione Bofrost, prima nel settore della filiera del freddo, testimonia come la tecnologia EY OpsChain Traceability con token ERC 721 su Blockchain di Ethereum consenta di fornire all’azienda un modo completamente digitale di verificare l’operato dei propri fornitori, valorizzare i controlli di filiera e monitorare l’intero processo dalla materia prima alla consegna del prodotto al cliente finale, assicurandone il più alto rispetto degli standard di trasparenza e garanzia di qualità».

I clienti Bofrost riceveranno le prime confezioni tracciabili con la Blockchain a partire dall’inizio di luglio. Due i prodotti scelti per dare il via al progetto: Filetti di Merluzzo Nordico e Spicchi di Cuore di Carciofo.

«Pesce e verdure perché rappresentano due categorie fondamentali per Bofrost – spiega Tesolin –. In particolare, le due referenze scelte sono anche due dei nostri prodotti più apprezzati fra quelli proposti “al naturale”: in un anno vendiamo circa 170mila confezioni di merluzzo da 800 grammi e oltre 250mila confezioni di cuori di carciofo, tra formato standard e mini».

Come funziona – Bofrost Italia ha applicato la soluzione EY OpsChain Traceability, per la tracciatura delle proprie filiere produttive, sfruttando la Blockchain pubblica di Ethereum. Questa permette a ognuno degli attori della filiera di registrare le proprie informazioni, senza alcuna possibilità di alterare i dati dall’esterno. Il tutto poi viene mostrato ai consumatori in modo semplice e immediato: inquadrando con lo smartphone il QR code sulle confezioni, o inserendo il codice sul sito, si arriva sulla pagina web che racconta tutta la storia del prodotto, dalla sua origine ai vari passaggi della catena produttiva, fino al suo arrivo nel piatto.

 

Viridea apre alla ristorazione, inaugurando a Cusago Erba Matta

Viridea, catena italiana di Garden Center, amplia la sua formula di accoglienza con l’inaugurazione di Erba Matta – giardino con cucina: un nuovo ristorante e bistrot
all’interno del punto vendita di Cusago, il primo centro aperto in provincia di Milano nel 1997.

L’apertura di questo ristorante completa la proposta di Viridea e rafforza la mission dell’azienda, che da sempre intende offrire un luogo di svago e relax a due passi dalla città a tutti gli amanti della natura.
Erba Matta offre ai visitatori il servizio che mancava: un ristorante e caffetteria dall’animo green, dove le famiglie sono benvenute e la genuinità delle materie prime incontra fantasia e creatività.
La progettazione del format è stata curata dal Gruppo Ethos – F&B Consulting, dipartimento dell’omonima azienda ristorativa lombarda che si occupa di fornire servizi e consulenze per attività ristorative.

Il format: ristorante e bistrot
Il ristorante/pizzeria Erba Matta (il nome sottolinea la vocazione dedicata alla natura di Viridea e unisce una connotazione di semplicità – l’erba matta è infatti una pianta molto comune – a quella di stravaganza) proporrà una cucina contemporanea, con ricette semplici, ma spesso anche estrose. Il filo conduttore del menù à la carte sarà il richiamo alla territorialità e al mondo botanico, attraverso l’uso di piante aromatiche e varietà ortofrutticole inusuali.
Tra gli ingredienti saranno privilegiati i prodotti biologici, una scelta volta a offrire prodotti buoni per i clienti e per l’ambiente.

La location
Il ristorante è collegato al Viridea Garden Center da un accesso interno. L’entrata principale, affacciata direttamente sul piazzale del parcheggio, si raggiunge tramite un pontile sospeso sul laghetto. Una terrazza, al cui centro campeggia un braciere a legna, si affaccia sullo specchio d’acqua. Nel retro del ristorante si apre un ampio cortile incorniciato da un giardino aromatico.
Attorno all’edificio è facile imbattersi in pavoni e galli, che circolano liberamente.
Il progetto richiama, nell’impianto architettonico, la struttura a forma di serra tipica dei Viridea Garden Center, con ampie vetrate e soffitto in legno a vista.
Gli interni sono stati disegnati dallo Studio Novo di Casatenovo e si caratterizzano per il mood fresco, ispirato alla natura. I toni sono quelli del legno e variazioni di verde, scompigliati qua e là dai muschi colorati e dai decori delle pareti.

I numeri di Erba Matta
• 2 dehors: una terrazza con braciere a legna affacciata sul laghetto e un cortile con giardino aromatico sul retro
• 250 sedute
• 1 area bimbi permanente
• 2 alberi all’interno delle sale
• 3 impasti biologici per le pizze
• 7/7 giorni di apertura
• 8-24 l’orario di apertura

Yeast free, gli italiani amano il senza lievito

Senza lievito? E’ meglio. Almeno stando a quanto emerge da un’indagine Vitavigor (realizzata su circa 1300 italiani tra i 18 e i 66 anni), secondo la quale 9 nostri connazional su 10 sono disposti ad acquistare i prodotti “yeast free”, pur non soffrendo di alcuna patologia. I motivi? Secondo il 33,7% i prodotti senza lievito sono più buoni o comunque di maggiore qualità, per il 27,6% sono più leggeri o provocano comunque meno gonfiore, per il 24% sono indiscutibilmente più salutari, il 7,3% li compera per curiosità mentre per un altro 7,3% sono più digeribili.

E questo trend è certificato anche dall’Eurispes, secondo cui il 18,6% degli italiani compra abitualmente al supermercato prodotti senza lievito, anche se solo il 4,6% riconosce di essere intollerante, a differenza del 14% che non lo è. Una scelta decisa e sempre più frequente, fatta nonostante i prezzi dei prodottiyeast free siano più alti rispetto a quelli ordinari, come specificato da un’indagine dell’Osservatorio Nazionale Federconsumatori. Ma come la pensa invece chi non è disposto ad acquistare prodotti senza lievito, ovvero il 12,8% degli italiani? Se al 37,3% non piace il sapore, il 27,5% non lo vede proprio necessario, mentre il 13,7% preferisce altre tipologie di prodotto, l’11,8% non li compera perché non ha intolleranze e il 9,8% li ritiene davvero troppo costosi.

 

 

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