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Tag: Consumi

Quanto spendono gli italiani in birra? Il 5% del loro reddito. Ma c’è chi sa fare di meglio

Birra, una passione crescente anche per gli italiani, ma quanto se ne beve in realtà nel nostro Paese? Secondo l’Istat, in Italia nel 2017 sono stati consumati 2.450 milioni di litri. Dunque, considerando i consumatori maggiorenni e coloro che bevono abitualmente, ciascuno ne consuma in media 31 litri all’anno, ovvero circa 3 al mese.

CupoNation, piattaforma di risparmio, ha analizzato quanto la spesa per la “bionda” incide sull’economia familiare. Come riferimento per il costo di una birra si èconsiderato il report pubblicato recentemente da Deutsche Bank, che riporta 5,61 Euro come prezzo medio per una birra a Milano. Prezzo contenuto se raffrontato con quello di Oslo pari a 8,90 Euro e di Londra, a 6,21 Euro. Esosissimo invece, se si confronta con Lisbona (2,41 Euro), Istanbul (3,30 Euro) o addirittura Manila, dove una bionda si “porta via” con 1,29 Euro.

Un raffronto reale si ha con il salario minimo del Paese in questione. In fondo piuttosto limitato in Italia, dove la spesa per la birra rappresenta circa il 5% del salario minimo mensile. Situazione ben diversa a Rio de Janeiro, dove rappresenta il 13%, in Messico dove sale al 27% e a Mosca dove arriva a sfiorare un terzo dello stesso, 32%.

Anche guardando ai litri consumati, con i nostri 3 litri scarsi facciamo la figura dei pivelli in confronto con gli abitanti della Repubblica Ceca, che consumano in media 12 litri di birra al mese, e austriaci, tedeschi, polacchi, irlandesi e lituani che ne consumano tra gli 8 e 9 litri al mese. Ma alla fin fine, si può sempre migliorare e le statistiche fanno ben sperare.. (leggi Birra in Gdo: l’Osservatorio Birra Moretti evidenzia il boom delle specialty).

Rapporto Bio Bank 2018: continua l’avanzata del biologico, vola la cosmesi

Sempre più diffuso, al di là delle mode e degli integralismi: stiamo parlando del biologico e una conferma del suo successo viene dai numeri del nuovo rapporto Rapporto Bio Bank 2018, che verrà presentato ufficialmente al Sana di Bologna il 7 settembre e che pubblica e analizza i dati riferiti alle 10.001 attività censite da Bio Bank nel 2017: 9.075 per l’alimentazione e 926 per la cosmesi.

Un settore quello del biologico che ha superato i 5 miliardi di euro nel 2016 tra Italia ed estero, con un incremento del 16,3% rispetto all’anno precedente.

 

Aumentano le attività, nella cosmesi +177%

Negli ultimi cinque anni il numero di attivitàdelle otto tipologie monitorate nel Rapporto per gli Alimenti ècresciuto di oltre il 6%. A volare sono invece le tre tipologie di attivitàmonitorate per la Cosmesi, cresciute del 177%.


Per gli Alimenti ancora in testa gli e-commerce di alimenti bio, passati dai 147 del 2013 ai 344 del 2017, con una crescita del 134%, e i ristoranti bio, passati da 350 a 556, con una crescita del 58,9%. Seguono i 1.437 negozi specializzati di alimenti bio (+12,5%), le 1.311 mense scolastiche (+6,1%), i 238 mercatini (+3%), mentre le 2.879 aziende con vendita diretta crescono appena dell’1,5%. In calo gli agriturismi a quota 1.497 (-4,5%) e i gruppi d’acquisto solidale a 813 (-8,3%).

Per la Cosmesi guidano ancora il trend le profumerie bio, balzate dalle 49 del 2013 alle 245 del 2017 (+400%). Notevole lo sviluppo degli e-commerce di cosmesi bio, passati da 70 a 255 (+264,3%). Ma è significativo l’aumento delle aziende di cosmesi bio e detergenza eco certificate, che raddoppiano passando da 215 a 426 (+98,1%).

 

Lombardia prima della classe

La classifica delle regioni leader per numero assoluto di attivitàbio nel 2017 riconferma la Lombardia con ben 1.417 attività, prima per numero di gruppi d’acquisto, negozi, mense, aziende ed e-commerce di cosmesi. Al secondo posto ancora l’Emilia-Romagna con 1.312 attività, che primeggia con vendita diretta, mercatini, e-commerce di alimenti e ristoranti. Al terzo la Toscana con 1.126 realtà, regina incontrastata, e non ci sorpende, degli agriturismi. Anche alla guida della classifica per densitàdi attivitàsi riconfermano le stesse tre regioni del Centro Italia: le Marche con 397 attivitàper milione di abitanti, l’Umbria con 347 e la Toscana con 301.

Tra le regioni leader in Italia solo una èpresente sia nella classifica per numero sia in quella per densitàed èla Toscana. Tra le regioni leader in una singola tipologia entra per la prima volta il Sud, con la Campania, leader per numero di profumerie bio.

 

Polarizzazione tra basico e di alta qualità

Diecimila attivitàsono una fetta importante del biologico italiano, dall’alimentazione, dove il bio ha visto il suo esordio, alla cosmesi, dove la sua diffusione èpiùrecente. Dai canali storici, come i negozi specializzati, a quelli emergenti, come l’e-commerce.
Il perimetro del Rapporto Bio Bank non comprende quindi tutto il biologico – che ormai non ha più confini e si trova ovunque – ma fornisce dati quantitativi e qualitativi per leggere il cambiamento in atto e affrontare le nuove sfide. Oggi che sono entrate nel bio sia le multinazionali, sia grandi, medie e piccole aziende agroalimentari, si assiste a una polarizzazione. Da una parte il bio basico, che rispetta il regolamento europeo e si accontenta dell’Eurofoglia. Dall’altra le aziende storiche del bio, che continuano la scalata dei valori nel segno della qualità totale. Ma che in qualche modo diversificano e specificano, accogliendo nuove suggestioni: ecco allora nascere il biologico legato all’origine delle materie prime (locale, regionale, made in Italy), il biologico che si evolve in biodinamico, il biologico che fa filiera (assciurando un giusto prezzo ai produttori e una distribuzione equa del valore lungo tutta la catena), il biologico etico (attento alle condizioni di lavoro nelle campagne, avvelenate dalla piaga del pizzo e del caporalato), il biologico equosolidale, attento al sociale.

Nel rapporto è posisbile trovare l’andamento delle vendite bio negli ultimi dieci anni, i Trend 2013-2017 del numero di attività bio per le di 11 tipologie monitorate, le regioni Leader 2017 per numero assoluto e per densità, l’analisi puntuale di otto tipologie di attività per gli Alimenti e di tre per la Cosmesi, anche con dati storici. Le 58 pagine sono consultabili liberamente su Issuu.

Confesercenti: nel 2018 crescita lenta, peggiore risultato dal 2014

Una crescita lenta ferma all’1% e che rischia di avere conseguenze negative sui consumi, infleunzata dal dimezzamento del potere d’acquisto e dal deterioramento della fiducia: questa la “lettura” di Confesercenti dell’anamento dei consumi nel 2018. Una frenata allarmante, la peggiore dal 2014. La crescita prevista per l’anno è inferiore all’1,4% auspicato dal Documento di Economia e Finanza e il risultato più fiacco dal +0,3% registrato nel 2014. E la debolezza di quest’anno proseguirebbe per tutto il prossimo biennio: la crescita dei consumi si dovrebbe confermare al +1% nel 2019 per poi frenare ancora a +0,7% nel 2020. In valori assoluti, si parla di 5 miliardi di euro in media di spesa all’anno in meno rispetto alle previsioni nel triennio 2018-2019-2020.

Il rallentamento dei consumi inciderà anche sul Pil: l’anno si dovrebbe chiudere con una variazione di +1,3% del prodotto interno lordo, due decimi di punto in meno dell’1,5% indicato nel DEF. E la debolezza proseguirebbe per tutto il prossimo biennio: la crescita dei consumi si dovrebbe confermare al +1% nel 2019 per poi frenare ancora a +0,7% nel 2020. La variazione del Pil, invece, dovrebbe rallentare ulteriormente sia nel 2019 (+1,2%) che nel 2020 (+1,1%). Le previsioni macroeconomiche sono state condotte da Cer per Confesercenti.

Tab. 1: Consumi famiglie e Pil, previsione variazioni 2018-2020. Fonte: modello econometrico Confesercenti Cer

Sono dunque confermate le maggiori difficoltà a superare la recessione registrate dal nostro Paese rispetto ai partner europei. A dicembre 2017, infatti, i consumi delle principali economie europee sono tutte al di sopra del 2007, ultimo anno prima della crisi: in Germania segnano il 10,9% in più, in Francia l’8,6% e nel Regno Unito il 5,5% in più. In Italia, invece, sono ancora al di sotto dei livelli del 2007 del 2,7%; pari a circa 26,3 miliardi di euro in meno. Un gap che, di questo passo, recupereremo solo nel 2021, ben 14 anni dopo la crisi.

 

Ipotesi aumento IVA 

Va sottolineato, inoltre, che queste stime sono state elaborate ipotizzando lo stop agli aumenti IVA previsti dalle clausole di salvaguardia. Se così non fosse, come tuttora iscritto nel bilancio ‘a legislazione vigente’, il quadro di previsione sarebbe decisamente peggiore: la variazione dei consumi si abbasserebbe allo 0,8% già nel 2019, per arrivare quasi allo stop (+0,3%) nel 2020. Anche la crescita del Pil si indebolirebbe, scendendo a +1,1% nel 2019 e inabissandosi sotto la soglia psicologica del +1% già nel 2020 (+0,8%).

Tab. 2: Consumi e Pil, previsione variazioni 2018-2020 in caso di applicazione aumenti IVA (clausole di salvaguardia)

A pesare sui consumi – e, di conseguenza, sulla crescita dell’intera economia – è il deciso indebolimento del potere d’acquisto, la cui crescita si è dimezzata passando dal +1,4% del 2015-2016 al +0,7% di quest’anno. Ma incide anche il deterioramento del clima di fiducia delle famiglie consumatrici, che rende improbabile un recupero della spesa nell’ultima parte dell’anno. Tra gennaio ed agosto del 2018, infatti, l’indice di fiducia delle famiglie è sceso dello 0,3%, contro la crescita del 2,6% registrata nello stesso periodo del 2017. Il calo di ottimismo degli italiani – che scoraggia le decisioni di spesa – è dovuto ad un quadro economico percepito come meno favorevole. Disaggregando le componenti relative al clima economico e al clima futuro, infatti, le contrazioni registrate dall’indice di fiducia nei primi 8 mesi di quest’anno sono ancora più accentuate (rispettivamente -4,5 e -1,6 punti).

“I consumi delle famiglie sono, purtroppo, il grande malato della nostra economia – commenta Patrizia De Luise, Presidente di Confesercenti -. Non ci siamo mai ripresi dalla caduta della grande recessione, e l’ulteriore rallentamento previsto per il 2018 non può che allarmare. E non solo i commercianti: senza una ripartenza decisa del mercato interno, infatti, il nostro Pil – che per il 60% è fatto proprio di consumi – è condannato ad avere un andamento asfittico, soprattutto in un contesto di riduzione del valore aggiunto delle esportazioni come quello attuale”.

 

Difficoltà per le piccole imprese

“Con queste prospettive economiche, essere e rimanere una piccola impresa in Italia è sempre più un’impresa”, conclude De Luise -. “Come se non bastasse un’economia in netta frenata, il sistema Paese italiano sembra quasi diventato strutturalmente anti-impresa. Basti pensare alla pressione fiscale sulle PMI, già oltre il 60%. Ma c’è anche l’eccesso di burocrazia, un macigno che pesa 22 miliardi di euro l’anno, e una grave situazione del credito: nonostante il successo nella riduzione delle sofferenze, a causa della stretta a livello europeo delle varie Basilea, il sistema bancario sta smettendo di erogare finanziamenti alle piccole imprese: solo nell’ultimo anno sono spariti 12 miliardi di prestiti vivi alle attività economiche. Poi c’è la Bolkestein, che sta distruggendo il valore delle imprese ambulanti e degli stabilimenti balneari. Elementi che, insieme, formano un vero e proprio percorso ad ostacoli, che sta tramutando il fare impresa in una sfida di sopravvivenza. Serve almeno una svolta netta sul piano fiscale, che ridia fiducia ed ossigeno alle famiglie. O i consumi ed il nostro Pil rimarranno al palo”.

Piatti pronti freschi: funzionalità, gusto e leggerezza. L’analisi di IRI

Funzionalità e praticità nell’esecuzione: è a queste esigenze dei consumatori che i piatti pronti freschi si ripromettono di dare soddisfazione,  a differenza di quelli  surgelati e ambient il cui acquisto è maggiormente legato a fattori di convenienza e di stoccaggio.   Accanto alla sfera funzionale, più legata al consumo infrasettimanale, esiste però anche una sfera slegata dai concetti di tempo, che richiama il desiderio di appagamento di gusto e leggerezza. Grazie anche al continuo ampliamento dell’offerta a cui stiamo assistendo negli ultimi anni,  a questa categoria si associano numerosi fattori legati alla salute, alla qualità e all’esplorazione.

Nell’anno terminante a febbraio 2018, il mercato dei piatti pronti freschi ha registrato un giro d’affari pari a oltre 351mio€ (quasi 42 mila tonnellate in termini di volumi) con una crescita del 11.4%. Rispetto al totale Fresco che cresce con ritmi più modesti, i piatti pronti hanno conosciuto uno sviluppo eccezionale con un incremento di quasi 140milioni di Euro negli ultimi 3 anni (+18.4% medio annuo), arrivando a pesare nel 2017 il 3.1% sul totale comparto refrigerato a peso imposto. Molto diverse le dinamiche negli altri comparti dove i primi piatti ambient e surgelati alternano performance pressoché stabili o  leggermente negative  ormai da qualche anno (rispettivamente CAGR a valore ultimi 3 anni -0.7% e -0.4%). Il confronto quindi non lascia spazio a dubbi sul fatto che il fresco sia sempre più catalizzatore di attenzioni da parte del consumatore e delle industrie.

Mappa dei consumi

A trainare le vendite dei piatti pronti freschi è il Supermercato che sviluppa il 70% dei volumi e cresce del 15.6%. Anche Negozi di vicinato e Ipermercati mostrano una certa dinamicità, attestandosi su tassi di crescita rispettivamente del +10.7% e +8.3%. Per quanto riguarda le aree si registra un’importante polarizzazione dei consumi verso il Nord Ovest, che veicola il 44% del fatturato della categoria, mentre il Sud, risulta fortemente sotto dimensionato raggiungendo solo l’8% (media sul Fresco 15.7% del giro d’affari).

La categoria si compone di tre macro segmenti: Primi piatti (169 mio€) che vanno dalle leggere zuppe o insalate di riso/altri cereali, alle ben più sostanziose lasagne; Secondi piatti (161 mio€) che comprendono piatti elaborati come spezzatino o vitel tonnè ma anche i più semplici hamburger panati o non, fino ad arrivare al mondo dei piatti a base vegetale.  Infine i Contorni che sono un segmento ancora ristretto ma molto dinamico (20mio€ , +19.6%) dove troviamo principalmente  i Purè e altri contorni ricettati. Le recenti dinamiche di consumo legate alla ricerca del benessere e della naturalità e alla riduzione della carne hanno fatto sbocciare un’offerta di piatti pronti freschi sempre più articolata e variegata, arrivando ad oggi a più di 90 referenze medie a scaffale e superando le 120 negli ipermercati.

Molte aziende hanno investito in questo segmento inserendo nuovi marchi o ampliando linee di prodotto già esistenti al fine di diversificare sempre più l’offerta, tanto che nel corso degli ultimi due anni abbiamo assistito ad un forte aumento delle referenze medie a scaffale (+17 2016 vs 2015, +8 2017 vs 2016).

Il segmento Vegetale: il caso” Burger”

È evidente come il segmento del Vegetale abbia svolto un ruolo protagonista all’interno di questo sviluppo specialmente nei Secondi piatti che sono stati la tipologia di prodotti che hanno maggiormente beneficiato della dinamicità degli assortimenti, raggiungendo le 49 referenze medie a scaffale (+5). Rappresentando ormai il 45% dei volumi del totale secondi piatti freschi, il mondo vegetale viene identificato sempre meno come  alimento privativo e  riservato ad una nicchia ristretta di consumatori (vegani e vegetariani);al contrario viene associato a benessere e salute in generale. Questi prodotti sono inoltre oggetto di sperimentazione da parte dei consumatori. È proprio qui che l’innovazione di prodotto si concentra ricercando nella ricettazione e nelle nuove tipologie di prodotto la chiave per il successo.

Il fenomeno appena descritto mette in luce un aspetto sul quale è opportuno fare una riflessione ovvero il rallentamento del  Burger. Con oltre 90 milioni di Euro di fatturato (equamente divisi tra base vegetale e base carne) essi sono da sempre le star dei Secondi piatti sviluppandone il 55% del fatturato. Ed è proprio la recente difficoltà del segmento dei Burger vegetale (-1.2% negli ultimi 12 mesi) a frenare l’andamento positivo. Questo è  ancora più evidente se restringiamo lo sguardo all’ultimo semestre dove registriamo un -11.0%.  Nel segmento dove la concentrazione di brand e prodotti è più elevata (15 referenze medie a scaffale) diventa quindi sempre più importante differenziarsi e trovare modalità di competizione alternativa.

Primi piatti: il ruolo delle Zuppe

Anche i primi piatti beneficiano del crescente impulso al benessere che è maturato nel consumatore negli ultimi anni. In modo particolare le Zuppe, con un fatturato che supera i 97 milioni di Euro e una crescita del 16.2% rappresentano il 57% del segmento e ne trainano la crescita grazie anche alla combinazione di gusti appaganti e se da un lato l’offerta è sempre più eterogenea, dall’altro il vissuto del consumatore che approccia il mercato dei piatti pronti freschi è quello di poca convenienza, giustificata dalla qualità dei prodotti. La battuta di cassa di un Primo piatto si aggira sui 2.99€, passando dai 2.75€ di una Zuppa fino ad arrivare ai 3.72€ di una Lasagna. Si registra più variabilità all’interno dei Secondi piatti con prezzi medi per unità che vanno dai 2.30€ per un Hamburger fino ai 5.00€ per un arrosto o uno spezzatino di carne.

Il livello promozionale della categoria viaggia su tassi del 35% per i Primi e sul 40% per i Secondi. In generale le offerte speciali vengono percepite come stimolo ad un consumo più frequente e come un supporto alla sperimentazione, che favorisce gli acquisti di prodotti e ricettazioni diverse.

di Irene Adami– Client Service Account Manager IRI

Europa sprecona: il 29% dell’ortofrutta acquistata finisce nella spazzatura

Sono preoccupanti ma danno un crudo quadro della questione gli ultimi dati diramati dal JRC, il centro di studi scientifici interno alla Ue, sullo spreco dell’ortofrutta: secondo un articolo pubblicato di recente le famiglie dell’Unione europea generano circa 35,3 chilogrammi di rifiuti di frutta e verdura freschi per persona all’anno, 14,2 chilogrammi (circa un terzo) dei quali sarebbero evitabili.

Numeri in linea con i dati dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, che stima che circa un terzo del cibo prodotto a livello mondiale per il consumo umano venga sprecato.

I livelli di spreco maggiore riguarderebbe in particolare proprio frutta e verdura fresche, che contribuiscono a quasi il 50% degli sprechi alimentari generati dalle famiglie dell’UE. Ciò è prevedibile dato che costituiscono circa un terzo degli acquisti alimentari totali, parte della loro massa è immangiabile (ad esempio certi tipi di buccia) e sono altamente deperibili, ma anche prodotti relativamente economici.

Tuttavia, lo studio del JRC ha rilevato che i rifiuti evitabili potrebbero essere ridotti applicando strategie di prevenzione mirate e che i rifiuti inevitabili (parti non commestibili del prodotto) potrebbero essere gestiti in modo molto più sostenibile a livello della produzione e riciclato per essere usati nell’economia circolare.

I risultati di questo studio hanno implicazioni per le politiche sia sulla prevenzione sia sulla gestione dei rifiuti alimentari domestici. Il modello proposto può aiutare a stabilire le prassi di base e le differenze nella generazione di rifiuti tra Paesi, studiare gli effetti dei diversi modelli di consumo sulla generazione di rifiuti e stimare il potenziale di riutilizzo di rifiuti inevitabili in altri sistemi di produzione, che è di grande interesse da una prospettiva di economia circolare. Ma ha anche potenziali applicazioni più ampie, nella stima dei rifiuti generati da altri prodotti domestici.

 

Rifiuti evitabili e inevitabili: non tutti sprecano allo stesso modo

Gli autori hanno creato un modello per stimare la quantità di rifiuti domestici evitabili e inevitabili costituiti da frutta e verdura fresca prodotta dalle famiglie dell’UE. Il punto di partenza sono stati i rifiuti inevitabili (rifiuti derivanti da preparazione o consumo di cibo che non sono, e non sono mai stati, commestibili in circostanze normali) e rifiuti evitabili (cibo buttato via che era, ad un certo punto prima dello smaltimento, commestibile) calcolato per 51 tipi di rifiuti di frutta e verdura fresche in sei Paesi dell’UE (Germania, Spagna, Danimarca, Paesi Bassi, Finlandia e Regno Unito) per il 2010, e la quantità di frutta fresca e verdura fresca acquistate, consumate e sprecate (rifiuti evitabili e inevitabili) nel Regno Unito, in Germania e in Danimarca nel 2010. Le cifre sono state utilizzate per stimare gli sprechi inevitabili ed evitabili generati dalle famiglie dell’UE dal consumo di frutta e verdura fresca.

Secondo lo studio, ogni anno nell’UE si producono pro capite 21,1 chilogrammi di rifiuti inevitabili e 14,2 chilogrammi di rifiuti evitabili. In media, il 29% (35,3 chilogrami per persona) di frutta e verdura fresca acquistata dalle famiglie nell’UE-28 è sprecato, il 12% (14,2 choilogrammi) del quale era evitabile.

Gli autori hanno riscontrato grandi differenze nei rifiuti evitabili e inevitabili generati dai diversi Paesi a causa dei diversi livelli di comportamenti dispendiosi (legati a fattori culturali ed economici) e di diversi modelli di consumo (che influenzano la quantità di rifiuti inevitabili generati).

Ad esempio, sebbene gli acquisti di verdure fresche siano più bassi nel Regno Unito che in Germania, la quantità di rifiuti inevitabili generati pro-capite è quasi la stessa, mentre la quantità di rifiuti evitabili è più alta nel Regno Unito. Si è scoperto che i Paesi i cui cittadini spendono una percentuale maggiore del loro reddito per il cibo generano rifiuti meno evitabili.

Circa 88 milioni di tonnellate di cibo sono sprecate ogni anno nell’UE, con costi associati stimati a 143 miliardi di euro.

Dal 2009 a oggi -25% per le bevande analcoliche, consumi a 7,43 miliardi di euro

Bevande analcoliche, i volumi negli ultimi dieci anni sono calati vertiginosamente: -25% dal 2009 secondo un’indagine Trade Lab commisionata da ASSOBIBE, l’associazione di CONFINDUSTRIA delle imprese che producono e vendono bevande analcoliche in Italia, che misura il valore complessivo generato dall’industria dei soft drink. L’Italia si colloca al penultimo posto in Europa per consumi pro-capite di bibite gassate. Nonostante ciò, il settore occupa 80mila persone e ogni posto di lavoro diretto nelle aziende di produzione ha generato 14 posti di lavoro indiretti: 3 nella filiera a monte e 11 in quella a valle.

“La produzione e vendita di bevande analcoliche in Italia genera un valore complessivo, diretto e indiretto, di 4,9 miliardi di euro, pari allo 0,29% del PIL nazionale e contribuisce alle casse dello Stato per 2,3 miliardi di euro di entrate fiscali e contributive – afferma David Dabiankov, direttore generale di ASSOBIBE –. Nonostante una forte contrazione dei consumi, le aziende hanno comunque continuato a fare investimenti in innovazione, rafforzando l’impatto economico e sociale di attività importanti tanto per l’economia locale che nazionale.”

Dei 4,9 miliardi di euro di valore aggiunto, 800 milioni sono generati dalle imprese di produzione, 1,1 miliardi dalle imprese che forniscono materie prime al settore e 3 miliardi provengono dalle fasi di commercializzazioni di prodotti finiti. Per ogni euro di valore aggiunto generato dalle imprese di produzione, si genera un equivalente di 5,4 euro lungo la filiera, per un valore complessivo di 2,94 miliardi di euro. Il valore dei consumi ammontano a 7,43 miliardi di euro.

Il settore conta 80 aziende con 100 stabilimenti distribuiti in tutta la penisola che producono e commercializzano bibite gassate, apertivi analcolici, energy e sport drinks, tè pronto: una produzione presente sul territorio, con una maggiore concentrazione al Nord Ovest (42%), seguito dal Nord Est (28%), Sud e Isole (16%) e Centro (11%).

Le imposte sul reddito da lavoro (a monte, diretto e a valle della filiera) e da impresa ammontano a 1,2 miliardi di euro (53,6%), mentre l’IVA totalizza circa 1,1 miliardi di euro (46,4%). Le sole imprese produttrici contribuiscono all’entrate dello Stato con 182 milioni di euro, che derivano da imposte e contributi sul reddito da lavoro e da impresa.
LO studio ecidenxia anche come in Italia i consumatori pagano un’aliquota IVA tra le più elevate in Europa (22% rispetto ad una media del 10%), diversamente da altri alimenti che godono di aliquote al 4% o 10%.

Foto: rawpixel on Unsplash

Retail sportivo: il 2017 è stato l’anno delle grandi catene con più di 10 negozi

La gara si gioca tra pochi. Ovvero, tra quelli che possono contare su almeno 10 punti di vendita. Agli altri, il 90% degli operatori, la media matematica lascia le briciole o poco più. E’ la grande distribuzione a conquistare la maggioranza dei consumatori al momento dell’acquisto di attrezzi e abbigliamento dedicati all’attività fisica. A testimoniarlo, i dati pubblicati nello studio “La distribuzione degli articoli sportivi in Italia nel 2017”, condotto dalla società di ricerche di mercato Dimark. La survey non lascia dubbi: il settore è caratterizzato da una forte polarizzazione. Un club ristretto di 12 catene, che peraltro gestiscono solo l’11% dei pdv attivi nel settore, sviluppa ben il 48% del totale degli acquisti.

Come dire, insomma, che le grandi insegne recitano oggi la parte del leone. E questo grazie a una politica espansiva che si è focalizzata sui centri urbani di maggiori dimensioni e su assortimenti a minore tasso di specializzazione tecnica. E che ha visto una decisa e robusta accelerazione durante lo scorso anno. Anche in questo caso la conferma viene dai numeri: sempre secondo l’analisi fornita da Dimark, nel 2017 il saldo tra aperture e chiusure di negozi appartenenti alle catene risulta nettamente positivo rispetto al 2016, trainato da 49 inaugurazioni, cui si contrappongono soltanto 9 cessazioni di attività. Il che corrisponde a un’implementazione importante: negli anni più duri della crisi, dal 2013 al 2016, infatti, le insegne avevano mantenuto un atteggiamento prudenziale, non spingendosi mai oltre le 17 nuove aperture all’anno, a fronte peraltro di valori ben più alti corrispondenti alla voce “chiusure” (nel 2015 si toccò il punto più critico con 45 interruzioni).

Sport fashion e shopping experience

Ora, evidentemente, qualcosa è cambiato. Individuare che cosa, però, può non essere immediato. «Le ragioni alla base di questa ritrovata vitalità sono molteplici – spiega Manuela Viel, direttore generale di Assosport, l’associazione nazionale che, a monte della filiera, riunisce 140 aziende produttrici della sports industry, il cui fatturato aggregato raggiunge i 4,5 miliardi di euro -. Innanzitutto, si deve considerare il migliorato scenario economico complessivo. In secondo luogo, va tenuta in considerazione la sempre maggiore attenzione che a livello sociale viene riservata al wellness. Infine, occorre non dimenticare l’evoluzione del concetto di sport fashion, che ha comportato l’allargamento delle occasioni di utilizzo di capi un tempo specificamente destinati ad essere indossati durante le attività sportive. A tutto questo si deve poi aggiungere anche la capacità delle catene di creare all’interno dei punti di vendita percorsi evoluti di shopping experience, capaci di travalicare il puro acquisto per sconfinare nella sperimentazione sul campo delle referenze proposte, secondo un ricco carnet di iniziative e attività».

Solo teoria? Pare proprio di no, almeno a giudicare dalle indicazioni rilasciate dalle stesse insegne. Che, dati alla mano, confermano la crescita, come pure le motivazioni che ne sono alla base.

La strategia di Decathlon…

Così vale, ad esempio, per Decathlon. La catene francese ha visto nel 2017 il proprio fatturato italiano superare quota 1,6 miliardi di euro, grazie a un incremento del 7,2% rispetto all’esercizio precedente. Una progressione che ha trovato sostanziale riscontro anche nell’andamento quantitativo degli acquisti: gli scontrini omnicanali erogati – pari a 43.524.138 milioni – hanno infatti messo a segno una progressione del 7,4% rispetto al 2016.

La unit italiana del gruppo è così arrivata a contribuire per il 14% sul fatturato realizzato a livello globale. Un obiettivo raggiunto facendo leva principalmente su due direttrici di sviluppo. Da un lato, quella che rimanda alla rete fisica dei negozi sulla quale la catena ha continuato a scommettere e investire inaugurando nel solo 2017 6 nuovi punti di vendita, tutti nell’area del centro-nord del Paese. E su questa strada si continuerà a muovere anche nel 2018. Nei prossimi mesi – fa sapere l’azienda – saranno inaugurati altri 5 nuovi negozi che si aggiungeranno quindi ai 118 esistenti sul territorio nazionale. E che grazie a format diversi – si adotteranno perfino “taglie” piccole, da 125 mq – potranno presidiare anche i centri cittadini. La presenza sul territorio è infatti considerata dall’insegna imprescindibile, perché consente di stringere con il cliente una relazione capace di andare ben oltre la semplice, seppur basilare, transazione economica. “Nella nostra filosofia – spiegano da Decathlon – i punti di vendita sono diventati luogo di esperienza sportiva dove proporre non solo l’offerta più adatta alla pratica e il test dei prodotti prima dell’acquisto, ma anche la possibilità di praticare sport, attraverso l’organizzazione di eventi gratuiti o l’opportunità di seguire corsi. O ancora di convertire i punti della propria fidelity card in esperienze sportive in circa 1.500 strutture convenzionate per un totale di 9.500 attività prenotabili”. In una parola, i negozi diventano il canale in cui fare confluire un “mondo” di esperienze costruite intorno al brand.

Mondo che trova poi un fondamentale completamento nell’offerta digitale, ovvero nell’altro asset di crescita dell’insegna, capace di regalare anche nel nostro Paese non poche soddisfazioni a Decathlon: grazie ai 26,4 milioni di utenti unici registrati dal sito, la cifra d’affari digitale ha infatti raggiunto il 3,5% del fatturato generato dalla catena in Italia, in buona crescita rispetto al 3,25% registrato nel 2016.

… e quella di Cisalfa

A correre sul doppio binario rappresentato da negozi e web è anche la strategia adottata da Cisalfa Sport, catena specializzata presente in Italia con 143 punti di vendita, che ha archiviato il 2017 con un giro d’affari di 460 milioni di euro, di cui 380 fatturati da Cisalfa e 80 dal gruppo d’acquisto internazionale Intersport. Un risultato frutto di una crescita del 12% rispetto al 2016, che apre le porte alla possibilità della quotazione in Borsa.

«Sul fronte del retail – anticipa il direttore vendite di Cisalfa Sport, Boris Zanoletti – pensiamo, tra nuove aperture e chiusure, di arrivare a fine 2018 con un saldo attivo di 2 o 3 negozi. La nostra attenzione non è infatti focalizzata tanto sul mero sviluppo quantitativo, quanto sulla capacità di dare qualità alla nostra crescita».

E proprio in questa logica si colloca l’introduzione del nuovo format 3.0, al momento utilizzato per i negozi di grande metratura, che rappresentano circa il 10% della rete. «Si tratta di un layout basato sull’utilizzo di materiali ecologici e illuminazione led a basso consumo, che permette di fare dello shopping un’esperienza emozionale, ma al contempo virtuosa sotto il profilo dei prezzi – spiega Zanoletti -. Intendiamo così intercettare un pubblico diversificato, non più composto dal solo nucleo familiare, ma ormai allargato anche al target dei giovani, che trovano nella forza numerica e qualitativa delle nostre referenze un valido spunto d’acquisto».

Nuove mosse sono poi attese anche nell’ambito del presidio della Rete. L’azienda ha infatti messo sul piatto 5 milioni di euro per potenziare lo sviluppo del canale e-commerce che già oggi conta 5 milioni di visitatori l’anno capaci di generare una spesa media di 100 euro, e che proprio entro il 2018, è destinato a diventare un asset molto importante. «Gli investimenti digitali – afferma Zanoletti – ci stanno aprendo nuovi orizzonti, complicati e affascinanti al tempo stesso». Orizzonti che si inseriscono in un solco ben definito: offrire servizi declinabili sia nel virtuale sia nel negozio fisico. «Il cliente può acquistare online con consegna a domicilio, oppure scegliere il ritiro, senza spese di spedizione, in qualsiasi negozio sul territorio. E in caso di restituzione, si ha a disposizione l’opzione di reso gratuito online – un servizio non sempre usuale -, oppure la possibilità di rivolgersi direttamente in store», precisa Zanoletti.

Il vantaggio del web

Le indicazioni raccolte sul campo sembrano insomma andare nella stessa direzione: il web rappresenta oggi un canale più che significativo per il settore, destinato peraltro a mettere a segno ulteriori crescite. A patto però di saperne sfruttare appieno le caratteristiche. La seppure recente storia del canale digitale insegna, infatti, che il giusto approccio al mezzo e la capacità di recepirne con anticipo gli sviluppo futuri possono fare la differenza. Lo dimostra il caso di Maxi Sport, network lombardo che conta 3 punti di vendita nell’hinterland milanese e che in tempi non sospetti ha creduto nell’ecommerce facendone uno dei propri principali cavalli di battaglia. «Abbiamo inaugurato il nostro presidio di vendita online nel lontanissimo 2002 – ricorda Emanuele Sala, titolare e responsabile commerciale dell’insegna -, in largo anticipo quindi rispetto alla maggior parte dei player del settore. Un’intuizione che ha impresso un importante impulso al nostro giro d’affari: il web ci ha consentito infatti di ampliare il bacino di utenza all’intero territorio nazionale, con riflessi importanti sul fatturato, tanto che oggi le vendite digitali rappresentano il 30% dei 40 milioni di euro registrati nel 2017. Ma non è tutto. Sono proprio gli scontrini digitali ad apportare il principale contributo al tasso di crescita dell’azienda, che sempre nello scorso anno si è assestato in media al 20%».

Attenzione però a non cadere in facili entusiasmi: la rete è – e sarà – uno strumento irrinunciabile, ma altrettanto saranno i negozi fisici. Lo confermano le prossime mosse della stessa Maxi Sport «Abbiamo in programma nuove aperture di punti di vendita sempre nell’hinterland milanese – anticipa Sala -, che si affiancheranno a quelli già attivi in Lombardia, più precisamente a Lissone, Merate e Sesto San Giovanni».

Come dire, insomma, che la strada per la crescita passerà dalla capacità di trovare il giusto equilibrio tra le due anime: brick and mortar e digital.

 

 

 

 

di Chiara Bandini

In che tipo di negozio si passa più tempo? Risponde un’indagine Tiendeo

Quarantadue minuti in profumeria o in un negozio di beauty, possibilmente il martedì: è il top della permanenza di negozio e il giorno della settimana in cui più ci si attarda secondo Tiendeo Geotracking, che ha regstrato il comportamento degli utenti registrati in Italia dal 1 maggio 2018 al 31 luglio 2018.

Il portale leader per i cataloghi online e le offerte geolocalizzate ha realizzato uno studio con l’obiettivo di conoscere la gestione del tempo degli italiani nei diversi tipi di negozi fisici. Per realizzare lo studio, Tiendeo.it ha tenuto conto dei dati ottenuti attraverso il suo strumento TiendeoGeotracking che, grazie alle tecnologie di geolocalizzazione, permette di misurare in tempo reale il comportamento degli utenti durante il processo di acquisto, dal momento in cui sfogliano un catalogo online fino all’approccio al negozio fisico e per quanto tempo vi rimangono.

 

Specchio specchio… e intanto il empo passa!

Per quanto riguarda il tipo di negozio in cui trascorrono più tempo, troviamo al primo posto le profumerie e i negozi che vendono articoli di bellezza con una media di 42 minuti dedicati a questo tipo di acquisti. Seguono i negozi della categoria “giochi e neonati” (39 minuti) e i negozi dedicati a casa e arredamento (37,5 minuti).

Vanno meglio dei discount (28 minuti) i negozi di giardinaggio e fai-da-te (30 minuti). In effetti, il tipo di acquisti associati a questi punti vendita vengono effettuati giornalmente, e i consumatori solitamente hanno già definito i prodotti da acquistare prima di andare in negozio, quindi hanno bisogno di un minore tempo di permanenza.

 

Il 33% degli acquisti settimanali si concentra tra venerdì e sabato

Il sabato è il grande giorno dello shopping, come confermato dai dati ottenuti attraverso TiendeoGeotracking. Secondo lo strumento di Tiendeo.it, questo giorno è quello che registra il maggior numero di visite, accumulando oltre il 18% di tutte le visite settimanali. Tuttavia, il tempo di permanenza è più breve.

Su questo terreno è invece il martedì il giorno in cui gli italiani trascorrono più tempo nei punti vendita, anche se registrano solo il 13% delle visite totali. Questa cifra sembra indicare che gli acquirenti si sentano più a loro agio nei negozi quando c’è meno affollamento, prolungando la loro permanenza e facendo i loro acquisti con maggiore tranquillità.

 

In discount e ipermercati oltre la metà degli acquisti

E la Gdo? Niente paura, perché il 65% delle visite settimanali ai negozi viene effettuato in negozi discount e ipermercati, seguiti da negozi di computer e di elettronica e da negozi di casa e arredamento.

Se i consumatori desiderano fare i loro acquisti quotidiani con la massima tranquillità, farennero però bene a recarsi al supermercato il lunedì o il martedì, poiché questi sono i giorni in cui è presente il minor numero di persone. 

Mi Tienda: il business dell’enclave, dedicato esclusivamente al pubblico ispanico

I flussi migratori e la mobilità umana caratterizzano la nostra epoca e creano  specifiche opportunità imprenditoriali che, nel campo del retail, richiedono creatività e una particolare propensione al rischio. Il commercio è (da sempre) una relazione sociale fondata sull’empatia tra chi desidera possedere qualcosa e chi auspica di cederla con profitto. Parimenti, la diffidenza e il pregiudizio sono i maggiori nemici del commercio. È immediato comprendere, allora, che le ampie differenze culturali che esistono da tempo tra la robusta componente ispanica (40% della popolazione) e quella anglosassone del Texas (o Tejas nell’antica lingua Caddo) sono una complicazione ulteriore per una  catena che voglia operare nel grocery.

La storia

I supermercati per i latinos sono, negli USA, sempre più numerosi e molto dinamici. La loro clientela è più giovane della media, esprime bisogni non ancora saturati ed è dotata di una propria specifica cultura di consumo. Queste sono alcune delle ragioni per le quali la decisione della H.E. Butt Grocery, di aprire formati di vendita totalmente dedicati al pubblico ispanico è oltremodo interessante. Nel 2006, H-E-B completò la ristrutturazione  di un proprio superstore di 6000 m2 nei pressi di Pasadena, la cittadina a sud di Houston, dedicandolo totalmente alla comunità messicana ivi residente, che contava per circa il 70% della popolazione totale e battezzandolo Mi Tienda. A tale scopo vennero assunti 350 dipendenti tutti bilingue, incaricati di gestire acquisti e vendite autonomamente rispetto alla casa madre, la quale gestiva ormai 300 degli attuali 350 punti di vendita di vario formato. Il successo fu superiore alle attese e dunque l’esperimento divenne parte della strategia di lungo termine del gruppo, tenuto conto che il mercato è già presidiato da insegne grandi e piccole come El Rancho, El Rio Grande, Fiesta, Mi Pueblo, El Ahorro … Dunque nel 2011 venne aperto uno store gemello a Nord di Houston e nel 2012 un modello ibrido ispirato a questa tendenza, ad Austin. Nei prossimi anni i Mi Tienda dovrebbero divenire 4.

L’approccio giusto

Agli occhi dei latinos texani, va detto, l’intrusione in questo settore di H-E-B, una catena di “gringos” attiva sin dal 1905 e ora leader indiscusso del comparto grocery in Texas (con propaggini in Messico) e oltre 100.000 dipendenti per un fatturato di circa 22 miliardi di dollari, avrebbe potuto risultare inautentica. Al contrario, ed è questo l’aspetto affascinante dell’impresa, il management del gruppo ha saputo calarsi in quell’ambiente culturale delegando la gestione autonoma del nuovo formato a personale di quelle comunità.

Il proprio modello alimentare, com’è noto, è l’identificativo più forte e motivo di orgoglio di ogni minoranza e di ogni enclave etnica. Pertanto, la cura del dettaglio in ogni aspetto è fondamentale per immettere veridicità nella proposta a lei destinata.  Ebbene, pur non potendomi calare nell’habitus mentale di un latino, l’esperienza d’acquisto dentro Mi Tienda, mi è parsa del tutto paragonabile ad altre insegne più “veraci”, ma con una pulizia e un servizio al cliente meno curati. Ciò che colpisce è l’atmosfera calda, rumorosa di un vero mercato di quartiere seppur dentro una “big box”, con i suoi colori pieni, violenti e vibranti  e un sottofondo continuo e coinvolgente di musiche mariachi, norteña, ranchera. Il personale, che indossa le tradizionali guayabera, ovvero le camicie con ricami, interagisce con il pubblico ad alta voce, scherzando, consigliando e promuovendo i prodotti serviti al banco della macelleria, della pescheria, del forno e della gastronomia.

L’assortimento

Questa offerta, in particolare, appare espansa  rispetto ai supermercati più generalisti, in quanto l’acquisto di prodotti freschi si avvicina al 70% del totale grocery, dato che le famiglie hispaniche nutrono ancora diffidenza per il prodotto industriale confezionato. I loro nuclei familiari allargati (il 20% è costituito da 4 persone e il 23% da più di 5 persone) praticano ancora diffusamente la cucina in casa “from scratch”, preferendo ingredienti carnei e vegetali di base. Ne consegue che il reparto ortofrutta esibisce una ordinata massificazione, funzionale ad una rotazione del prodotto notevolmente più celere di quella degli altri classici supermercati con le loro eleganti esposizioni a piramide. Cambia ovviamente l’assortimento, in base al forte consumo della clientela di frutta fresca che annovera, naturalmente anche varietà esotiche come Feijoas, Mamey, Tamarillos, Atemoya, Tejocotes, Jicama, Breadfruit, Jackfruit, Guava e tanti tipi di Mango: Calypso, Ataulfo, Australian, Jumbo … Egualmente profonda è l’offerta di peperoni e chili quali Pods, Ghost, Pasilla, Shisito, Ancho, Habanero, Red Bell, Anhaim, Chilaca, Manzano, Guajillo, Poblano, Serrano, … oltre a tipicità (per noi) come i Nopales (pale di cactus) nettati dalle spine e vari tipi di mais Bianco, Giallo, Rosso, Blu, Nero, Viola.

Un’altra peculiarità si coglie nel lungo banco della macelleria che allinea, ordinatamente, oltre alle tante varianti di chorizo e di salsicce di produzione propria, 60 tagli con le varie porzionature delle carni avicole, suine e bovine. Nella cucina messicana ed in quella sudamericana non sprecano nulla. Troviamo dunque un’ amplissima selezione che, partendo dalle parti nobili del pollo, marinate, insaporite in vario modo e pronte da cuocere, arriva alle frattaglie, alla testa e alle zampe, così come accade per il suino. Impressionante è anche il corner del ‘pollo asado’ (a complemento della gastronomia) in grado di arrostire simultaneamente sulla graticola oltre 100 capi.

Elogio della panadeira

Altri indubbi punti di forza  sono costituiti dalla pasticceria e dalla panaderia con le sue 80 varietà di pane dolce, oltre ai più i classici Pan de elote, Buñuelos, Conchas, Pupusas e soprattutto tantissime tortillas fresche (di mais bianco e blu, alla fragola, all’ananas e al peperoncino) prodotte in loco, sebbene HEB sia dotata di un impianto in Corpus Christi che ne sforna 72.000 all’ora.

Altrettanto ricco è il reparto della gastronomia, collegato come in quasi tutti i supermercati americani alla Cocina, l’area della ristorazione in cui consumare tacos, torte, carnitas, tamales, chimichangas, menudos (stufati), tingas e poi le creme e le salse, tra le quali il celeberrimo mole,  dall’ampio menu di una cucina cubana e messicana sempre più apprezzate negli USA. Complementare ad essa è l’immancabile chiosco delle “aguas frescas”, un juice bar dove il cliente può dissetarsi con almeno una decina di bevande alla frutta fresca, ovviamente prodotte in-store, e altri succhi.

Il fascino del pdv fisico

Ovviamente pur nell’enfasi della tradizione non poteva mancare la partnership con Instacart e Shipt per la consegna degli acquisti a domicilio, anche se il pubblico latino preferisce ancora acquistare direttamente nel punto di vendita il quale, frequentemente, diventa teatro di eventi in occasioni di celebrazioni e di festività cattoliche.  In questo senso, Mi Tienda assolve a quel ruolo di aggregatore di una componente etnica che (più di quella afroamericana e anche di quella asiatica) contribuisce, per parte sua, al consistente mutamento linguistico, culturale e consumistico del mainstream degli USA.

 

 

 

di Daniele Tirelli

Tutti pazzi per il vintage: il design second hand in Italia vale 2,6 miliardi di euro

Sono cucina, armadio e divano i pezzi d’arredamento più ricercati in un comparto, quello dell’arredamento di seonda mano (o vintage che fa più fino) che sta letteralmente spopolando in Italia: secondo l’Osservatorio Second Hand condotto da DOXA per Subito, cresce del 164% il volume d’affari dell’arredamento usato nel 2017 ha registrato un volume di affari del valore di 2,6 miliardi di euro, una crescita del 164% rispetto al 2017.

La voglia degli italiani di ricercare pezzi unici con cui personalizzare la propria casa se una volta portava a razziare i mercatini dell’antiquariato, con l’avvento delle nuove tecnologie si è spostata sul web, con la compravendita dell’usato online a fare da traino alla tendenza. Secondo la quarta edizione dell’Osservatorio Second Hand Economy condotto da DOXA per Subito, piattaforma n. 1 in Italia per comprare e vendere con oltre 8 milioni di utenti unici mensili, solo l’online ha infatti un peso di 9,3 miliardi di euro sull’economia dell’usato, con il settore dell’arredamento che registra un volume di affari del valore di 2,6 miliardi.

 

Compravendita di usato per un italiano su due

La riscoperta del fai-da-te, la fusione tra vintage e moderno, l’espressione della propria identità attraverso gli oggetti che ci appartengono e circondano ogni giorno, sono i trend che stanno prendendo piede non solo nel campo della moda, ma anche e soprattutto nel design. Una volontà che va di pari passo con una maggiore attenzione al mercato dell’usato. Nel 2017 un italiano su due ha comprato o venduto oggetti usati, non solo per la possibilità di acquistare facendo un buon affare in termini economici (è la motivazione per il 70%), ma anche per trovare pezzi esclusivi, d’antiquariato o non più in commercio (35%) che permettono di rendere unico il quotidiano.

In questo scenario, si inserisce a pieno titolo il design e il ritrovato interesse per tutto quello che è in grado di donare un tocco di originalità all’ambiente domestico. Che si tratti di una cucina dallo stile rustico, un’applique anni 50 o un divano dal design contemporaneo, è innegabile che sempre più italiani si affidano all’usato per dare libero sfogo alla propria personalità e creatività.

 

L’identikit dell’appassionato

Oltre ai Millenials, che nel panorama della Second Hand Economy rappresentano il 59% degli utilizzatori di oggetti usati, quando si parla di arredamento, tra i protagonisti più attivi troviamo:

  • L’ingegnoso: uomo over 45, residente in prevalenza nel Centro Sud, a cui piace sentirsi un po’ artigiano, valorizzando pezzi unici grazie a un restauro accurato. Amante di prodotti che raccontino una storia, la Second Hand Economy rappresenta per lui un modo per potersi mettersi in contatto con persone che condividono le stesse passioni e l’online risulta essere il mezzo ideale per scovare pezzi di arredamento e articoli per la casa rari o difficili da trovare;
  • La giovane metropolitana: donna under 30, residente soprattutto nelle città del Nord, impiegata o libera professionista. Pienamente consapevole del valore sociale e ambientale della Second Hand Economy, sceglie l’usato soprattutto per la possibilità di cambiare spesso ed è soddisfatta quando riesce a trovare qualcosa di unico, moderno o vintage che sia, per sé o per la sua casa;
  • La smart chic: donna over 45, residente nel Centro Nord, vede l’usato come il modo perfetto per vendere, e reinvestire il ricavato al fine di finanziare il rinnovamento della casa, magari con l’acquisto di articoli di arredamento e mobili vintage unici e inimitabili.

 

80 milioni di ricerche

Nel 2017, nella categoria Arredamento e Casalinghi di Subito sono state effettuate oltre 80 milioni di ricerche. Ma cosa cercano gli italiani, quando si tratta di design second hand? Pezzi indispensabili, ma anche complementi in grado di dare carattere e personalità agli ambienti.

Nella Top Ten dei prodotti maggiormente ricercati, gli ambienti domestici che più vengono interessati dalla ricerca sono senza dubbio la cucina, il salotto e la camera da letto, i luoghi che si desidera rendere più personali, magari con un pezzo di antiquariato o vintage che spicchi e dia alla stanza un tocco più originale e autentico.

Tra le ricerche effettuate su Subito a livello nazionale al primo posto emergono le cucine, per le quali oggi è richiesto sempre di più un connubio tra antico e moderno che renda lo spazio meno freddo e più accogliente. Al secondo posto gli armadi, che in uno spazio personale come la camera da letto rappresentano uno degli articoli di arredamento a cui si presta maggiormente attenzione. Al terzo posto il divano, simbolo per eccellenza del relax davanti alla tv ma anche pezzo forte in grado di rivoluzionare il look del salotto. Seguono poi tavoli e sedie, che insieme alla cucina rappresentano la convivialità e devono sapere regalare una sensazione di familiarità, divani letto, oggi sempre più ricercati per chi ama avere ospiti, ma anche da chi vive in un monolocale e vuole coniugare funzionalità e stile. Chiudono la top ten credenze, librerie e scrivanie, camerette.

Nel 2017, sono stati 4,2 milioni gli annunci pubblicati nella categoria Arredamento e Casalinghi di Subito. Le regioni più attive per numero di annunci vedono al primo posto la Campania con il 16,8% di annunci, al secondo la Lombardia con il 15,8%, seguite da Veneto (10,7%), Lazio (10,6%) e Piemonte (7,8%).

Foto: Csongor Schmutc on Unsplash

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