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Torna l’Osservatorio Non Food. Appuntamento il 29 giugno

La tredicesima edizione dell’Osservatorio Non Food di Gs1 Italy | Indicod-Ecr viene presentato al Piccolo Teatro Grassi di Milano il 29 giugno. Si ripete quindi un appuntamento che negli anni è diventato un must per la business community poiché, ogni anno, riesce a dare una lettura approfondita dell’evoluzione e delle trasformazioni dei canali distributivi e delle modalità di acquisto per i prodotti non food.

Nella passata edizione l’indagine condotta da Gfk Eurisko  si è concentrata sugli orientamenti e le attese dei consumatori nei confronti del processo di acquisto nei diversi settori che costituiscono il non food.

Un comparto che negli ultimi anni ha subito profondamente i colpi della riduzione degli acquisti da parte dei consumatori e, contemporaneamente, della crescita del canale online, anche se, è stata poi la conclusione della ricerca “se l’acquisto finale avviene ancora prevalentemente nei punti vendita fisici, in realtà digitale e fisico, combinati in diverse soluzioni, permeano l’intero processo d’acquisto del consumatore: uno completa l’altro”.

Quest’anno, oltre alla presentazione dei risultati dell’Osservatorio,  tradizionalmente affidati a Trade Lab, sono previsti interventi di esperti sui trend del settore non food, come Fabrizio Valente di Kiki lab, e case history raccontate da esponenti di aziende leader: Carrefour, Ikea, Leroy Merlin, Kiki-Lab.

Paradosso ortofrutta: ne mangiamo meno di quanto pensiamo, ma il trend è in crescita

Tutti pazzi per frutta e verdura? Fa bene, lo dicono tutte le ricerche, protegge da tumori e malattie cardiovascolari. Gli chef stellati l’hanno ormai rivalutata e la propongono come il nuovo caviale. Eppure, ne consumiamo meno di 15 anni fa. Lo hanno rivelato a un convegno Sg Marketing a Fruit Innovation.

Eppure, secondo Claudio Scalise di Sg Marketing “se l’intento è quello di creare valore all’ortofrutta non dobbiamo pensare di rincorrere i volumi che si sviluppavano 10-15 anni fa. Negli ultimi anni i componenti delle famiglie sono calati, abbiamo assistito ad una destrutturazione dei pasti e un cambiamento di consumo con una progressiva razionalizzazione delle quantità e una riduzione degli sprechi, dovute principalmente alla crisi. Il cibo è tornato al centro delle relazioni attraverso programmi tv dedicati e al successo degli chef, a cui si aggiunge un numero crescente di community dedicate al food”. Senza dimenticare il boom del vegetarianesimo, che in Italia conta oggi 8 milioni di seguaci. Un panorama che consente di guardare al futuro dell’ortofrutta con ottimismo.

La conferma viene da un’analisi consumer condotta da Sg Marketing sul comportamento del consumatore nei confronti dell’ortofrutta nel punto vendita. Che rileva un ruolo dell’ortofrutta sempre più importante nel pasto del futuro. I numeri parlano di una progressiva riduzione del consumo di carne a favore dei legumi, e della sostituzione dei carboidrati con frutta e ortaggi. La percezione dei consumatori ad un aumento degli acquisti ortofrutticoli e ad un riavvicinamento alla categoria è dovuto, secondo lo studio, all’accresciuta attenzione a temi quali il salutismo e il benessere, al “fattore vegan” e alla consapevolezza che il consumo quotidiano di ortofrutta sia insufficiente. Prezioso il contributo fornito da un panel di insegne nazionali che hanno portato la loro testimonianza sul lavoro effettuato nella valorizzazione dell’ortofrutta nei loro punti vendita, una categoria strategica per la grande distribuzione, dove avviene il 66% degli acquisti di frutta e verdura.

Ortofrutta in Gdo tra mercato, comunicazione e territorio

Come gestisce la Gdo il reparto ortofrutta? Nadia Caraffi, category ortofrutta di Coop Centrale Adriatica, parla delle politiche adottate dalla catena incentrate su territorio, tradizione, lavoro e gusto per dare valore al comparto ortofrutticolo, anche attraverso la formazione ad hoc di addetti al reparto. A livello commerciale Caraffi sottolinea l’assenza di offerte a volantino per l’ortofrutta (a parte IV gamma e prodotti trasformati) mentre si preferisce puntare su prezzi convenienti tutti i giorni. Massimo Silvestrini, direttore sviluppo vendite e formazione PFT Market di Carrefour, ha presentato il format studiato per valorizzare l’ortofrutta, “reparto di benvenuto” all’interno dei punti vendita del retailer, puntando su differenziazione dalla concorrenza (con fornitori locali, servizio ad hoc per le eccellenze, qualità, ricerca delle eccellenze ortofrutticole, esposizione valorizzante) e la modernità (strutture innovative). Gian Marco Guernelli, category manager ortofrutta di Conad, ha parlato delle linea Sapori&Dintorni che, attraverso il legame con la territorialità e l’attenzione alla qualità, punta a rappresentare sul punto vendita la regione, il territorio e la tradizione. Gabriele Nicotra, direttore acquisti di Unes Supermercati, ha raccontato come la catena distributiva organizza nei punti vendita gli spazi del reparto ortofrutta, luogo di commercio e comunicazione di progetto e allestito come un mercato con l’obiettivo di soddisfare le esigenze del cliente.

Segnali di tenuta per gli alimenti surgelati. Bene carne, pizza e secondi pronti

Dal consuntivo 2014 gli alimenti surgelati mostrano segnali di tenuta. Lo afferma l’Istituto italiano alimenti surgelati, rilevando che i surgelati si mantengono stabili grazie a innovazione di prodotto, contenuto di servizio e qualità dell’offerta.

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“Si avverte una leggera ripresa – afferma il Presidente dell’Iias Vittorio Gagliardi – sulla spinta delle azioni del leader di mercato, non solo a livello pubblicitario ma anche nel campo dell’innovazione di prodotto, facendo da traino a tutto il settore. Il consumatore risente indubbiamente della crisi, ma si osserva comunque una crescita dopo un biennio negativo che aveva interrotto una serie positiva, anche a doppia cifra, durata più di vent’anni”.

“La maggior novità del settore – prosegue Gagliardi – riguarda il boom dell’utilizzo del forno a microonde: se negli anni ’80 la penetrazione di questo elettrodomestico era del 4 – 5%, nell’ultimo quinquennio è salita al 30%, a dimostrazione che i nuovi comportamenti alimentari vedono nel surgelato un indispensabile alleato.
Un certo favore da parte dell’acquirente deriva anche dalla pressoché totale eliminazione di scarti e sprechi. Merito anche questo dell’innovazione, sia nei prodotti che nei metodi di conservazione, nel packaging e nei sistemi di refrigerazione, apportati dalle aziende del settore, in un continuo sforzo di sviluppare soluzioni in linea con i principi stessi espressi da Expo, ovvero la riduzione dello scarto e l’energy saving. È premiante – conclude Gagliardi – l’innovazione funzionale, ovvero volta al soddisfacimento delle nuove esigenze di consumo, trainando investimenti e obiettivi delle aziende del comparto, alimentando contestualmente aspettative positive per il futuro, pur con una giusta dose di moderazione e senza credere ad un repentino e miracoloso slancio, quanto piuttosto e più concretamente ad una graduale ripresa di un settore alimentare così importante quale quello degli alimenti surgelati”.

Tra i plus riconosciuti dai consumatori ai surgelati, che hanno da poco compiuto 50 anni di presenza sul mercato italiano, vi sono la componenti di servizio e di praticità, l’assenza di conservanti, la velocità e facilità di preparazione, l’offerta di prodotti destagionalizzati e delocalizzati, lo stoccaggio domestico nel freezer.

Quanto alle tipologie di prodotto, i vegetali preparati hanno ripreso quota, spinti dai loro valori nutrizionali e salutistici. I prodotti ittici panati, dal canto loro, sono in progressiva crescita, a riprova del fatto che i consumatori cercano proposte accattivanti e veloci da cucinare. Anche le pizze confermano il trend in rialzo e sono sempre più considerate come piatto unico, personalizzabile e a buon prezzo. In questa generale tendenza alla rivalutazione dei prodotti a più alto contenuto di servizio, va segnalata la performance dei piatti ricettati, o meglio dei secondi; ciò segnala un insopprimibile bisogno del consumatore moderno a ricercare prodotti salva tempo, dal profilo moderno e gustoso in grado di offrire una buona qualità globale. E tale tendenza è in costante crescita nell’intero continente europeo.

Tesco ridurrà lo zucchero del 5% ogni anno nelle sue bevande gassate

Foto: Tesco.

Un impegno preciso e a medio termine: è quello che avrebbe preso Tesco per ridurre lo zucchero delle bevande gassate a marchio privato. Secondo il sito The Grocer che parla di “una possibile svolta nella guerra allo zucchero” l’impegno del retailer, che nel Regno Unito vende quasi una bevanda gassata su tre nella GDO, riguarderebbe la riduzione del 5% ogni anno sull’intera linea di soft drinks. Il programma di riduzione degli zuccheri, il primo da parte di un’insegna della grande distribuzione, segue una intensa campagna di sensibilizzazione da parte di enti governativi e associazioni come Action on Sugar, che si è posta l’obiettivo di ridurre del 40% la presenza di zucchero in cibi e bevande confezionati entro il 2020. L’eccesso di zuccheri viene legato a grossi problemi di salute quali obesità e diabete di tipo 2.

Il retailer non è nuovo a operazioni di questo tipo: già all’inizio dell’anno aveva deciso di rimuovere i dolci dalle avancasse. Un’attenzione al cliente e alle esigenze salutiste sempre più sentite, ma anche un’operazione di marketing e immagine vitale in un momento assai difficile per Tesco, che è stato duramente colpito dallo scandalo dei bilanci truccati l’anno scorso nel Regno Unito e sta chiudendo anche gli ultimi punti vendita non-food Homeplus. In ogni caso, dopo questa mossa anche le altre insegne potrebbero essere spinte a intraprendere azioni simili.

Nielsen: torna a crescere la fiducia dei consumatori nel primo trimestre

Dopo la produzione industriale Istat anche l’indice di fiducia dei consumatori rilevato da Nielsen nel suo Global Consumer Survey torna a crescere e fa sperare in una inversione di tendenza, che dovrà essere confermata, per dichiararci fuori dalla crisi, anche nel secondo trimestre. I dati però dicono che posizionandosi a quota 57, l’indice di fiducia dei consumatori si attesta al livello del secondo trimestre del 2011, ma allora era in caduta libera.

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Rimane tuttavia ancora ampio il gap con la media UE (77 punti). L’Italia si avvicina alle posizioni di Spagna e Francia (rispettivamente a 61 e 59) mentre Germania e Gran Bretagna detengono ancora il primato nel Vecchio Continente (rispettivamente a 100 e 97). Il 93% della popolazione, d’altra parte, ritiene il Paese ancora in crisi (vs 95% di un anno fa), anche se il 16% dichiara che se ne potrà uscire nei prossimi 12 mesi (vs. 12%). In sensibile crescita la preoccupazione legata alla possibilità di attacchi terroristici nel nostro Paese (+ 8 punti verso il primo trimestre 2014), rilevata presso il 9% degli intervistati.

«Ci troviamo di fronte a un dato in decisa controtendenza. Questo, infatti, passa da 45 punti rilevati nell’ultimo trimestre 2014 a 57 punti del primo 2015. Ricordiamo che nel trimestre precedente la tendenza era ancora in calo (-2 punti) », ha dichiarato l’amministratore delegato di Nielsen Italia Giovanni Fantasia commentando i risultati dell’indagine.

«Le ragioni di questa inversione – ha proseguito Fantasia –  vanno ricercate innanzitutto nella realizzazione di alcune riforme strutturali messe in agenda dal Governo in questi mesi. In secondo luogo nella ripresa economica sia a livello globale che in Europa e in Italia, grazie ad un mantenimento a bassi livelli del costo delle materie prime, e al miglioramento, seppure timido, del mercato del lavoro. In terzo luogo nell’attivarsi della domanda nei consumi, rilevata soprattutto nella Gdo. In altri termini, si assiste al verificarsi di condizioni che permettono alle famiglie di divenire, almeno in prospettiva, fonti di reddito e non più meramente centri di costo. Il vero problema che ora si pone è quello della tenuta di questa ripresa. Una risposta l’avremo dalle prossime rilevazioni della fiducia nel secondo e terzo trimestre. Solo un consolidamento della domanda nei prossimi mesi potrà metterci in condizione di ritenere che ci siamo lasciati la crisi alle spalle».

Più in dettaglio, ecco alcune pillole dell’indagine.

Prospettive lavorative: si prospettano buone per il 13% degli italiani, rispetto al 7% registrato nel 1° trimestre dell’anno scorso.

Finanze personali: la percezione è ora positiva per il 21% del campione, rispetto al 14% su base tendenziale. Sono il 17%, inoltre, gli italiani che ritengono sia il momento di fare acquisti (+5 punti rispetto al 1° trimestre 2014).

Mettendo a fuoco le preoccupazioni degli intervistati, si registra che il 28% del campione si dichiara ancora in apprensione per la stabilità occupazionale, con dato invariato rispetto alle rilevazioni del primo trimestre 2014. Guerra e immigrazione rimangono preoccupazioni rispettivamente per il 4 e 5% della popolazione (rispettivamente all’1 e 2% lo scorso anno). Il 5% si dichiara preoccupato per la propria situazione debitoria, il 6% per la salute, il 9% per l’economia.

Atteggiamenti verso la spesa: dopo gli acquisti per i beni necessari, il 37% degli italiani si orienta a destinare risorse per il risparmio. Seguono quanti intendono comprare vestiti o concedersi una vacanza (entrambi al 27%), mentre il 22% dichiara l’intenzione di volere spendere per il divertimento fuori casa. Si attesta al 25% la quota della popolazione che rimane senza soldi alla fine del mese.

Orientamento al risparmio: si rilevano alcuni segnali di un attenuamento dell’intenzione di tagliare le spese rispetto ai dati dello scorso anno, benché il 72% prosegua a monitorare le uscite finanziarie e la voce risparmio. Spende di meno per l’abbigliamento il 56% del campione (vs. 63%) come per i pasti fuori casa (vs 61%), il 40% per vacanze e gite fuori porta (vs. 46%), il 37% per l’utilizzo dell’auto (vs. 42%).

Nello stesso tempo, tuttavia, si osserva che la crisi ha influenzato in maniera permanente le abitudini di spesa degli italiani. Tanto è vero che è cresciuta la quota di coloro che dichiarano l’intenzione di proseguire a risparmiare sulle bollette di luce e gas (26% vs. 22% del 1° trimestre 2014) e di comprare i prodotti alimentari più economici (23% vs. 20%).

Sono infine il 20% (vs 25%) gli italiani che porranno attenzione sulle spese per ristoranti, e il 19% (vs. 22%) su quelle per nuovi abiti.

Carne di pollo aiuta la dieta e la salute secondo Nutrition Foundation Italy

Consumi di pollame, salute e benessere. Al rapporto tra questi tre temi è dedicato il il primo Documento di Consenso sul ruolo delle carni bianche in un’alimentazione sana ed equilibrata pubblicato da Nutrition Foundation of Italy (NFI), coordinato da Andrea Poli e Franca Marangoni con il supporto di esperti nazionali, con il contributo di Unaitalia (Unione Filiere Agroalimentari Carni e Uova).

In Italia i consumi delle carni avicole rappresentano circa il 25% del consumo totale di carne e sono molto al di sotto della media europea; il consumo di pollo, escludendo gli altri volatili, è pari a 13,6Kg l’anno pro-capite, contro i 17,8 Kg medi in Ue (dati Unaitalia e AVEC 2014).

Socondo il Documento di Consenso – che riassume e i dati più solidi descritti in letteratura al riguardo – le carni avicole sono un perfetto alleato per la salute e il benessere fisico ad ogni età, il cui consumo, in un’alimentazione varia ed equilibrata, si associa ad effetti neutri o favorevoli sul rischio delle principali patologie degenerative: come le malattie cardiovascolari, alcuni tipi di tumori e il diabete.

“Con la realizzazione di questo documento di consenso – spiega Andrea Poli, presidente di NFI – colmiamo una lacuna di carattere scientifico sul tema delle carni avicole e sul loro ruolo nell’ambito di una corretta alimentazione. Il documento conferma come le carni avicole siano caratterizzate da un profilo nutrizionale decisamente favorevole: gli studi epidemiologici che abbiamo analizzato mostrano come un adeguato consumo di carni di pollo, in associazione ad una dieta ricca di vegetali, con un apporto moderato di grassi, e ad uno stile di vita attivo, possa facilitare il mantenimento del giusto peso corporeo, con effetti complessivamente neutri o favorevoli sul rischio delle principali malattie degenerative tipiche della nostra società”.

“Ma il livelli di consumo di queste carni – aggiunge Poli – sono tuttora contenuti nel nostro Paese: un loro impiego più ampio, nell’ambito di una corretta alimentazione, con un apporto adeguato di proteine, sia vegetali che animali, consentirebbe un miglioramento della qualità complessiva della dieta nella popolazione italiana”.

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Il profilo nutrizionale delle carni avicole, infatti, comprende una componente proteica definita “nobile” che presenta cioè tutti e nove gli amminoacidi essenziali che l’uomo non è in grado di sintetizzare e che deve assumere attraverso la dieta. Hanno poi un basso contenuto di grassi (dall’1 al 9% a seconda dei tagli e della presenza della pelle) e sono soprattutto mono e polinsaturi. Contengono inoltre vitamine e minerali.

Anche per la salute, conclude il documento NFI, le carni avicole svolgono un ruolo neutro o addirittura positivo: esclusa qualsiasi correlazione tra l’assunzione di pollame e la mortalità per cause cardiovascolari, anzi consumare carni avicole, in alternativa ad altre fonti proteiche, potrebbe rappresentare una strategia utile per controllare il rischio coronarico. Esclusa inoltre ogni relazione tra il consumo di carni avicole e lo sviluppo della malattia diabetica di tipo 2, così come il consumo di carni bianche è stato associato a una riduzione del rischio di alcuni tumori.

Infine le carni avicole, secondo il documento, sono un alimento ideale per bambini, donne in gravidanza, anziani e sportivi.

Alla elaborazione del documento hanno collaborato alcuni dei principali rappresentanti della comunità clinica e nutrizionale italiana.

I consumatori e la carne in un’indagine Swg a Eurocarne

Di fronte a un consumatore che alza il livello delle richieste di garanzia, sicurezza, informazione e rassicurazione, il settore delle carni, e in particolare quello della do, deve ripensare agli strumenti dell’offerta se vuole mantenere i livelli di consumo che, oggi, sono in diminuzione per quanto riguarda la carne bovina e domani potrebbero toccare anche quella suina.

Secondo l’indagine presentata da Swg (“la prima indagine completa negli ultimi tre anni con l’obiettivo di sostenere i  consumi di carne”, ha affermato il presidente di Verona Fiere Ettore Riello) rispetto a frutta e verdura, le cui intenzioni di consumi nei prossimi 5 anni indicano un aumento medio mensile, per la carne il futuro è ambivalente. Rimarrà sostanzialmente stabile il consumo di carne avicunicola (da 7,54 a 7,61 atti di consumo dichiarati al mese), mentre potrebbe subire una flessione la carne suina (da 4,95 a 4,63) e quella bovina (da 6,47 a 5,74).

In termini generali, parlando comunque di intenzione al consumo, salgono i legumi, la frutta e la verdura e scendono i carboidrati. La propensione al consumo di carne cambia, con un saldo comunque positivo (+26,8%) per quella avicunicola e negativa per bovino (-13,6%) e suino (-24,7%).

Carne, perché si? Chi manifesta una propensione al consumo di carne lo fa per differenti ragioni legate alla sfera salutistico-funzionale ed edonistica, considerando tale categoria un alimento essenziale per una dieta equilibrata. In particolare, nel caso dell’avicunicolo per il profilo dietetico della carne (53,8%) associato al «piacere di gusto» (40,2%), mentre per la carne bovina le motivazioni trainanti attengono al peculiare apporto proteico (40,2%) e nutrizionale (56,4%); nel suino la propensione al consumo è sostenuta dalla bontà gustativa (53,8%), che fa il paio con la valenza nutrizionale (32,7%).

Anche chi ha manifestato una propensione al consumo, però, evidenzia dei freni di natura essenzialmente economica, a partire dal prezzo elevato (che raggiunge addirittura il 61,5% per il bovino) o dall’assenza di promozioni accattivanti (23,1% sia per la carne bovina che per quella suina, 20,1% per l’avicunicolo). Altro aspetto rilevante attiene all’area dell’“insoddisfazione” nella fase del consumo data dalla scarsa resa in cottura (il 28,5% nel caso dell’avicunicolo), in contrasto con le aspettative di base.

Carne, perché no? Si ispirano a motivazioni di natura salutistica o dietetica quanti invece hanno manifestato in partenza avversione al consumo di carne, dichiarando la volontà di ridurne il quantitativo. Lo afferma il 64% degli intervistati, con riferimento alla tipologia di carne suina, seguita dal 61,5% del bovino e dal 46,3% dell’avicunicolo. Pesano anche i dubbi sulla salubrità del prodotto, che toccano il 53,7% per la carne avicunicola (43,7% per quella bovina, 32,3% quella suina).

I canali d’acquisto. Per quanto concerne i canali d’acquisto, prevale la grande distribuzione (supermercato o ipermercato), seguita dalla macelleria. Le percentuali, però, cambiano a seconda della tipologia di carne scelta. Se il 73,7% degli intervistati si affida alla gdo quando deve comprare carne bianca, tale percentuale scende al 68,6% per gli acquisti di carne bovina (dove in parallelo sale il gradimento del negozio tradizionale al 46 per cento) e al 69,9% per la carne suina.

Differenziata è l’aspettativa sulla qualità del prodotto, in base al luogo di acquisto: nella macelleria, per tutte le tipologie di prodotto, la bontà attesa, ma anche quella percepita, è più elevata rispetto alla gdo o al discount.

Pregi e difetti della Gdo. Fra i pregi del supermercato, i responsabili degli acquisti intervistati hanno indicato i fattori prezzo (inferiore rispetto alla macelleria, presenza di offerte e promozioni), assortimento (maggiore scelta, ampio smercio/freschezza, praticità delle confezioni, visibilità del prodotto), garanzia (sensazione di maggior controllo sull’origine) e servizio (non si fa la fila/estensione oraria), mentre fra le criticità i consumatori hanno menzionato la qualità (diffusa insoddisfazione per la qualità della carne di manzo nella gdo) e il servizio (manca qualcuno a cui chiedere delucidazioni/consigli sulla carne).

Imparare dalle macellerie? Scenario differente per la macelleria tradizionale. I punti di forza individuati dagli intervistati sono risultati essere assortimento (qualità migliore e carne più selezionata, ma anche assenza di carne extra-europea) e servizio (consigli sul taglio di carne e modalità di cottura, servizio dedicato, possibilità di prenotare tagli o carni speciali, rapporto di fiducia, maggiore riguardo se frequentato con assiduità); al contrario i fattori di insoddisfazione sono stati individuati negli elementi prezzo (più alti, nessuna promozione), garanzia (tracciabilità meno visibile) e altri elementi di servizio (minor controllo sulle quantità, si perde tempo in fila, se il rapporto non è costante il trattamento può essere scadente, imbarazzo a rifiutare una carne che non convince).

Le informazioni tra etichette e internet. Tra le informazioni in etichetta nella gdo, il consumatore si mostra interessato a specifici contenuti sul tipo di allevamento, sull’alimentazione e l’età dell’animale alla macellazione. Elementi giudicati di rassicurazione rispetto alla carne e distintivi della reale qualità del prodotto acquistato. Allo stesso tempo, anche la tipologia del taglio carneo; la fascia di prezzo e la provenienza, magari con indicazioni sul luogo di allevamento, le certificazioni di prodotto, il prezzo per porzione.

La preparazione delle carni è un elemento sul quale riflettere, perché accanto ai «consigli della mamma», ai quali ricorrono il 43,4% degli intervistati in caso di dubbio sulle modalità di gestione e cottura, avanza la ricerca autonoma di informazioni su internet (28,7%), soluzione che scavalca addirittura l’aiuto del macellaio (27,3 %).

Riflessioni sul packaging. Quanto alla confezione, chi acquista carne compra preferibilmente nel vassoio tradizionale o termosaldato (se nella gdo) o il prodotto sfuso (se si rivolge al macellaio); in particolare il vassoio termosaldato viene percepito come il più sicuro in termini di igiene alimentare. Lo skin pack, invece, è più utilizzato all’estero rispetto all’Italia.
Del resto considerando la gestione delle carni dopo l’acquisto si dovrebbe pensare a diverse opzioni di confezionamento. Per avicunicolo e suino, le carni vengono spesso acquistate in quantitativi superiori alle necessità quotidiane, per cogliere le opportunità promozionali che quasi tutti gli intervistati ammettono di cercare. Al contrario, la carne di manzo viene acquistata e consumata direttamente.

Due comportamenti che richiederebbero soluzioni diverse anche in termini di confezionamento: un packaging di grande formato pre-porzionato per suino e avicunicolo, una logica di skin pack pre-porzionato per la gestione degli acquisti di carne bovina.

Bevande, un 2015 in movimento tra mutati stili di vita e nuove esigenze

Foto: Assobirra.

Come va il settore, ampio e diversificato, delle bevande? I dati di Tuttofood ci dicono che, dopo un biennio difficile, dall’inizio del 2015 si sta assistendo ad una tenue crescita non generalizzata, che viene comunque ancora accolta con prudenza.

Secondo i dati di IRI, Il comparto delle bevande nelle vendite nel canale moderno è stato in forte caduta nell’ultimo biennio, con una perdita del 3,3% a volume e del 3,1% a valore. A livello di consumo, infatti, la razionalizzazione ha pesato fortemente su questo comparto. Qui hanno agito in forma combinata sia fattori legati al reddito, sia la crescita dei prezzi e, per ultimo, le stesse anomalie climatiche che hanno compromesso il mercato nel pieno della stagione estiva. Tuttavia, parte del calo è strutturale ed ascrivibile al cambiamento dello stile di vita delle famiglie che sta penalizzando soprattutto il mondo delle bevande gassate. In questo anche il progressivo invecchiamento della popolazione gioca un ruolo non trascurabile nel lungo periodo. Per l’anno in corso si stima un calo più limitato (sempre al netto di possibili anomalie del clima) anche grazie al raffreddamento dei prezzi medi al dettaglio.

L’acqua minerale si compra in GDO
Passando alla bevanda principe, l’acqua, i dati di Mineracqua parlano di un 2014 positivo, con una crescita delle vendite dell’1,4% rispetto all’anno precedente, nonostante un’estate tutt’altro che torrida. È cresciuta la produzione, con 12 miliardi e 550 milioni di litri, contro i 12 miliardi e 100 milioni di litri del 2013.
Rispetto ad altri settori, qui il consumo interno fa ancora la parte del leone, con una proporzione di 10 a 1 rispetto all’export: i consumi interni sono infatti stati di 11 miliardi e 400 milioni di litri contro le esportazioni, attestatesi a 1 miliardo e 150 milioni di litri, comunque in crescita del 9,2%, rispetto al 2013.
In Italia si beve più acqua minerale: il consumo pro-capite è passato da 167,5 litri nel 2013 a 190 litri nel 2014. Tra i prodotti, le acque lisce rappresentano il 66% della produzione totale, contro il 18% di quelle frizzanti e il 16% delle effervescenti naturali.
Ben il 71% della produzione è venduto attraverso i canali Iper/Super/ Superettes/Discount, mentre il canale HoReCa/Vending è al 18%. Il dettaglio tradizionale si attesta all’11%.

Birra settore in evoluzione
Nei primi 10 mesi del 2014 le vendite delle aziende associate ad AssoBirra che comprende anche alcuni importanti importatori (circa i ¾ delle vendite totali in Italia) sono state pari a 11 milioni e 244milla ettolitri di birra venduti. Un dato in calo dello 0,58% rispetto ai primi 10 mesi del 2013.
Il dato non è positivo perché negli ultimi 10 anni il mercato della birra in Italia è stato sostanzialmente stabile. L’attuale contesto vede l’aumento delle accise (+30% in 15 mesi) influire negativamente sull’andamento del mercato. Una contrazione dei consumi che, secondo Assobirra, rischia di ridurre gli investimenti delle aziende in Italia.
Dopo gli aumenti delle accise del 2013 e del 2014, si è riscontrato un forte aumento della pressione promozionale sostenuta dalle aziende per restare competitivi nella grande distribuzione, che ha fortemente contratto i ricavi dei produttori. Oggi, secondo i dati IRI, la pressione promozionale sul prezzo è del 44,1%, un dato in crescita dell’8,6% negli ultimi 4 anni (nel 2010 era il 35,5%), rispetto ai beni di largo consumo nel loro complesso, per i quali la pressione promozionale si attesta nel 2014 al 28,5%.
Cambiano i consumi, che si spostano dal Fuori Casa all’acquisto nella distribuzione moderna e tradizionale: nel 2013 il primo è sceso dal 41% al 40,3%, mentre il secondo è corrispondentemente salito dal 59% al 59,7%, con un aumento del consumo fra le pareti domestiche.
Il consumatore si orienta inoltre verso prodotti più economici e i segmenti top del mercato hanno registrato una forte flessione. La quota di mercato delle Specialità è così scesa dal 13,4% all’11,5%, quella delle Premium dal 30,3% al 26,7%. Le birre di minor prezzo, in particolare il mainstream, vedono, invece, salire i consumi dal 47% al 51%, e le Private Label dal 6,4% al 7,7%.

Italiani e verdure: le consumano, le amano e le sprecano di più secondo una ricerca Saclà Doxa

Le verdure sono amate dal 91% degli italiani, soprattutto giovani. Sei su 10 ne hanno aumentato il consumo nell’ultimo decennio. Alti gli sprechi: un italiano su due (52%) dichiara di essere costretto a gettare nella spazzatura le verdure che acquista. Però, sette su 10 le mangiano perché sono buone, svincolandole dalla logica “punitiva” di alimento da consumare solo “perché fa bene”, in cui sono state confinate per anni. Sono i risultati principali della ricerca “Gusto verde. Gli Italiani e le verdure” che Saclà ha commissionato a Doxa.

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Lontani i tempi del “contorno” punitivo, oggi le verdure, grazie anche all’attenzione crescente dedicata loro da chef stellatissimi, hanno scalato posizioni e anzi il 64% degli italiani le considera “piatto principale” del menu. Le consuma un esercito di 50 milioni di italiani (91%) e ben 7 su 10 le mangiano perché sono buone. Tra i giovani, il 58% dichiara di averne aumentato il consumo negli ultimi 10 anni. Per ragioni poi di gusto e praticità, ma anche per l’innata natura “anti spreco”, le verdure conservate risultano essere le preferite da due italiani su 10.

Nord e donne ne consumano di più
Gli italiani mangiano verdura in media una volta al giorno e il 20% le mangia più di 10 volte a settimana. In generale le donne (7,2 volte a settimana) consumano verdure più spesso degli uomini (6). Il Nord è un vero e proprio caposaldo del consumo di verdura (7,5 volte a settimane) mentre nel Sud Italia (ma dov’è finita la dieta mediterranea?) le porzioni settimanali scendono molto (5,3 volte). Nella media il Centro Italia (6,9).
In realtà questi consumi potrebbero essere anche più alti, se non sussistessero alcune barriere al consumo di verdura: secondo gli intervistati, ci vuole troppo tempo per prepararla (28%), la verdura non piace a tutti in famiglia (19%), mancano idee creative per cucinarla (14%) e, ma solo per ultimo, il fatto che non se ne apprezza il gusto (7%).

Conservate in crescita
Forse anche per questi motivi oggi 11,5 milioni di italiani si rivolgono alle verdure conservate, con un trend positivo nei consumi negli ultimi 10 anni del +5%. Il segreto di questo fenomeno? La metà degli italiani (52%) pensano che la qualità dei prodotti sia migliorata mentre per il 23% è rimasta stabile ed è peggiorata solo per il 9% degli italiani. Al top nell’apprezzamento olive (38%), carciofini (35%), e funghi (30%). In particolare tra i plus riconosciuti ad una verdura conservata ci sono la varietà offerta dalle aziende (63%), l’alto contenuto di servizio (49%) e il miglioramento del gusto (35%). I tre cardini su cui poggiano le aspettative dei consumatori nei confronti di una verdura conservata sono che sia sicura (57%), buona e gustosa (50%) e salutare (49%).
Insomma, la passione per le verdure, in Italia, non è la conseguenza di scelte di vita “estreme” o “ideologiche”: il consumo di verdure è considerato da 9 italiani su 10 (89%) importante per la propria alimentazione ma non a scapito di altri cibi. Vegani e vegetariani sono il 5% (1% i primi, 4% i secondi) della popolazione.

Expo:la Carta di Milano per continuare a camminare insieme

Ieri è stata resa pubblica la versione definitiva della Carta di Milano, “un manifesto concreto e attuabile che coinvolge tutti, donne e uomini, cittadini di questo pianeta, nel combattere la denutrizione, la malnutrizione e lo spreco, promuovere un equo accesso alle risorse naturali e garantire una gestione sostenibile dei processi produttivi”.

È un documento denso di contenuti che costituisce – a due giorni dall’inaugurazione – l’eredità di Expo Milano 2015 rivolto a cittadini, istituzioni, imprese, associazioni e ai Paesi che vorranno sottoscriverla.

Qui puoi leggere e sottoscrivere la Carta di Milano

È una sintesi nata delle proposte e delle idee discusse durante l’evento “Expo delle Idee” svoltosi a Milano nella giornata del 7 febbraio scorso, dove 500 esperti organizzati in più di quaranta tavoli tematici si sono confrontati sullo sviluppo sostenibile e sul diritto al cibo, attraverso quattro prospettive interconnesse: cibo, energia, identità e dinamiche della convivenza.

La Carta di Milano costituisce un impegno in relazione al diritto al cibo considerato un diritto umano fondamentale al quale sono chiamati gli individui, la società civile le imprese e i governi. Uno strumento di cittadinanza globale, l’ha definito il ministro Martina nel corso della presentazione della Carta: «Per la prima volta nella sua storia una Esposizione universale promuove un atto d’impegno verso i governi, che tutti i cittadini potranno sottoscrivere contribuendo alla definizione di precise responsabilità dei singoli, delle imprese e delle associazioni».

Gli impegni sono fondamentali per il futuro di tutti: lotta allo spreco e alle perdite alimentari, difesa del suolo agricolo e della biodiversità, tutela del reddito di contadini, allevatori e pescatori, investimento in educazione alimentare e ambientale a partire dall’infanzia, riconoscimento e valorizzazione del contributo essenziale delle donne nella produzione agricola e nella nutrizione. E ancora: investimenti nella ricerca tecnologica, favorire l’accesso all’energia pulita,  corretta gestione dell’acqua, azioni per salvaguardare l’ambiente marino, proteggere con leggi adeguate il cibo da contraffazioni e frodi, contrasto del lavoro minorile e irregolare.

La Carta di Milano è sicuramente una summa di tutto quello che costituisce un mondo buono e giusto e va dato atto alle centinaia di persone che hanno contribuito a realizzarla della straordinaria capacità di sintesi. qualcuno dirà che è utopia. Ma rispondendo con le parole di Salvatore Veca, coordinatore della redazione della Carta di Milano, «l’utopia, come l’orizzonte, serve a continuare a camminare, insieme».

L’impegno per le imprese

“In quanto imprse noi ci impegniamo a:
• applicare le normative e le convenzioni internazionali in materia ambientale e sociale e favorire forme di occupazione che contribuiscano alla realizzazione personale delle lavoratrici e dei lavoratori

• investire nella ricerca promuovendo una maggiore condivisione dei risultati e sviluppandola nell’interesse della collettività, senza contrapposizione tra pubblico e privato;

• promuovere la diversificazione delle produzioni agricole e di allevamento al fine di preservare la biodiversità e il benessere degli animali;

• migliorare la produzione, la conservazione e la logistica, in modo da evitare (o eliminare) la contaminazione e da minimizzare lo spreco, anche dell’acqua, in tutte le fasi della filiera produttiva;

• produrre e commercializzare alimenti sani e sicuri, informando i consumatori su contenuti nutrizionali, impatti ambientali e implicazioni sociali del prodotto;

• promuovere adeguate tecniche di imballaggio che permettano di ridurre i rifiuti e facilitino lo smaltimento e il recupero dei materiali usati.

• promuovere innovazioni che informino i consumatori su tempi di consumo compatibili con la natura, qualità e modalità di conservazione degli alimenti;

• riconoscere il contributo positivo della cooperazione e degli accordi strutturali sulla filiera, specialmente quella alimentare, tra agricoltori, produttori e distributori, per una più efficace previsione della domanda;

• contribuire agli obiettivi dello sviluppo sostenibile sia attraverso l’innovazione dei processi, dei prodotti e dei servizi sia attraverso l’adozione e l’adempimento di codici di responsabilità sociale;

• applicare le normative e le convenzioni internazionali in materia ambientale e sociale e favorire forme di occupazione che contribuiscano alla realizzazione personale delle lavoratrici e dei lavoratori

• investire nella ricerca promuovendo una maggiore condivisione dei risultati e sviluppandola nell’interesse della collettività, senza contrapposizione tra pubblico e privato;

• promuovere la diversificazione delle produzioni agricole e di allevamento al fine di preservare la biodiversità e il benessere degli animali;

• migliorare la produzione, la conservazione e la logistica, in modo da evitare (o eliminare) la contaminazione e da minimizzare lo spreco, anche dell’acqua, in tutte le fasi della filiera produttiva;

• produrre e commercializzare alimenti sani e sicuri, informando i consumatori su contenuti nutrizionali, impatti ambientali e implicazioni sociali del prodotto;

• promuovere adeguate tecniche di imballaggio che permettano di ridurre i rifiuti e facilitino lo smaltimento e il recupero dei materiali usati.

• promuovere innovazioni che informino i consumatori su tempi di consumo compatibili con la natura, qualità e modalità di conservazione degli alimenti;

• riconoscere il contributo positivo della cooperazione e degli accordi strutturali sulla filiera, specialmente quella alimentare, tra agricoltori, produttori e distributori, per una più efficace previsione della domanda;

• contribuire agli obiettivi dello sviluppo sostenibile sia attraverso l’innovazione dei processi, dei prodotti e dei servizi sia attraverso l’adozione e l’adempimento di codici di responsabilità sociale”.

 

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