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Cantina Cielo e Terra oltre la metà va all’export con vini “leggeri”

Punta sulla tendenza a privilegiare vini freschi e leggeri, a bassa gradazione alcolica, e vince all’estero, mantenendo le sue posizioni nella GDO italiana: con questa strategia la veneta Cantina Cielo e Terra, per la prima volta, vede salire la quota delle sue esportazioni oltre il 50% e raggiungere il 40esimo posto nella classifica annuale delle 100 cantine italiane d’eccellenza realizzata dal Corriere Economia.

In un anno che segna un calo nei consumi di vino sul mercato interno, la Cantina Cielo e Terra mantiene sostanzialmente invariato il suo fatturato che si assesta sui 38 milioni di euro e conta su una salda posizione nella GDO, con la linea Freschello, il vino dalla bassa gradazione alcolica e d’uso quotidiano da quasi 10 anni più venduto nella categoria 0,75 l. E proprio da questa linea, nell’ultimo anno, arrivano grandi soddisfazioni per la Cantina che segna una crescita a due cifre del Freschello Extra, lo spumante di soli 9,5% vol. che piace in Italia ma è anche molto apprezzato all’estero, specialmente tra i consumatori turchi e cinesi.

Distribuita in oltre 60 paesi, l’azienda ha registrato lo scorso anno un incremento del 25% delle vendite in USA proseguendo la corsa in questo mercato che, negli ultimi due anni, è cresciuto del 40%, al quale si affianca la performance in Gran Bretagna (+25%) e la buona presenza sui mercati del Giappone e Cina.

Pierpaolo Cielo.
Pierpaolo Cielo.

“In quattro anni, il nostro export è cresciuto di 11 punti – afferma Pierpaolo Cielo, direttore marketing – e questo risultato conferma la nostra vocazione internazionale e fa delle esportazioni il driver di crescita sul quale contiamo, nel 2015, di aprire, con la rivalutazione del dollaro, nuove possibilità di sviluppo in tutti questi mercati che apprezzano un prodotto simbolo dello stile italiano, adatto a chi vuole affrontare la vita con leggerezza”.

All’indomani dell’apertura di EXPO 2015 Cielo e Terra e i suoi 1400 soci testimoniano come la viticoltura ecosostenibile, sicura, controllata in tutta la filiera e attenta ai consumi di materie prime come l’acqua, bene primario per “Nutrire il Pianeta”, siano oggi, nel competitivo mercato internazionale, scelte realizzabili e vincenti.

L’ortofrutta italiana guarda all’export, tra opportunità e difficoltà

Marco Salvi, Presidente Fruitimprese

L’Italia è un grande produttore di ortofrutta, che esporta per 3,9 milioni di tonnellate (2014, +4,4%) e 4,1 milioni di euro (-1,2%), con una quota del 22% tra freschi e trasformati, un punto sopra le bevande. Ma come fare ad incrementare il flusso delle esportazioni (anche per compensare un mercato interno in declino del 5,7% negli ultimi 5 anni) e verso quali Paesi rivolgersi? Se ne è parlato al seminario “L’internazionalizzazione dell’impresa ortofrutticola. Risposte concrete ad esigenze emergenti” organizzato da Fruit Innovation, la nuova fiera dell’ortofrutta che debutterà a Fiera Milano Rho  dal 20 al 22 maggio 2015 con una mission: innovare e internazionalizzare il settore.

Le esportazioni sono molto variegate a seconda del prodotto: siamo leader nell’export delle pere (con 718mila tonnellate specie verso la Germania) stabili sull’uva da tavola che viene esportata per la metà, con il mercato americano e le varietà senza semi in crescita e siamo il secondo maggior produttore mondiali di kiwi (dopo la Cina), che esportiamo all’80% in 100 Paesi, mentre abbiamo ceduto su un prodotto storico come gli agrumi, sul quale la bilancia import/export è negativa.

I punti deboli per l’export sono stati sintetizzati da Marco Salvi, Presidente Fruitimprese:

Le barriere fitosanitarie: se non c’è un accordo bilateriale con il Paese in questione, frutto di un’attività politico-diplomatica, non si può esportare. In Giappone ad esempio possiamo esportare solo arance trasformate; in Cina esportiamo 15mila tonnellate di kiwi.

L’embargo russo: ha colpito duramente l’ortofrutta, perché incideva per il 39% delle esportazioni europee, ed è il maggiore importatore di pere.

I conflitti in Nord Africa e Medio Oriente: che minacciano un mercato estremamente promettente e in crescita.

La mancanza di una politica di espansione commerciale che coinvolga le imprese e concentri gli investimenti promozionali su mercati selezionati.

I costi più alti rispetto agli altri Paesi (anche la Spagna, diretto concorrente) per manodopera, energia e trasporti.

“È necessario fare sistema tra imprese, politica e università e ricerca. Sono già stati stanziati dal Ministero dello Sviluppo Economico (MiSE) 260 milioni di euro per il Made in Italy, che potrebbero permetterci di fare il salto di qualità. Bisogna investire in comunicazione: per le mele Pink Lady ad esempio si investono 10 milioni l’anno. Siamo leader di mercato in tanti prodotti, ma dobbiamo evitare di fare come per le arance, per le quali siamo diventati fanalino di coda dell’export: chi l’avrebbe detto 25 anni fa?” ha ammonito Marco Salvi, Presidente Fruitimprese.

Claudio Scalise, Managing Partner SGMARKETING ha individuato invece le opportunità da cogliere in questo momento, positivo per il cambio euro/dollaro favorevole, il prezzo del petrolio ai minimi storici e l’inizio della ripresa dei consumi. “Tra le tenenze che vedo la frontiera sempre più labile tra fresco e trasformato (vedi la IV gamma) e un export che ragioni in termini di filiera, dal produttore al distributore, al trasformatore”. Altra leva cruciale è l’adattamento della strategia ai diversi mercati, che chiedono cose diverse: consumo critico, servizio ed estetica i mercati maturi, per cui è di cruciale importanza la presentazione del prodotto; standard qualitativi, brand e servizio i mercati emergenti, per i quali l’ortofrutta da importazione è uno status symbol per la classe media; e prezzo per i Paesi “New Frontier” (Africa, India, Tirchia, Medio Oriente), dove l’ortofrutta è commodity.

La vendite retail, e la GDO in primis, coprono il 70%  delle vendite di ortofrutta nei Paesi maturi, e il 10%  in quelli "New Frontier". I drive di posizionamento di alcune catene europee e americane.
La vendite retail, e la GDO in primis, coprono il 70% delle vendite di ortofrutta nei Paesi maturi, e il 10% in quelli “New Frontier”. I drive di posizionamento di alcune catene europee e americane.

Obiettivo 50 miliardi di export per il food italiano

La fotografia degli ultimi 12 mesi dell’export agroalimentare italiano delinea le sfide più importanti per un settore che ha condiviso con il Governo un piano strategico per portare entro il 2020 il valore delle esportazioni a quota 50 miliardi.

Nel corso della presentazione del padiglione Cibus è Italia Federalimentare ha illustrato l’“Atlante geografico del food made in Italy nel mondo”, sottolineando la presenza di 500 aziende che racconteranno anche digitalmente la tradizione del saper fare, le innovazioni tecnologiche, la sostenibilità e il futuro della produzione alimentare italiana.

Oggi 1 miliardo e 200 mila persone nel mondo consumano prodotti agroalimentari italiani, soprattutto vino, dolci, formaggi, pasta e ortaggi trasformati. Sono consumatori europei e nord-americani in primis, ma anche giapponesi, canadesi, russi, australiani, cinesi, coreani, turchi e via dicendo. E se è vero che viene esportato solamente il 20,5% della produzione globale alimentare italiana (una percentuale inferiore a quella di altri Paesi europei), va anche sottolineato che l’export italiano è mediamente di qualità superiore e, conseguentemente, ha valore e prezzo maggiore. Per esempio, la percentuale di export della Germania è del 33% sul totale prodotto, ma il valore aggiunto delle loro merci raggiunge appena gli 11 miliardi di euro di valore contro i 24 miliardi dell’export italiano.

Per aumentare l’export italiano è necessario fare sistema, imprese e Governo, ridurre la polverizzazione ed il nanismo delle imprese, sviluppare piattaforme distributive all’estero e contrastare barriere non tariffarie pretestuose e la contraffazione, come ha spiegato Luigi Scordamaglia, presidente di Federalimentare: “L’industria alimentare italiana è la più grande creatrice al mondo di valore aggiunto nella trasformazione dei prodotti alimentari. Le enormi potenzialità per l’export stanno tutte in questo semplice principio, sta a noi saperle cogliere. Non possiamo accontentarci del +3,5% dell’export registrato nel 2014 e neanche del +5/6% previsto per l’anno in corso. Dobbiamo essere più ambiziosi sfruttando il fatto che per la prima volta l’intero sistema Paese (reti diplomatiche, organizzazioni di supporto all’export, ministeri competenti etc) ha deciso di considerare l’aumento dell’export agroalimentare un obiettivo strategico da perseguire”.

La definizione di una alleanza virtuosa tra imprenditori, istituzioni e realtà fieristiche è stata sottolineata anche da Carlo Calenda, vice Ministro dello Sviluppo Economico che tra l’altro ha detto: “Sono convinto che la creazione del padiglione Cibus è Italia a Expo 2015 sia molto importante: l’Esposizione Universale di Milano è un evento che non solo sarà il foro di discussione delle strategie alimentari globali, ma che dovrà anche dare un ulteriore slancio all’export del nostro settore agri-food, il migliore del mondo per qualità e varietà dei prodotti. Questa grande area espositiva, predisposta da Federalimentare, darà ai visitatori la giusta prospettiva dell’industria alimentare italiana, del suo valore complessivo e delle sue specificità, così come dell’unicità del territorio nazionale e dell’enorme assortimento di eccellenze che viene dalla nostra tradizione. Cibus è Italia ben si affianca alle iniziative del governo nel quadro del nuovo Piano straordinario ‘Made in Italy’”.

Per meglio valutare l’ampiezza della domanda di cibo italiano che arriva da ogni continente è utile analizzare la Top ten dei nuovi mercati per il Made in Italy alimentare, riportata nell’“Atlante geografico del food made in Italy nel mondo” che evidenzia l’aumento dell’export nei nuovi mercati:

 

mercati agroalimentari a più alta crescita

Oltre a vino, dolci, latte e formaggi, pasta e ortaggi trasformati (passata di pomodoro in testa), esportiamo anche prosciutto, salumi e carni trasformate, caffè, riso, birra… Vecchi e nuovi classici del food made in Italy che vanno fatti conoscere e vanno spiegati ai consumatori di tutto il mondo.

Expo è uno dei momenti di condivisione della cultura alimentare italiana, della sua storia e della varietà unica dei suoi prodotti. 13 filiere dei prodotti italiani saranno presentati ai visitatori di Expo nei 5.000 metri quadrati a disposizione del padiglione “Cibus è Italia”: due piani destinati alla esposizione e un terzo, la lounge della terrazza dedicata a workshop, convegni, degustazioni, incontri con i buyer esteri, per un totale di 200 eventi, programmati nei 6 mesi di Expo. Il padiglione è dislocato vicino all’entrata Est di Expo, a poca distanza da Lake Arena e Padiglione Italia.

 

Carozzi lancia l’e-commerce del formaggio

Carozzi Formaggi allarga i canali e le opportunità di vendita lanciando La Formaggeria, il sito web dedicato all’acquisto dei formaggi Carozzi, uno strumento che strizza l’occhio soprattutto al mercato globale.  L’azienda della Valsassina, che ha come principale canale distributivo la GDO (che copre il 40% delle vendite), si lancia nell’e-commerce con un sistema strutturato in ogni minimo dettaglio: dalla navigazione sul sito al servizio di consegna, dall’ordinazione alla possibilità di effettuare resi – qualora il prodotto venga mantenuto intatto.
Uno degli atout del servizio è la consegna veloce, che è assicurata entro le 24 ore su tutto il territorio nazionale, ad esclusione di Lazio (Rieti), Abruzzo (Chieti/L’Aquila), Molise (Isernia), Puglia, Basilicata, Calabria e le Isole per i quali occorrono 48 ore, mentre in Europa e nel mondo è garantita in pochi giorni: un servizio innovativo, mai realizzato da altri produttori di formaggio. Affinché i prodotti vengano consegnati integri e non perdano alcuna delle loro proprietà, la spedizione è realizzata attraverso contenitori isotermici resistenti in cartone e polistirolo espanso che garantiscono un’ottima conservazione, aiutati inoltre da buste di refrigerante sigillate che permettono di mantenere la temperatura corretta all’interno.

Prodotti tra tradizione e innovazione
I prodotti di Carozzi Formaggi si dividono oggi in otto principali categorie: il taleggio DOP, il quartirolo DOP, il gorgonzola DOP, i formaggi a crosta lavata (caratterizzati dal lavaggio periodico della crosta con una soluzione salina al fine di eliminare muffe e favorire la crescita di batteri rossi che ne contraddistinguono il colore esaltando il sapore), i formaggi a crosta naturale, i formaggi freschi ed, infine, i formaggi di capra, gli yogurt con latte vaccino e la novità di quest’anno, che viene incontro alle esigenze nutrizionali e consumistiche più attuali: lo yogurt di capra. Ottenuto utilizzando latte di capra italiano, grazie ad una lavorazione artigianale in impianti tradizionali e all’aggiunta di frutta è un prodotto capace di unire le qualità dello yogurt come il rafforzamento del sistema immunitario, l’arricchimento della flora intestinale e la digeribilità, alle proprietà del latte di capra, più tollerabile del vaccino, ricco di calcio, fosforo e vitamine e, dopo quello d’asina, il latte più simile al materno.
Carozzi formaggi ha 30 dipendenti e un fatturato di quasi 13 milioni di euro e produce 2 milioni di chili di formaggi l’anno. L’export vale per 1,8 milioni di euro, di cui 513mila euro negli USA e il resto in Europa, ma l’azienda sta avvicinando anche nuovi mercati come Cina, Giappone e Sud Africa.

 

Vino, export e Gdo: la promozione istituzionale non serve

Focus su vino, export e Gdo al Vinitaly nel tradizionale convegno dedicato al vino nella distribuzione moderna. Già oggi negli Usa il vino italiano rappresenta il 35% (a valore) del totale dei vini importati dal mondo e collocati a scaffale, e in Germania questa percentuale è del 30%, come ha riferito l’IRI. Buone le performance degli sparkling: nel regno Uito il 50% dei volumi è italiano, e nei paesi considerati dalla ricerca Iri, il vino italiano è leader.

La questione sollevata da Virginio Romano di Iri è però un’altra: come andare all’estero e come incrementare le vendite nel mondo, che oggi rappresentano circa il 50% per il sistema vino ma che, in presenza di un mercato interno in cui i consumi sono i diminuzione, non può che essere determinante per il futuro del settore vitivinicolo.

Certo, quando si parla di export c’è  sempre il coinvolgimento delle istituzioni. Il Ministero delle politiche agricole ha una sua parola d’ordine: aumentare il vino all’estero da 5 a 5,5 miliardi di euro. Ma, come ha affermato il Direttore generale per la promozione della qualità agroalimentare, Ministero delle Politiche Agricole Emilio Gatto, “non vogliamo vendere quello che non siamo in grado di mantenere”, perché se il Ministero è impegnato a “organizzare un sistema di promozione che consenta agli operatori di avere una cornice istituzionale importante” e a “identificare Paesi ‘bersaglio’ in cui avviare progetti di collaborazione che dovranno vedere direttamente interessata la GDO nazionale per la stipula di accordi con i grandi player internazionali per far crescere la commercializzazione dei nostri vini”, è anche vero che le risorse economiche per il momento non ci sono e si stanno esplorando tutti i diversi canali di finanziamento. E quindi l’ottimismo della volontà c’è, ma quello che prevale è il pessimismo della ragione.

A cercare di mettere il discorso con i piedi per terra ci pensa Gianluigi Ferrari, General Manager del Gruppo Core di Bruxelles, che associa le catene Conad, Rewe Group, Colruyt Belgio, Coop Suisse (circa 100 miliardi di fatturato complessivo) . Ferrari in sintesi ha detto che le aziende italiane devono crescere dimensionalmente, perché oggi la gran parte delle aziende esporta vino ma non lo vende. «La differenza è fondamentale – ferma Ferrari – ed è causata dalla dimensione modesta delle imprese vinicole italiane. Non è il Ministero a dover cercare soluzioni, se non a studiare formule che incentivino le fusioni e gli accorpamenti. Non basta essere degli ottimi artigiani per vendere nel mondo, è necessario essere degli ottimi commercianti. Questa è la fondamentale differenza con i francesi. Non abbiamo bisogno di promozione, abbiamo bisogno di vendere e di superare i limiti dettati dal provincialismo culturale e dal nanismo strutturale».

Per quanto riguarda il mercato interno, nel primo bimestre del 2015 sono stati venduti 78 milioni di litri di vino con un aumento dell’1,3% in volume rispetto all’anno precedente, un aumento che sale al 4,4% in volume nel caso del vino in confezione da 75 cl. ma a dettare l’agenda è ancora l’alta promozionali a scaffale del vino, che erodono margini, e la crescita delle private label.

Per  Enrico Viglierchio (Vice Presidente Gruppo Vini di Federvini e Direttore generale di Castello Banfi) è necessario «riportare i brand gradualmente fuori dalla morsa promozionale che ha ormai ampiamente superato il suo livello ‘fisiologico’ col risultato che il consumatore non comprerà più nel regolare e sarà sempre in attesa della promozione di turno e che il valore del brand e la sua percezione da parte del consumatore saranno gradualmente erosi in modo irreversibile. Serve quindi che il prezzo venga gestito in modo da tutelare il valore del prodotto».

Un discorso spesso condiviso dalle catene distributive, aperte alla collaborazione ma che tuttavia lamentano resistenze provenienti talvolta dalle cantine stesse, come ha riferito Alessandro Masetti, Responsabile Reparto Bevande di Coop Italia: «La promozionalità va guidata: una promozionalità sana guida al consumo consapevole e invita a provare nuovi prodotti; una promozionalità eccessiva crea fidelizzazione all’evento stesso dell’offerta e non al prodotto. Ma per poter gestire una promozionalità sana c’è bisogno di lavorare sul reale valore del prodotto, in una logica più vicina al prezzo netto. Al contrario molte aziende di produzione, nelle annate favorevoli, tendono a discostarsi dal reale valore del prodotto andando ad alimentare il polmone della promozionalità».

Altro elemento di sviluppo, individuato dalle catene distributive è la crescita dei vini a marca del distributore e l’ampliamento dell’offerta dei vini a denominazione d’origine, come ha dichiarato Giuseppe Zuliani, Direttore Customer Marketing e Comunicazione di Conad: «Nel 2014 si è consolidato il ruolo della nostra marca commerciale che, con le 57 etichette a marchio proprio affidate a circa 30 cantine di produzione, sta crescendo in modo significativo con una quota che si attesta ormai a circa il 20% nel segmento dei Vini di Qualità (Doc, Docg, Igt e Igp), più del 15% negli Spumanti e di circa il 45% nel vino comune. Buone le performance dei vini Doc/Docg (+5%) e degli Spumanti (+5,10%)».

Bilancio 2014 Asiago DOP: produzione stabile, redditività in crescita

Bilancio 2014 positivo per l’Asiago Dop e per le 159 aziende produttrici. L’anno infatti si è chiuso con una leggera crescita nelle produzioni totali passate dalle 1.620.136 forme del 2013 alle 1.626.198 forme del 2014, con un aumento pari a +0,37%. Grazie al piano di crescita programmata introdotto un anno fa, che ha garantito quotazioni stabili per tutto il 2014, è stato possibile – spiega una nota del Consorzio Tutela Formaggio Asiago – “non solo garantire una diversa redditività rispetto al passato ma, anche e soprattutto, di concentrare le energie sul miglioramento continuo della qualità, a tutto vantaggio dell’immagine complessiva del prodotto e della sicurezza del consumatore”.

Il 2014 segna inoltre una parziale staffetta tra le due principali tipologie di formaggio, con la riduzione del 3,16% della produzione di Asiago DOP Fresco e l’aumento del 22,86% rispetto al 2013 della produzione di Asiago DOP Stagionato. In dettaglio, la produzione di Asiago Fresco è stata di 1.356.132 forme (-44.191 forme), mentre quella dell’Asiago Stagionato di 270.066 forme (+50.253).

Per quanto riguarda i mercati esteri, le esportazioni di Asiago DOP negli ultimi cinque anni sono cresciute a volume del 40,9% e a valore del 64%, con un 2014 che vede oltre 1.600 tonnellate esportate e un +7,6% del fatturato export rispetto all’anno precedente.  Da segnalare il trend positivo nelle aree in cui il Consorzio ha messo in atto azioni promozionali. In Germania, dove l’export – in precedenza stabilmente ancorato alle 100 tonnellate annue – è raddoppiato nell’arco degli ultimi due anni, sfiorando le 200 tonnellate esportate nel 2014 ed avviandosi ad ulteriori incrementi nel corso del 2015. A fine 2014, la classifica dei paesi di destinazione delle vendite estere conferma al primo posto la Svizzera seguita dagli Stati Uniti e dalla Germania. Buone anche le performance in Francia e Austria mentre crescono le occasioni di consumo in Croazia, Canada e Australia.

Pugliese contro Assomela: Fruit Innovation riunisce la filiera e guarda all’export

Ferma presa di posizione del presidente di Fruit Innovation 2015 Francesco Pugliese nei confronti di Assomela, l’associazione che riunisce i Consorzi dei produttori di mele del Trentino e dell’Alto Adige (e di altre province), che aveva annunciato qualche giorno fa di non voler partecipare a nessuna fiera del settore ortofrutta in programma quest’anno in Italia, con riferimento al fatto che nel 2015 sono previste Fruit Innovation il 20-22 maggio a Milano, in concomitanza con Ipack Ima e con Expo, Fruit Gourmet (alcuni giorni prima a Verona) e Macfrut (Rimini). La motivazione? In sintesi, l’attesa di “un confronto urgente e necessario per giungere ad un evento italiano unico… con un orientamento internazionale importante”.

“Mi stupisco e non comprendo – ha affermato Pugliese – le ragioni del comunicato emesso da Assomela in merito agli eventi fieristici per il settore ortofrutticolo nel 2015. Un evento forte, con un orientamento internazionale importante e propositivo tanto auspicato da Assomela c’è già ed è Fruit Innovation 2015, a Milano,  in quanto è  la fiera fortemente voluta e sostenuta con impegno dai settori e dalla distribuzione. Non a caso ne ho accettato la presidenza”.

Fruit Innovation nasce infatti dal supporto di una cabina di regia e da un comitato di orientamento di cui fanno parte attivamente il mondo della produzione organizzata, delle grandi imprese private, del commercio, della distribuzione e delle tecnologie, che sono i veri protagonisti del progetto fin dalla sua iniziale messa a punto. È una joint-venture tra Fiera Milano e Ipack-Ima e conta su promotori come FruitImprese, Unaproa, Fedagromercati, Confagricoltura, Coldiretti, Fedagri Confcooperative Lombardia

Un approccio di filiera con un orizzonte internazionale, aggiungiamo noi, che viene indicato da tempo e anche dal ministro Martina come una delle priorità strategiche per il sistema agroalimentare italiano (v. il convegno organizzato a Marca a gennaio). Un richiamo che dovrebbe guidare i protagonisti coinvolti nella filiera dell’ortofrutta, cui le divisioni non giovano.

“Alla luce di queste premesse – conclude Pugliese – non capisco la posizione dello stare a vedere. Ogni decisione è legittima ma non si può dire che manchi la fiera sulla quale puntare”.

Fruit Innovation: in un convegno le strategie per l’export dell’ortofrutta

È promosso da Fruit Innovation, la nuova fiera internazionale in calendario a Milano dal 20 al 22 maggio prossimi per iniziativa di Fiera Milano e Ipack-Ima spa, il convegno che si svolgerà il 14 aprile prossimo al centro Congressi della Fondazione Stelline a Milano. Tema: “L’internazionalizzazione dell’impresa ortofrutticola. Risposte concrete ad esigenze emergenti”.

“Il Seminario – spiega Claudio Scalise, managing partner di SG Marketing, la società che ne sviluppa i contenuti – è di elevato profilo e di respiro internazionale, perché raccoglie le testimonianze di aziende del settore e non, che hanno intrapreso un cammino vincente che le ha portate a espandersi fuori dai confini italiani. Ci concentreremo sulle strategie che le aziende possono porre in essere per affrontare i nuovi mercati, attraverso l’esposizione di best practice, ossia modelli organizzativi di successo che sono già stati adottati”.

A parlare saranno i manager di Dimmidisì (Massimo Bragotto, direttore commerciale), Consorzio Vog (Gerhard Dichgans, direttore generale), Zespri International (Bert Barmans, general manager Zespri Europe), Caviro (Nicolò Tagliarini, country manager Russia – USA) e Unitec (Angelo Benedetti, presidente). L’introduzione sarà affidata a Marco Salvi, presidente di FruitImprese, mentre le conclusioni saranno a cura di Luca Bianchi, capo Dipartimento del Ministero delle Politiche Agricole.

Il settore dell’ortofrutta guarda con fortissimo interesse all’export, così come l’intero comparto agroalimentare italiano. L’esportazione del food Made in Italy oggi vale oltre 34 miliardi di euro e le aspettative parlano di 50 miliardi in 3 anni. In questo scenario l’ortofrutta fresca rappresenta il secondo comparto dopo il vino. Significa quindi che vi sono potenzialità inespresse che devono essere ancora sfruttate, che nel caso dell’ortofrutta, sottolinea Scalise, “condurranno le imprese a guardare con interesse a Paesi ancora non ‘esplorati’, soprattutto quelli extra-europei. Il tema è dibattuto ormai da anni: ora è tempo di agire”.

Fruit Innovation, organizzato da Fiera Milano e Ipack-Ima, vedrà coinvolta SG Marketing anche nell’organizzazione di un secondo convegno che si terrà durante l’evento (il 22 maggio), dal titolo: “Raccontare sul punto vendita il valore del prodotto ortofrutticolo: best practice internazionali”. Verranno in questo caso presentate testimonianze di insegne che hanno lavorato su modalità innovative di valorizzazione dell’ortofrutta fresca sul punto vendita.

Ismea: in crescita l’export del vino italiano. Bene soprattutto gli spumanti (+14%) grazie al boom del Prosecco

Foto Ennevi-Veronafiere

Buone notizie per l’export di vino italiano alla vigilia del Vinitaly.

Con un fatturato di 5,1 miliardi di euro in crescita dell’1,4% sul 2013, il vino italiano continua ad avanzare sui mercati esteri. È boom in particolare per la spumantistica che chiude l’anno con un incremento di oltre il 14% degli introiti realizzati oltre frontiera.

È quanto emerge in sintesi dalle elaborazioni Ismea sui dati Istat relativi all’intero 2014, da cui si evince anche un avvicendamento al vertice della classifica dei maggiori esportatori mondiali di vino.

Dopo essere stata infatti a lungo il primo fornitore mondiale, l’Italia con 20,4 milioni di ettolitri esportati l’anno scorso (+1% circa sul 2013) è scesa infatti al secondo posto dietro alla Spagna. Il record delle spedizioni iberiche (22,6 milioni di ettolitri, il 22% in più sul 2013), sulla scia di una vendemmia abbondante, è stato accompagnato però da una significativa riduzione dei listini, che hanno determinato una contrazione degli incassi del 5%.

Anche la Francia, sempre prima in termini di fatturato legato all’export vinicolo (7,7 miliardi di euro) ha subito, sottolinea l’Ismea, una battuta d’arresto dei flussi in valore, lasciando l’Italia unica tra i tre big player ad avere incrementato, anche se di poco, il giro d’affari nel 2014.

Una performance, quella dell’Italia, meno brillante rispetto all’incremento del 7% degli introiti evidenziato nel 2013, ma su cui ha pesato il calo dei prezzi all’origine dei vini, scesi di ben 14 punti percentuali sui valori molto alti del 2013.

La crescita seppure limitata dell’export in valore è sintesi di dinamiche divergenti, con lo sfuso in flessione di quasi il 18% e i vini confezionati in crescita del 2%. Sono soprattutto gli spumanti a trainare la crescita degli introiti e, all’interno di questi, il segmento che comprende il Prosecco (+28%). Volendo fare una suddivisione secondo la piramide della qualità si evidenzia come i vini Dop fermi, esclusi quindi spumanti e frizzanti, abbiano sostanzialmente confermato i 4,7 milioni di ettolitri del 2013 con un +1% dei corrispettivi monetari giunti quasi ai 2 miliardi di euro. Bene i vini Igp con un più 4% in valore e male i vini comuni, che cedono il 23% sul valore del 2013. E’ su questo ultimo segmento che la Spagna ha agito in maniera fortemente concorrenziale.

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Analizzando le principali destinazioni, risultano in crescita gli invii verso il mercato statunitense (+4,4% in valore), che da solo copre una quota di oltre il 20% del fatturato oltre frontiera. Una flessione di pari entità ha riguardato invece l’export verso la Germania, principale mercato di sbocco delle esportazioni italiane in termini quantitativi. In aumento del 6% gli incassi nel Regno Unito, terzo nella graduatoria dei principali clienti italiani con un quantitativo molto vicino a quello degli Usa. Scendendo lungo l’elenco delle destinazioni si evidenzia un andamento positivo in Svizzera (+1,8%) e nei Paesi Bassi (+3,4) a fronte di una flessione in Canada (-1,5%), Giappone (-1%), Francia (-5,3%) e Russia (-10,4%).

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Auricchio consolida il mercato Usa con l’acquisizione di The Ambriola Company

«Una scelta strategica e un segnale importante per tutto il comparto alimentare». Così Alberto Auricchio ha commentato l’acquisizione da parte dell’azienda leader mondiale nella produzione di provolone della società americana The Ambriola Company, uno dei più grandi importatori e distributori di formaggi italiani e di Prosciutto di Parma negli USA.

The Ambriola Company, realtà molto conosciuta sia nel retail che in GDO, importa formaggi italiani dal 1921 ed è importatore esclusivo del brand Locatelli – con il Pecorino Romano e altri formaggi di pecora – il marchio numero uno tra i formaggi Italiani esportati negli USA.

L’azienda, che ha sede nel New Jersey, da oltre vent’anni importa e distribuisce anche i prodotti a marchio Auricchio (Provolone, Parmigiano Reggiano, Grana Padano), Giovanni Colombo (Gorgonzola, Taleggio, Mascarpone), F.lli Pinna (Pecorino Romano) e Luppi (Prosciutto di Parma). Inoltre importa e distribuisce con il marchio “Ambriola” Pecorino Romano, Parmigiano-Reggiano e Grana Padano. Nell’ultimo esercizioha realizzato un fatturato di 52 milioni di dollari con un incremento del 10% sull’esercizio precedente.

«Il mercato americano – ha aggiunto ancora Auricchio – è per noi il primo per quota d’export; per altro più del 50% del fatturato di Ambriola era già sviluppato con i nostri marchi Auricchio, Locatelli e Giovanni Colombo.

Inoltre in un prossimo futuro si potrà allargare la gamma dei prodotti Italiani ad altre merceologie alimentari».

Nel 2014 il Gruppo Auricchio ha realizzato un fatturato di oltre 200 milioni di euro, con una percentuale di crescita del 2% in Italia e del 8% nelle esportazioni.

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