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Inalpi e il suo impegno per una filiera certificata. Ce ne parla l’AD Ambrogio Invernizzi

«Il marchio è ricchezza e forza». Ambrogio Invernizzi, AD di Inalpi non ha dubbi in proposito.

«Per questo, ci spiega, bisogna difendere questo patrimonio e investire per tutelarlo».

Esattamente quello che la sua azienda sta facendo in maniera sistematica, lavorando a 360° per garantire ai consumatori qualità certa, garantita e costante. Un impegno intenso di cui si è avuto modo di conoscere approfondire molti aspetti nel corso della fiera TuttoFood.

«Vede – ci spiega Invernizzi- oggi è fondamentale rassicurare i clienti sul fatto che siamo in grado di esercitare un controllo totale dell’intero ciclo produttivo del nostro latte.

Così abbiamo deciso di andare oltre i controlli previsti per legge: Inalpi ha infatti optato per effettuare con cadenza giornaliera tutti gli esami (tossine, antibiotici, enzimi ecc.) e di dotare tutti i mezzi di una strumentazione ad hoc per procedere ai prelievi direttamente in stalla.

Un meccanismo complesso e a elevato contenuto tecnologico, che prevede anche un sistema di incentivi per gli allevatori più ligi e delle penalità per i non adempienti».

Immagino che l’investimento necessario a mantenere standard così elevati non sia stato da poco…

Infatti: parliamo di 800 mila euro annui in più rispetto agli investimenti standard necessari per allinearsi al tradizionale sistema di controlli.

Il prossimo step?

Attualmente stiamo lavorando ad un protocollo di filiera, che coinvolge un’azienda del calibro della Ferrero e le due cooperative nostre fornitrici. L’obiettivo è quello di perfezionare ulteriormente l’aspetto della sicurezza e di migliorare l’operatività dell’allevatore, fornendo un vademecum dettagliato che spazi dalla tipologie dei mangimi al trattamento dei capi di bestiame, fino alle modalità più corrette per la mungitura. Il traguardo che ci siamo prefissati per il 2015 è quello di certificare la filiera.

Inalpi a Expo 2015: quali le iniziative?

Saremo presenti all’interno del padiglione di Federalimentare per tutta la durata dell’evento. Il nostro spazio sarà animato da un plastico della Lego a dalle creazioni di Ugo Nespolo. E naturalmente, abbiamo anche in carnet una serie di eventi che animeranno i sei mesi dell’Esposizione Universale.

Si è chiusa l’era delle quote latte: quali le conseguenze per voi?

Beh, qualche disagio c’è stato. Si è infatti registrato un aumento dei volumi prodotti che in media si è attestato intorno al 9-10%, ma che in alcuni casi è schizzato anche al 30%.

Il risultato è che ci siamo trovati con degli esuberi quantitativi non programmati. Per gestire la situazione si è stabilito che tale surplus (che per legge siamo tenuti a ritirare) dovrà però essere venduto a prezzo di mercato e non secondo gli accordi stipulati in precedenza sui quantitativi previsti a suo tempo.

TuttoFood ha contribuito a dare visibilità al vostro progetti di filiera e al vostro impegno per la sicurezza alimentare, ma è stato anche un trampolino di lancio per la vostra ultima novità…

Infatti: in anteprima abbiamo presentato la nostra linea d’alta gamma, realizzata in partnership con l’azienda di Daniele Invernizzi. Si tratta di quattro referenze DOP della Valsassina, che presto avranno distribuzione nazionale. Una nicchia interessante che speriamo trovi un volano importante nei sei mesi dell’Esposizione dedicata all’alimentazione. (Carmela Ignaccolo – Twitter: @carmelaignaccol )

Per le latterie del’Alto Adige il 2014 è stato positivo

Con la fine dell’epoca delle quote latte, il settore lattiero caseario cambia prospettive e la competizione sul mercato diventa un fattore cruciale per il mantenimento delle imprese: la produzione è prevista in crescita, premiando alcune zone di produzione e alcuni produttori a scapito di altri. E gli effetti, uniti alla crisi economica e all’embargo russo si sono già sentiti.

Il caso del comparto lattiero-caseario dell’Alto Adige è emblematico del nuovo scenario che si è aperto.

Nel corso del 2014 il fatturato del settore in Alto Adige è aumentato dell’1,3% a 451 milioni di euro con un prezzo pagato agli allevatori leggermente aumentato a 49,88 centesimi/kg (al netto dell’IVA).

Per Joachim Reinalter, presidente della Federazione Latterie Alto Adige, è chiaro che le latterie devono realizzare il loro fatturato operando sul mercato, ma, afferma, «La politica ha l’obbligo di sostenere il settore lattiero-caseario approntando le condizioni operative per contrastare una concorrenza sempre più agguerrita. Per consentire agli agricoltori di continuare a produrre c’è bisogno di prezzi che tutelino il settore agricolo. Nelle zone montane non è possibile produrre latte ai prezzi competitivi degli mercati mondiali».

Elemento di forza delle latterie altoatesine è, secondo Reinalter, l’uso di materie prime controllate appezzate dai consumatori. La Federazione Latterie Alto Adige è un organo di controllo indipendente che sorveglia l’intero ciclo dalla produzione del latte al prodotto finito pronto per il mercato. Nel 2014 il laboratorio della Federazione Latterie Alto Adige ha analizzato 3.000 campioni di latte crudo al giorno pari a un totale annuo di 5 milioni di analisi, controllato 16.000 prodotti lattiero-caseari e svolto circa 60.000 analisi.

Gran parte dei settori della produzione lattiero-casearia ha registrato uno sviluppo positivo. Con un aumento del 5,1%, in cima alla classifica vi è la produzione dello yogurt con 126 milioni di chilogrammi. Per Reinalter una notizia ulteriormente positiva se si considera che in Italia la produzione dello yogurt è calata del 2%. Sul mercato si affermano con successo anche le tante varietà di formaggio con un aumento della quantità del 4% per un totale di 20 milioni di chilogrammi. In particolare la quantità di formaggi freschi come il mascarpone e la ricotta è aumentata del 6%. Una nicchia interessante è quella del latte di capra che ha registrato una crescita del 33% arrivando a 0,8 milioni di chilogrammi trasformati in latte fresco, formaggio, yogurt e burro.

OGM e UE, Stati membri liberi di (non) decidere. Ed entrano 12 nuovi alimenti geneticamente modificati

Come già a gennaio per le coltivazioni, la UE ha preso in considerazione la commercializzazione di alimenti e mangimi geneticamente modificati, rivedendo il processo decisionale per l’autorizzazione in modo da garantire agli Stati Membri maggior flessibilità e potere di divieto: “La novità consiste nel fatto che, una volta che un OGM è autorizzato per l’uso in Europa come alimento o come mangime, gli Stati membri avranno la possibilità di decidere se consentire o no che un determinato OGM venga usato nella loro catena alimentare (misure di opt-out)”.

Le ragioni per cui uno stato potrebbe attuare l’opt-out sono però inintelligibili. Secondo la proposta di revisione: “Gli Stati membri dovranno giustificare la compatibilità delle loro misure di opt-out con la legislazione dell’UE, compresi i principi che disciplinano il mercato interno, e con gli obblighi internazionali dell’UE, di cui sono parte integrante gli obblighi assunti dall’UE nell’ambito dell’OMC [Organizzazione Mondiale del Commercio]. Le misure di opt-out dovranno fondarsi su motivi legittimi diversi da quelli valutati a livello dell’UE, vale a dire su rischi per la salute umana o animale o per l’ambiente”.
Fortemente critiche le associazioni, come Greenpeace. “La Commissione sta offrendo ai Paesi membri una falsa libertà di scelta, che non regge in nessun tribunale. Le regole del libero mercato in UE prevarrebbero sempre sulle scelte dei singoli Stati, in particolar modo se ai governi sarà negata la possibilità di giustificare i divieti adottati a livello nazionale per ragioni di carattere ambientale o sanitario”.
Tra le polemiche, la proposta legislativa sarà ora trasmessa al Parlamento europeo e al Consiglio e seguirà la procedura legislativa ordinaria.

Intanto, come ideale risposta alle critiche, la Commissione ha approvato l’ingresso (non la coltivazione) di 19 Ogm (tra cui 7 rinnovi) nel suo territorio: tre tipi di mais, cinque tipi di soia, due di colza e sette di cotone, oltre a 2 varietà di garofani. Secondo Federica Ferrario, responsabile della Campagna Agricoltura Sostenibile di Greenpeace Italia: «Queste autorizzazioni confermano che Juncker non ha alcuna intenzione di avvicinare l’Unione Europea ai suoi cittadini, ma vuole solamente agevolare gli interessi di Stati Uniti e Monsanto. Solo pochi giorni fa il presidente della Commissione europea si è rimangiato quanto promesso ad inizio mandato: nessuna cancellazione delle norme che obbligano la Commissione UE ad approvare nuovi OGM in Europa anche se la maggioranza degli Stati è contraria. Oggi spalanca le porte dell’Europa a una nuova ondata di OGM solo per compiacere le aziende biotech statunitensi. Questo è un esempio di TTIP (il Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti) in azione».

Anche il food vende smart: Love It di Copagri lancia acquisti con PowaTag a Expo

Chi lo dice che le modalità di vendita smart devono essere appannaggio della moda? E non è forse il food il nuovo fashion, come ci dicono le ricerche sui ventenni del Terzo millennio, più interessati ormai a mangiar bene che a vestirsi à la page? Così Love It – Real Italian Food,  il nuovo brand lanciato da Copagri in occasione di Expo 2015 per portare nel mondo la vera cultura del cibo italiano ha adottato la soluzione di mobile commerce PowaTag.

 

A Expo lo spazio espositivo Copagri sarà suddiviso in 15 banchi su cui sono previste rotazioni settimanali, in modo da esporre fino a 300 diverse realtà produttive.
A Expo lo spazio espositivo Copagri sarà suddiviso in 15 banchi su cui sono previste rotazioni settimanali, in modo da esporre fino a 300 diverse realtà produttive.

Copagri Expo, che raccoglie una rete di oltre 300.000 produttori agricoli associati a Copagri, la seconda Confederazione Produttori Agricoli italiana per estensione, introduce con PowaTag il concetto di smart food market place: i consumatori potranno acquistare i prodotti italiani stagionali degli associati a Copagri con un semplice touch di smartphone tramite qualsiasi mezzo pubblicitario, sia esso una materiale stampato, uno schermo o anche una fonte audio, utilizzando una serie di punti di ingaggio tra cui Qr code, Audio Tag, beacon Bluetooth e social media.

Love It inaugurerà anche una serie di ristoranti, tra cui il flagship store a Milano in via Rugabella 1, in concomitanza con l’Expo,  dove i clienti potranno degustare i prodotti tipici regionali, le piccole produzioni e le specialità di stagione selezionate tra le eccellenze italiane. Per incentivare e diffondere l’utilizzo di PowaTag tra i propri clienti, Love It offrirà  uno sconto speciale del 15% sui prodotti esposti all’Expo 2015  per chiunque faccia acquisti nello store attraverso PowaTag e viceversa, uno sconto del 15% da utilizzare al ristorante per chiunque utilizzi l’app per gli acquisti in padiglione.

“PowaTag elimina le barriere tra produttori e consumatori: da un lato gli associati Copagri potranno relazionarsi direttamente con i propri clienti, integrando l’offerta tra negozio fisico e online; dall’altra i consumatori potranno usufruire di una soluzione omnicomprensiva e multicanale che consente loro di  acquistare i prodotti Love It da dispositivo mobile in maniera semplice e istantanea” spiega il general manager italiano di Powa Technlogies Germano Marano..

Ricerca Gea-Asset: ripensare la supply chain delle imprese alimentari

È urgente ripensare i processi di gestione della domanda e della supply chain delle imprese alimentari italiane: per sostenere il valore di prodotti eccellenti senza essere sopraffatti dalla crescente complessità del mercato; per recuperare margine ed efficienza, sfruttando al meglio la capacità produttiva di impianti spesso sovradimensionati; per muoversi con successo verso nuovi confini.

Questo, in sintesi, quanto emerge dall’indagine realizzata da Gea Consulenti di Direzione e Asset, presentata in occasione del convegno Food Boost – Liberare l’eccellenza con la supply chain che ha visto la partecipazione di oltre 200 rappresentanti dell’industria del food&beverage, secondo settore manifatturiero a livello nazionale con 6.800 imprese e € 133 miliardi di fatturato.

Ma in quale misura essere eccellenti in questi ambiti costituisce un reale vantaggio competitivo, in particolare per lo sviluppo sui mercati esteri?

«Oltre la metà delle aziende continua a sprecare capitali perché non è in grado di realizzare previsioni accurate, che siano di supporto a una programmazione strategica e ottimizzata delle attività produttive. In un mercato globale sempre più esigente e complesso, non basta guardare a come si è sempre fatto in passato e non possiamo più permetterci che questo continui a penalizzare i nostri marchi», ha commentato Luigi Consiglio, Presidente di Gea Consulenti di Direzione. «È vitale rivedere con urgenza i processi di gestione dell’intera supply chain in un’ottica più evoluta, integrata e interfunzionale; una svolta necessaria per recuperare efficienza e accelerare la crescita della nostra industria alimentare, in Italia come all’estero».

«Incremento della gamma, competizione sempre più sul tempo, pressione sulla riduzione dei costi e globalizzazione sono fenomeni che caratterizzano la maggior parte dei settori industriali; nel caso del food&beverage la complessità è enfatizzata dalla presenza di numerosi canali da servire contemporaneamente, tenendo conto delle rispettive specificità e da normative sempre più stringenti. Sfide sempre più difficili richiedono approcci sistemici e soprattutto progettualità, non solo nell’affrontare i percorsi di internazionalizzazione, ma anche nel recupero di efficienza dei sistemi produttivi e nel recupero di efficacia dei processi di pianificazione e programmazione della produzione e della catena di distribuzione» ha aggiunto Andrea Sianesi, Partner di Asset.

Il campione e le aree di indagine

L’indagine Gea-Asset ha preso in considerazione un campione selezionato di 30 aziende italiane – rappresentativo di tutte le categorie merceologiche dell’industria alimentare e di diversi livelli di grandezza e fatturato – analizzandone l’assetto organizzativo (dipendenze gerarchiche, responsabilità operative e gestionali, momenti di condivisione interna delle informazioni), le performance (livello di servizio erogato e impegno del capitale circolante) e le prassi adottate nella gestione dei processi di demand management e operations planning, nonché gli strumenti informativi a supporto.

In particolare, il panel di intervistati è composto in prevalenza di imprese del settore beverage (36%), seguito da caffè e dolciumi (20%), pasta e bakery (16%), carne e salumi (16%), latte e derivati (16%) e comparto ortofrutticolo (4%).

Più dell’80% sono aziende grandi (44% con più di 250 dipendenti) e medie (40% tra 50 e 250 dipendenti); in termini di fatturato, per il 36% delle imprese coinvolte è compreso tra 100 e 500 milioni di euro, per il 24% tra 50 e 100 milioni, superando il miliardo di euro nel 20% dei casi, per un giro d’affari complessivo di oltre € 20 miliardi. Per il 44% del campione, l’export rappresenta meno del 10% del fatturato e solo per il 16% la percentuale supera il 50%; mentre la quota derivante dalla Gdo rappresenta oltre la metà del fatturato per due terzi delle imprese, superando l’80% nel 40%.  Tutte le aziende prese in esame – concentrate prevalentemente nel Centro-Nord Italia (28% in Lombardia, 24% in Emilia Romagna e 20% in Veneto) – hanno la produzione in Italia, di cui la maggior parte con 1 o 2 stabilimenti produttivi.

I risultati dell’indagine

Solo un terzo degli intervistati, infatti, si ritiene soddisfatto dei processi adottati attualmente dalla propria azienda e il 50% conferma di avere intrapreso una revisione di tali procedure, concentrandosi soprattutto sul demand management.

Di fronte alla diffusa incapacità di realizzare previsioni oculate, la grande maggioranza delle imprese sopperisce alla difficoltà di anticipare la domanda affrontando il mercato in ottica perlopiù reattiva. Se, da un lato, solo il 25% degli intervistati ritiene di avere una buona accuratezza delle forecast, dall’altro più dell’80% sostiene di avere performance eccellenti nella flessibilità di risposta al cliente, pagando tuttavia un costo elevato in termini di efficienza interna e di impegno di capitale circolante. Questa elevata variabilità e scarsa prevedibilità della domanda impatta fortemente sulle attività di pianificazione e sui processi produttivi, tanto che meno di un quarto delle aziende del campione riesce ad avere più di una settimana di orizzonte congelato.

Guardando agli aspetti che ad oggi contribuiscono a rendere soddisfatti il 30% dei rispondenti in materia di demand planning, a fare la differenza sono la raccolta di più informazioni bottom-up dalla forza vendita e sulle promozioni dei clienti (nel 90% dei casi), una maggiore frequenza di aggiornamento delle previsioni (più che mensile per il 65%) e l’utilizzo di algoritmi a supporto (75%). Aspetti che si riflettono anche sulle aziende più soddisfatte del proprio operations planning che, potendo contare su una buona accuratezza previsionale della domanda (63% degli intervistati) riescono a garantire alla produzione un orizzonte congelato (nel 75% dei casi) e, quindi, a limitare al minimo le inefficienze, pur rivedendo spesso i piani.

Tre modelli di gestione del rapporto domanda-supply chain

In generale, tuttavia, si rilevano livelli di maturità differenti nella definizione dei ruoli deputati a gestire l’interfaccia tra la domanda e supply chain. Oltre il 50% delle imprese coinvolte non ha un processo definito per il demand management, che risulta o del tutto inesistente (26%) oppure assimilato alle vendite (26%) denotando grande confusione circa i confini di responsabilità tra le varie funzioni aziendali. Laddove esiste un’unità dedicata alla gestione della domanda (48%), questa fa capo prevalentemente all’area Supply Chain (55%). Entrando nel dettaglio dei tre livelli:

– quando il ruolo del demand manager è inesistente, le performance aziendali sono basse, vi è una scarsa visibilità sul mercato in quanto le informazioni sono raccolte solamente dalle vendite, l’export conta per una piccola percentuale del fatturato (10% circa) e vi è una limitata incidenza delle promozioni.La maggiore preoccupazione di queste aziende risiede nel rispondere alla crescente complessità del settore.

– se è assimilato alle vendite, le performance sono mediamente buone, vi sono da 3 a 5 persone che se ne occupano ma vi è una forte distinzione tra chi ha la responsabilità di gestire il mercato rispetto a chi si occupa della supply chain, l’export conta per il 20%-30% del fatturato e vi è un’incidenza delle promozioni fino al 50%. La principale criticità per questo tipo di imprese consiste nel gestire in maniera efficace il coordinamento interno tra le diverse funzioni.

– laddove esiste un’unità dedicata, le performance sono alte e la funzione dispone solitamente di molte risorse, che realizzano previsioni raccogliendo informazioni attraverso meeting periodici interfunzionali e tenendo conto sia della BaseLine sia delle promozioni, che anche in questo caso hanno un’alta incidenza; l’export rappresenta oltre il 50% del fatturato e la produzione è spesso legata a un’elevata stagionalità. La difficoltà per queste aziende sta nel gestire al meglio la collaborazione con gli attori esterni della filiera (fornitori e retailer).

Il nodo dei sistemi informatici

Infine, alla luce della crescente necessità di amministrare grandi volumi di dati complessi, diventa fondamentale avvalersi di adeguati strumenti informativi che siano di effettivo supporto ai processi decisionali e operativi dell’azienda, in un’ottica quanto più integrata. Ciononostante, guardando al campione di imprese interpellate, si evidenzia un’elevata frammentazione anche nell’utilizzo dei sistemi informatici. Spesso la scelta di soluzioni diverse, che tendono a tenere separati il demand planning (DP) dall’operations planning (OP) ostacola l’adozione di un approccio realmente interfunzionale e flessibile. In particolare: il 23% degli intervistati utilizza Excel quale unico programma a supporto per entrambe le funzioni; i sistemi ERP sono utilizzati dal 18% per il DP e dal 27% per l’OP, sebbene molto spesso integrati con Excel (rispettivamente nel 75% e 83% dei casi);  il 59% si avvale di un sistema verticale o software ad hoc per il DP, in linea con quanto accade per l’OP (50%), sempre sfruttando anche Excel per alcune funzionalità (62% DP vs 9% OP).

Il quadro complessivo che emerge dall’indagine GEA-ASSET sul food italiano è quindi quello di un settore in cui è sempre più forte l’esigenza di evolvere verso nuove prassi virtuose, che favoriscano l’adozione di un unico processo integrato di Sales & Operations planning, basato su: un ascolto più attento del mercato e dell’azienda stessa, per raccogliere le informazioni utili al processo su vari fronti, con rapidità e precisione; una maggiore collaborazione, sia tra le diverse funzioni aziendali sia verso l’esterno, con clienti e fornitori;  una misurazione più efficace delle performance del processo e un nuovo approccio all’innovazione, che sappia guardare ad esempi eccellenti anche fuori dal proprio settore, per ripensare a proprio vantaggio le regole del gioco.

Stabilimento di produzione in etichetta: su Twitter, la gdo alza l’asticella

Sulla questione dell’eliminazione dello stabilimento di produzione dall’etichetta dei prodotti alimentari, previsto dal Regolamento europeo 1169/2011, la Gdo dopo un periodo di silenzio, ha preso ferma posizione, anche sollecitata da ioleggoletichetta che aveva lanciato una petizione su internet, oggi sottoscritta da 24.160 firme.

Sulla questione, poi, il governo, al di là di dichiarazioni e qualche debole misura annunciata dal Ministero delle Politiche agricole, non ha propriamente preso il toro per le corna, considerando che prima dell’entrata in vigore delle Regolamento 1169/2011 l’indicazione dello stabilimento di produzione in etichetta era obbligatorio. Anzi l’atteggiamento del ministero dello Sviluppo economico è stato per lo più cincischiatorio.

Appare quindi quantomeno curioso che di fronte alla necessità di salvaguardare il valore del food italiano, per di più alla vigilia dell’Expo, non sia stato preso alcun provvedimento d’urgenza in questa direzione, ma si siano solo attivati i canali  ufficiali per avere risposte dalla Ue sulla possibilità di rendere nuovamente obbligatoria l’indicazione dello stabilimento di produzione.

In questo contesto la quasi totalità della gdo opernte in Italia ha deciso di continuare a mantenere tale indicazione sui prodotti a marchio del distributore.

Ma all’orizzonte le cose stanno prendendo un’altra piega con una possibile decisione della distribuzione di boicottare i prodotti di marca che non inseriscono tal dicitura.

L’iniziativa è partita su Twitter per  merito di Mario Gasbarrino, ad di Unes e uno dei più convinti assertori della necessità di mantenere la dicitura (insieme con Vito Gulli ad di Generale Conserve), tanto che sulle confezioni dove la materia prima è prevalente, come il latte e l’olio,  non solo viene indicato lo stabilimento, ma viene inserito anche il pittogramma della bandiera italiana per comunicare l’origine stessa del prodotto in maniera più evidente. «Non è questione di autarchia – scrive su Twitttter @mgasbarrino rispondendo a un follower che chiedeva di manatenere in assortimento la pasta secca con grano duro canadese per  via di un superiore apporto di proteine – ma di trasparenza. Basta che sulla confezione sia riportato il luogo di produzione».

Per chiarire, quindi, la battaglia che viene condotta a questo riguardo, non ha nulla a che vedere con la presunta difesa del prodotto italiano in sé – anche perché senza l’importazione di tante materie prime dal grano duro all’olio extravergine, non ci sarebbe la possibilità di esportare la pasta e i blend di evo caratteristici del made in Italy. Si tratta invece di una presa di posizione a difesa del sacrosanto diritto del consumatore di sapere dove viene prodotto il cibo che sta acquistando.

In un suo messaggio Gasbarrino afferma “#prodottodove: una #gdo ke si limita solo a firmare petizione @etichettiamoci è come UE ke lascia sola It su immigrazione!Ci vogliono fatti”. Raccogliendo un immediato endorsement di Francesco Pugliese ad di Conad (@fpugliese_conad) che scrive: “Condivido fatti non solo parole“.

E i fatti sono che, dice sempre Gasbarino, “io se trovo altri 10 retailers firmo un patto x boicottare (non vendere) prodotti senza luogo”, riscuotendo rapidamente l’adesione di Giorgio Santambrogio, ad di VéGé (@gsantambrogio1) che twitta: “Gruppo VéGé è con te” “Solo 1 forte cartello di retailers  può impedire eliminazione #prodottodove!”.  E a seguire quella di Eleonora Graffione, presidente di Coralis (@eleonoragraffio), che scrive: “Coralis unita ai colleghi per maggiori info al cliente. Abbiamo aderito fra i primi a @etichettiamoci e nostro programma prevede la tutela dell’indicazione del luogo di produzione”.   E aggiunge: “Proviamoci. Magarii è la volta che si accorgono che anche noi facciamo parte del Pil”.

Di rimando Gasbarrino annota. “Solo un forte cartello di retailers  può impedire eliminazione #prodottodove ! Siamo già in 3 disposti a non venderli”.

E conclude, per il momento: “Credo che saranno molti i distributori disposti al boicottaggio: si facciano avanti!“.

 

Internet of things a Expo 2015: le opportunità nella filiera alimentare

Se il 2014 è stato l’anno di svolta per l’Internet of Things, un mercato che vale circa 1,55 miliardi di euro con 8 milioni di oggetti interconnessi tramite SIM cellulari o tecnologie di comunicazione diverse, per il 2015 ci si attende una crescita soprattutto nell’ambito delle applicazioni per Smart Car, Smart Home e Smart City. Lo afferma lOsservatorio Internet of Things della School of Management del Politecnico di Milano, per il quale, Expo 2015 darà un forte impulso anche agli impieghi nella filiera agroalimentare.

«Per il prossimo futuro è importante anche la crescita di dispositivi Wearable, la cui offerta è sempre più articolata, delle applicazioni di Smart Factory, che consentono di aumentare produttività e flessibilità degli impianti manifatturieri, e di Smart Agriculture» spiegano Giovanni Miragliotta e Angela Tumino, Responsabili della ricerca dell’Osservatorio Internet of Things. Quest’ultima, che beneficia della rinnovata attenzione verso la filiera alimentare legata a Expo 2015, offre grandi potenzialità per la tracciabilità dei prodotti e la gestione delle attività agricole, riducendo fino al 40% l’uso di acqua e i trattamenti fitosanitari e ottenendo risparmi economici che consentono di ripagare l’investimento in tempi brevi.

L’Internet of Things sarà quindi protagonista nel palcoscenico di Expo 2015. Sarà impiegato per il monitoraggio dei consumi energetici e della continuità di servizio, per la telegestione di luci e condizionatori, per i sistemi di sicurezza e controlli. Attraverso dispositivi Wearable inoltre verrà utilizzato anche per monitorare la situazione clinica di alcuni visitatori. Ma, soprattutto, entrerà nel Future Food District dedicato all’integrazione tra produzione alimentare e tecnologie con applicazioni di Smart Logistics e Smart Agriculture.

La Smart Logistics garantisce la tracciabilità dei prodotti o il monitoraggio di parametri come la temperatura lungo la filiera. La Smart Agriculture prevede applicazioni in ambito ortofrutticolo e di agricoltura controllata in serra con sensoristica distribuita per monitorare lo stress idrico delle piante e per migliorare l’accuratezza di prevenzione e cura delle infezioni.

«Expo 2015 ha dato un forte impulso alle sperimentazioni Smart Agriculture e Smart Logistics per la filiera alimentare – afferma Angela Tumino -. Non mancano i primi progetti esecutivi, ma si fatica ad uscire ancora dallo stadio sperimentale. I risultati dai primi progetti però sono incoraggianti: con la Smart Agriculture è possibile ridurre del 30-40% l’uso di risorse idriche e del 40% il numero di trattamenti fitosanitari. Oltre a ciò, la raccolta di informazioni dal campo consente di supportare l’informatizzazione del quaderno di campagna facilitando la registrazione degli interventi».

La ricerca dell’Osservatorio Internet of Things ha approfondito per esempio costi e benefici di una soluzione IoT nel settore vitivinicolo biologico, per la gestione dell’irrigazione, dei trattamenti fitosanitari e dei fertilizzanti. L’ottimizzazione della gestione di tali attività consente di ridurre l’impatto ambientale dell’attività agricola e di ottenere un tempo di payback dell’investimento di circa 1 anno per un’azienda di grandi dimensioni da 50 ettari, di circa 2 anni per una realtà media da 10 ettari e di circa 3,5 anni per una piccola da 5 ettari.

«Per uscire dallo stadio sperimentale e liberare il potenziale della Smart Agriculture serve lavorare sulla capacità di stimare a priori i benefici ottenibili e sulle competenze digitali dei nuovi agronomi – conclude Giovanni Miragliotta -. Da un lato un’attenta analisi ex-ante di costi e benefici deve indirizzare l’investimento del produttore agricolo e rendere evidente il potenziale valore generato. Dall’altro, il coinvolgimento di figure specialistiche, i nuovi ‘agronomi digitali’, può consentire di estrarre valore dai dati raccolti sul campo tramite lo sviluppo e l’integrazione a livello software di nuovi modelli previsionali”.

iot innovazione

Giuseppe Villani eletto presidente del Consorzio del Prosciutto di San Daniele

Il nuovo consiglio di amministrazione del Consorzio del Prosciutto di San Daniele. Da sinistra, Adriano Milani, Matteo Zolin, Nicola Levoni, Lorenzo Bagatto, Marco Pulici, Villani (presidente), Alessio Prolongo e Stefano Fantinel (vicepresidenti), Sofia Kavcic, Alberto Bellegotti.

Nel 2014 le vendite del Prosciutto di San Daniele sono cresciute del 10%. Segno che, nonostante la congiuntura economica non favorevole, la qualità continua a premiare, così come il rigore nei controlli e l’eccellenza di uno dei prodotti simbolo di Made in Italy nel mondo.

“La conferma dell’apprezzamento del prosciutto di San Daniele da parte del mercato è motivo di grande orgoglio per il Consorzio e rappresenta l’ulteriore dimostrazione della forza del prodotto sia sul territorio nazionale che all’estero”, dichiara Giuseppe Villani, neopresidente del Consorzio del Prosciutto di San Daniele, eletto dal nuovo consiglio di amministrazione. “Questo consenso da parte del consumatore finale che continua a scegliere il nostro prodotto è espressione diretta del lavoro che è stato portato avanti dal Consorzio e del costante impegno dei produttori, volti a garantire la qualità del prodotto che diventa il valore differenziante nel momento dell’acquisto”, conclude Villani.

Le esportazioni, infatti, sono in crescita del 6% rispetto al 2013 e la quota export ha inciso per circa il 13% dei volumi di prodotto venduti, ricavato da circa 2 milioni e 500 mila cosce di suino fresche.

Buone notizie anche per il San Daniele affettato in vaschetta la cui produzione ha registrato una crescita del +17,3% sul 2013, attestandosi a oltre 16.500.000 confezioni certificate, corrispondenti ad oltre 308.000 prosciutti affettati e pari al 12,4% della produzione annua complessiva.

Nel 2014 sono stati inoltre verificati direttamente dagli agenti vigilatori del Consorzio del Prosciutto di San Daniele un migliaio di esercizi in Italia e 500 all’estero, in linea con il notevole aumento dell’attività di tutela e vigilanza attuato negli ultimi anni: nel triennio 2012-2014 sono stati verificati quasi 3000 esercizi in Italia e più di 950 all’estero.

L’ortofrutta italiana guarda all’export, tra opportunità e difficoltà

Marco Salvi, Presidente Fruitimprese

L’Italia è un grande produttore di ortofrutta, che esporta per 3,9 milioni di tonnellate (2014, +4,4%) e 4,1 milioni di euro (-1,2%), con una quota del 22% tra freschi e trasformati, un punto sopra le bevande. Ma come fare ad incrementare il flusso delle esportazioni (anche per compensare un mercato interno in declino del 5,7% negli ultimi 5 anni) e verso quali Paesi rivolgersi? Se ne è parlato al seminario “L’internazionalizzazione dell’impresa ortofrutticola. Risposte concrete ad esigenze emergenti” organizzato da Fruit Innovation, la nuova fiera dell’ortofrutta che debutterà a Fiera Milano Rho  dal 20 al 22 maggio 2015 con una mission: innovare e internazionalizzare il settore.

Le esportazioni sono molto variegate a seconda del prodotto: siamo leader nell’export delle pere (con 718mila tonnellate specie verso la Germania) stabili sull’uva da tavola che viene esportata per la metà, con il mercato americano e le varietà senza semi in crescita e siamo il secondo maggior produttore mondiali di kiwi (dopo la Cina), che esportiamo all’80% in 100 Paesi, mentre abbiamo ceduto su un prodotto storico come gli agrumi, sul quale la bilancia import/export è negativa.

I punti deboli per l’export sono stati sintetizzati da Marco Salvi, Presidente Fruitimprese:

Le barriere fitosanitarie: se non c’è un accordo bilateriale con il Paese in questione, frutto di un’attività politico-diplomatica, non si può esportare. In Giappone ad esempio possiamo esportare solo arance trasformate; in Cina esportiamo 15mila tonnellate di kiwi.

L’embargo russo: ha colpito duramente l’ortofrutta, perché incideva per il 39% delle esportazioni europee, ed è il maggiore importatore di pere.

I conflitti in Nord Africa e Medio Oriente: che minacciano un mercato estremamente promettente e in crescita.

La mancanza di una politica di espansione commerciale che coinvolga le imprese e concentri gli investimenti promozionali su mercati selezionati.

I costi più alti rispetto agli altri Paesi (anche la Spagna, diretto concorrente) per manodopera, energia e trasporti.

“È necessario fare sistema tra imprese, politica e università e ricerca. Sono già stati stanziati dal Ministero dello Sviluppo Economico (MiSE) 260 milioni di euro per il Made in Italy, che potrebbero permetterci di fare il salto di qualità. Bisogna investire in comunicazione: per le mele Pink Lady ad esempio si investono 10 milioni l’anno. Siamo leader di mercato in tanti prodotti, ma dobbiamo evitare di fare come per le arance, per le quali siamo diventati fanalino di coda dell’export: chi l’avrebbe detto 25 anni fa?” ha ammonito Marco Salvi, Presidente Fruitimprese.

Claudio Scalise, Managing Partner SGMARKETING ha individuato invece le opportunità da cogliere in questo momento, positivo per il cambio euro/dollaro favorevole, il prezzo del petrolio ai minimi storici e l’inizio della ripresa dei consumi. “Tra le tenenze che vedo la frontiera sempre più labile tra fresco e trasformato (vedi la IV gamma) e un export che ragioni in termini di filiera, dal produttore al distributore, al trasformatore”. Altra leva cruciale è l’adattamento della strategia ai diversi mercati, che chiedono cose diverse: consumo critico, servizio ed estetica i mercati maturi, per cui è di cruciale importanza la presentazione del prodotto; standard qualitativi, brand e servizio i mercati emergenti, per i quali l’ortofrutta da importazione è uno status symbol per la classe media; e prezzo per i Paesi “New Frontier” (Africa, India, Tirchia, Medio Oriente), dove l’ortofrutta è commodity.

La vendite retail, e la GDO in primis, coprono il 70%  delle vendite di ortofrutta nei Paesi maturi, e il 10%  in quelli "New Frontier". I drive di posizionamento di alcune catene europee e americane.
La vendite retail, e la GDO in primis, coprono il 70% delle vendite di ortofrutta nei Paesi maturi, e il 10% in quelli “New Frontier”. I drive di posizionamento di alcune catene europee e americane.

Federdistribuzione presenta il bilancio di sostenibilità della distribuzione moderna

«Siamo le aziende del prezzo giusto, non del prezzo basso»: così il presidente di Federdistribuzione  Giovanni Cobolli Gigli ha introdotto l’incontro di presentazione del secondo Bilancio di sostenibilità della Distribuzione moderna organizzata (Dmo). «Uno strumento – ha aggiunto – nel quale esprimere la nostra identità, dichiarando i valori forti intorno ai quali le aziende della Dmo rappresentano, pur nella loro diversità, un insieme coeso». Un concetto ribadito anche da Mario Gasbarrino, amministratore delegato di Unes, per il quale: «In un settore ad elevata competitività come quello della distribuzione, la sostenibilità è un fattore di incontro, di scambio delle best practice».

L’obiettivo del bilancio di sostenibilità (l’unico, salvo errori, che riguarda un intero settore) è infatti quello di «trasmettere l’idea che l’impegno delle imprese sull’ambiente, nei confronti  di collaboratori e clienti, verso i fornitori e la comunità non è sporadico o casuale, ma rappresenta un atto consapevole che entra a far parte della più autentica strategia d’impresa e sul quale il commitment è molto forte. È la testimonianza che la sostenibilità non viene più intesa solo come una leva di posizionamento, ma sta diventando una leva economica». Federdistribuzione, ricordiamolo, rappresenta un variegato universo di imprese distributive per un totale di 14,600 punti vendita, 60,6 miliardi di euro di giro d’affari, pari al 47,9% della Dmo.

Va detto che, poiché la cronaca ha il sopravvento sui temi di un convegno, a poche ore di distanza, la notizia che qualche centinaia di dipendenti di Auchan hanno occupato piazza Montecitorio in seguito al fatto che il retailer francese si appresterebbe a licenziare oltre mille dipendenti, quale effetto della crisi di questi anni e della necessità di una riorganizzazione della propria presenza in Italia (cìè anche chi paventa una sua uscita), getta qualche ombra su queste affermazioni. Tuttavia non ne mina la sostanza.

Nel completo rapporto di bilancio, gli aspetti citati da Cobolli sono sintetizzati in una serie di numeri a significare un percorso virtuoso, come l’ha definito Mario Molteni, direttore di Altis (Università Cattolica di Milano): «La seconda edizione del Bilancio di Sostenibilità di Settore racconta di aziende che credono e investono in iniziative di responsabilità sociale e ambientale, assumendo il ruolo di propulsore di crescita». Nelle otto aree oggetto dell’indagine (clienti, fornitori, collaboratori, comunità, certificazione, ambiente, comunicazione), che censisce 60 iniziative diverse delle imprese associate, le attività delle imprese della Dmo hanno tassi di penetrazione elevati, che sfiorano il 100% in alcuni casi come i sistemi di riduzione dei consumi energetici, l’attivazione del servizio di ascolto dei clienti, l’inserimento di informazioni addizionali sull’etichetta dei prodotti a Marca del Distributore.

«Il dato più significativo – ha sottolineato Molteni – è che in tutte le aree si registra un incremento, con l’eccezione delle certificazioni, ma per il semplice motivo che è già completamente presidiata».

L’area che registra l’evoluzione più significativa è quella dei fornitori: +15% rispetto all’indagine 2012. Le aziende distributive lavorano con i fornitori in logica di partnership e per una loro valorizzazione, favorendo un percorso di crescita delle PMI. Pratiche quali l’instaurazione con le PMI di un rapporto di lunga durata (79% delle imprese), la valutazione del Codice etico del fornitore o la firma congiunta di un codice di condotta (75% delle imprese), la dematerializzazione degli scambi di documenti (82% delle imprese) favoriscono nelle imprese fornitrici l’avvio di un percorso di Responsabilità Sociale d’Impresa e di innovazione.

Anche l’area clienti segna un trend positivo dell’11%. Nei confronti dei clienti le imprese distributive tutelano il potere d’acquisto e mostrano attenzione alle nuove dimensioni sociali, andando spesso oltre gli obblighi di legge.

sostenibilità Dmo 2014

«La sostenibilità – ha concluso Molteni – è diventata un aspetto strutturale del business per le imprese della Dmo, che svolge, per di più, un ruolo proattivo verso le imprese fornitrici e di educazione della clientela. Il fatto che la riduzione degli imballaggi sia aumentata del 18% e la riduzione dei rifiuti del 12% testimonia di un approccio pragmatico alla sostenibilità, che fa bene immediatamente al conto economico dell’impresa».

Sono numerosi gli spunti emersi dalla duplice tavola rotonda che ha discusso i risultati del bilancio di sostenibilità di settore. Proviamo a sintetizzarli.

Consumo di suolo. Per le imprese della Dmo che vuole continuare a investire e a crescere, il tema è particolarmente importante. Intorno al consumo di suolo, in discussione nei palazzi della politica,  si intrecciano infatti gli interessi delle comunità locali, quelli della Dmo (per la quale è centrale la redditività del punto vendita), quelli delle amministrazioni locali. «Ma dobbiamo operare tutti all’interno di un quadro di certezze: oggi quando si parte non si sa quando si arriva e quando e in quali condizioni si arriva a compimento del progetto», ha detto Valerio di Bussolo, direttore della comunicazione di Ikea Italia.

Anche perché, ha illustrato il presidente dell’Antitrust Giovanni Pitruzzella, sono numerosi i casi in cui le Regioni e le amministrazioni locali hanno posto vincoli all’apertura di punti vendita e agli orari di apertura, nonostante le disposizioni contenute nei decreti Cresci Italia e Salva Italia che avevano invece aperto le porte a una maggiore liberalizzazione al riguardo, tanto che l’Antitrust è dovuto intervenire presentando ricorsi contro gli atti degli enti locali.

Rapporti con i fornitori. Per Luigi Mastruobuono, direttore generale di Confagricoltura sono quattro le aree di lavoro comune con la Dmo: la condivisione di dati per comprendere e migliorare le relazioni con i consumatori; valorizzare la filiera agroalimentare che vale il 14% del Pil; l’internazionalizzazione, perché la Dmo può essere la piattaforma di diffusione dei prodotti italiani all’estero; la comunicazione per creare maggiore valore veicolando nuovi contenuti relativi alla sostenibilità.

E Mario Gasbarrino ha aggiunto che quando si parla di prodotti a marchio del distributore questi rapporti sono già a livelli elevati tanto che molte Pmi sono cresciute fino ad affacciarsi ai mercati internazionali grazie alla Dmo e che la valorizzazione dei prodotti locali in futuro è destinata a crescere. Non solo, ma «quando un distributore sognatore e un produttore inventore si incontrano si raggiunge un equilibrio perfetto. Tanto che con il nostro fornitore di acqua minerale abbiamo eliminato il fardello in polietilene, risparmiando circa 480 camion di plaastica indifferenziata. E noi valiamo solo l’1% del fatturato complessivo della distribuzione alimentare».

Convegno Bilancio di sostnibilità distribuzione moderna 2

Filiera. «Il futuro si giocherà su una visione della filiera diversa, con progetti a lungo termine. Ma occorre fare rapidamente un salto di qualità. Mi auguro che l’industria recuperi quella capacità di innovazione  che in questi ultimi anni è stata più appannaggio della distribuzione. Dobbiamo tornare a metterci in gioco per costruire una visione più integrata più documentata con la distribuzione e con l’agricoltura». Alberto Frausin, amministratore delegato Carlsberg Italia.

Eccedenze alimentari. La Francia recupera le eccedenze 6-7 volte di più che l’Italia. L’auspicio del presidente di Fondazione Banco Alimentare Andrea Giussani è che la lotta contro lo spreco possa diventare un processo ordinario all’interno delle imprese distributive, per far si che da opportunità etico-sociale possa diventare una normale attività. Dando poi evidenza dei risultati ottenuti per favorirne il contagio e la diffusione.

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