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Birra Peroni e Confagricoltura insieme per una filiera della birra sostenibile

Promuovere la sostenibilità della filiera agroalimentare italiana e della birra in particolare. È questo il senso dell’accordo siglato oggi tra Birra Peroni e Confagricoltura (nella foto Federico Sannella, Direttore Relazioni Esterne Birra Peroni e  Mario Guidi, Presidente di Confagricoltura), che si impegnano, attraverso le rispettive piattaforme, a collaborare insieme per la diffusione di tecniche e processi produttivi a basso impatto ambientale e per la tutela dei consumatori. In particolare, grazie all’approccio “Insieme dalla Terra alla Tavola”, adottato da Birra Peroni, e a “EcoCloud-EcoGrains”, fortemente voluto da Confagricoltura, non solo si tutelerà ancor di più il Made in Italy di qualità, ma si promuoverà ulteriormente la sostenibilità, il rispetto della tradizione e l’innovazione nel settore agricolo.

“La filiera della birra – ha commentato Mario Guidi – presenta grandi opportunità di sviluppo e crescita per l’agricoltura italiana ed è senza ombra di dubbio un fiore all’occhiello del Made in Italy che dev’essere tutelato affinché rimanga un’eccellenza. Per questo motivo, assieme a Birra Peroni, Confagricoltura ha deciso di promuovere, tra le imprese agricole associate, il protocollo “EcoCloud” basato su tecniche agronomiche eco-sostenibili.

L’accordo infatti prevede un programma di formazione che coinvolgerà entro il 2020 più di 1000 agricoltori italiani appartenenti alla catena di fornitura di orzo e mais, “per trasmettere alla filiera agricola gli strumenti e le competenze necessarie per aumentare la produttività, puntare sulla bontà delle pratiche di coltivazione, nonché incrementare la redditività”, ha sottolineato Federico Sannella, che ha aggiunto: “Questa strategia rientra perfettamente nel nostro approccio aziendale: “dalla Terra”, attraverso politiche agrarie rigorose e sostenibili, fino ad arrivare “alla Tavola”, con costanti attività di comunicazione finalizzate a un uso responsabile del prodotto e pertanto volte alla tutela del consumatore.”

Obiettivo 50 miliardi di export per il food italiano

La fotografia degli ultimi 12 mesi dell’export agroalimentare italiano delinea le sfide più importanti per un settore che ha condiviso con il Governo un piano strategico per portare entro il 2020 il valore delle esportazioni a quota 50 miliardi.

Nel corso della presentazione del padiglione Cibus è Italia Federalimentare ha illustrato l’“Atlante geografico del food made in Italy nel mondo”, sottolineando la presenza di 500 aziende che racconteranno anche digitalmente la tradizione del saper fare, le innovazioni tecnologiche, la sostenibilità e il futuro della produzione alimentare italiana.

Oggi 1 miliardo e 200 mila persone nel mondo consumano prodotti agroalimentari italiani, soprattutto vino, dolci, formaggi, pasta e ortaggi trasformati. Sono consumatori europei e nord-americani in primis, ma anche giapponesi, canadesi, russi, australiani, cinesi, coreani, turchi e via dicendo. E se è vero che viene esportato solamente il 20,5% della produzione globale alimentare italiana (una percentuale inferiore a quella di altri Paesi europei), va anche sottolineato che l’export italiano è mediamente di qualità superiore e, conseguentemente, ha valore e prezzo maggiore. Per esempio, la percentuale di export della Germania è del 33% sul totale prodotto, ma il valore aggiunto delle loro merci raggiunge appena gli 11 miliardi di euro di valore contro i 24 miliardi dell’export italiano.

Per aumentare l’export italiano è necessario fare sistema, imprese e Governo, ridurre la polverizzazione ed il nanismo delle imprese, sviluppare piattaforme distributive all’estero e contrastare barriere non tariffarie pretestuose e la contraffazione, come ha spiegato Luigi Scordamaglia, presidente di Federalimentare: “L’industria alimentare italiana è la più grande creatrice al mondo di valore aggiunto nella trasformazione dei prodotti alimentari. Le enormi potenzialità per l’export stanno tutte in questo semplice principio, sta a noi saperle cogliere. Non possiamo accontentarci del +3,5% dell’export registrato nel 2014 e neanche del +5/6% previsto per l’anno in corso. Dobbiamo essere più ambiziosi sfruttando il fatto che per la prima volta l’intero sistema Paese (reti diplomatiche, organizzazioni di supporto all’export, ministeri competenti etc) ha deciso di considerare l’aumento dell’export agroalimentare un obiettivo strategico da perseguire”.

La definizione di una alleanza virtuosa tra imprenditori, istituzioni e realtà fieristiche è stata sottolineata anche da Carlo Calenda, vice Ministro dello Sviluppo Economico che tra l’altro ha detto: “Sono convinto che la creazione del padiglione Cibus è Italia a Expo 2015 sia molto importante: l’Esposizione Universale di Milano è un evento che non solo sarà il foro di discussione delle strategie alimentari globali, ma che dovrà anche dare un ulteriore slancio all’export del nostro settore agri-food, il migliore del mondo per qualità e varietà dei prodotti. Questa grande area espositiva, predisposta da Federalimentare, darà ai visitatori la giusta prospettiva dell’industria alimentare italiana, del suo valore complessivo e delle sue specificità, così come dell’unicità del territorio nazionale e dell’enorme assortimento di eccellenze che viene dalla nostra tradizione. Cibus è Italia ben si affianca alle iniziative del governo nel quadro del nuovo Piano straordinario ‘Made in Italy’”.

Per meglio valutare l’ampiezza della domanda di cibo italiano che arriva da ogni continente è utile analizzare la Top ten dei nuovi mercati per il Made in Italy alimentare, riportata nell’“Atlante geografico del food made in Italy nel mondo” che evidenzia l’aumento dell’export nei nuovi mercati:

 

mercati agroalimentari a più alta crescita

Oltre a vino, dolci, latte e formaggi, pasta e ortaggi trasformati (passata di pomodoro in testa), esportiamo anche prosciutto, salumi e carni trasformate, caffè, riso, birra… Vecchi e nuovi classici del food made in Italy che vanno fatti conoscere e vanno spiegati ai consumatori di tutto il mondo.

Expo è uno dei momenti di condivisione della cultura alimentare italiana, della sua storia e della varietà unica dei suoi prodotti. 13 filiere dei prodotti italiani saranno presentati ai visitatori di Expo nei 5.000 metri quadrati a disposizione del padiglione “Cibus è Italia”: due piani destinati alla esposizione e un terzo, la lounge della terrazza dedicata a workshop, convegni, degustazioni, incontri con i buyer esteri, per un totale di 200 eventi, programmati nei 6 mesi di Expo. Il padiglione è dislocato vicino all’entrata Est di Expo, a poca distanza da Lake Arena e Padiglione Italia.

 

A Tuttofood Agrifood Covalpa, verdure surgelate, come fresche

Sostenibili, che parlano del loro territorio, sicuri e di qualità superiore: seguono i dettami dell’agricoltura del terzo millennio gli ortaggi e la verdura surgelati di Agrifood Covalpa, nati dal lavoro di oltre 400 produttori ortofrutticoli e di un Ufficio Agronomico dedicato. Con sede presso l’altopiano del Fucino (L’Aquila), il gruppo alimentare è nato nel 1989 dall’unione di sette cooperative agricole e presenterà la sua produzione a TuttoFood, che aprirà le porte a Fiera Milano il prossimo 3 maggio. «Quest’anno la manifestazione ha un ruolo molto importante. – afferma Valeria Picco, responsabile Marketing del gruppo – TuttoFood, infatti, sarà per noi produttori del settore largo consumo la vetrina ufficiale per mostrare le nostre referenze al pubblico internazionale. L’impronta eco-sostenibile che contraddistingue il tema centrale dell’EXPO, inoltre, si sposa perfettamente con i nostri principi produttivi e l’attenzione a una dieta più green sia nel senso di “più ricca di vegetali” sia nel senso di “meno impattante per l’ambiente” favorisce e sempre più favorirà il consumo di vegetali, freschi e surgelati».

Prodotti sicuri e di qualità superiore, che nascono nel cuore verde della Valle del Fucino, tra terre incontaminate e circondate dal Parco Naturale del Sirente – Velino, dalla Riserva naturale del Monte Salviano e dal Parco Nazionale d’Abruzzo. La scelta di semi sempre sicuri e di prima qualità, il terreno fertile e il microclima di montagna conferiscono al prodotto finito proprietà organolettiche eccellenti. Un connubio di naturalità e attenzione verso le tecniche agricole più innovative che prendono solo il meglio della tradizione e prediligono le pratiche di risparmio idrico e di coltivazione sostenibile, fanno del consorzio Agrifood-Covalpa una vera certezza in termini di sicurezza alimentare, qualità ed ecosostenibilità.

«Il nostro obiettivo da sempre è e sempre rimarrà quello di proporre verdure surgelate sempre più simili – per aspetto, gusto, consistenza – alla verdura fresca e di stagione. È questa la vera innovazione che il consumatore premia e riconosce» spiega Picco. Grazie alla lavorazione tempestiva e alla surgelazione istantanea a -18°C, infatti, è possibile “bloccare” tutte le ricchezze nutrizionali originarie del prodotto, mantenendole così intatte fino alla fine.

Agrifood Covalpa infine, grazie ai suoi impianti fotovoltaici e al suo impianto di cogenerazione, non solo evita l’emissione in atmosfera di 653 ton di CO2, 764 ton di SO2, 693 ton di NOX e 33 ton di polveri, ma favorisce anche la produzione di energia ecosostenibile.

Kamut una storia (bio) di successo che in cinque anni ha “convertito” 70 aziende italiane

In Italia dal 2011 a oggi oltre 70 aziende alimentari hanno deciso di convertirsi al biologico per poter entrare o rimanere all’interno della filiera Kamut. Il grano khorasan a marchio Kamut è infatti uno dei prodotti di punta del settore, sempre coltivato con metodo biologico, mai ibridato con varietà di grano moderne o geneticamente modificate e che, grazie al rispetto di un disciplinare da parte delle aziende licenziatarie, garantisce alta qualità lungo tutta la filiera.
La licenza per l’uso del marchio è gratuita, ma per ottenerla è necessario che l’azienda interessata abbia la certificazione biologica, che prevede che il 95% di ingredienti di origine agricola siano biologici.
Attualmente in Italia il grano khorasan Kamut conta 12 importatori e più di 300 aziende licenziatarie del marchio, tutte certificate biologiche, che rendono disponibili sul mercato circa 1200 tipologie di prodotti (dal pane alla pasta, dai biscotti al seitan, passando per il latte vegetale, la birra e gli snack). Sono, inoltre, circa 400 le pizzerie autorizzate che propongono nel loro menu la pizza preparata con farina di grano khorasan.

Un settore importante quello del biologico per il nostro Paese, in crescita costante da 12 anni a questa parte, con un incremento dell’8,8% dei consumi di prodotti a coltivazione biologica, nonostante il calo del 3,7% dei consumi alimentari convenzionali.

Il progetto Kamut prende vita alla fine degli anni ’80 dopo che per alcuni anni la famiglia Quinn, agricoltori da generazioni nel Montana, USA, aveva sperimentato la coltivazione di alcune quantità di semi di grano khorasan riscontrandone la particolarità rispetto ad altri tipi di grano moderno. Nel 1990 Bob Quinn, Presidente e fondatore di Kamut International, decise di registrare il termine “KAMUT” come marchio e di adottarlo per contraddistinguere un progetto di filiera mirato alla salvaguardia e alla produzione di questo cereale coltivato secondo il sistema dell’agricoltura biologica.

A Expo Milano 2015, Kamut International sarà presente all’interno del Parco della Biodiversità, l’area dedicata al biologico, con un’infografica animata che racconterà la storia, la qualità e le garanzie dalla postazione dedicata al marchio KAMUT presente nell’area Certificazioni e Servizi del Padiglione del Biologico.

Quote latte addio. La competizione è senza rete

Dopo poco più di trent’anni si chiude il capitolo delle quote latte. Da domani primo aprile, infatti, il mercato europeo del latte spariranno le protezioni  di cui hanno goduto molti Paesi e che in Italia ha sollevato le proteste degli agricoltori, di cui si era fatta interprete la Lega di Bossi con le marce, le occupazioni delle strade, le azioni plateali e dall’altro ha alimentato la compravendita di quote tra allevatori, che sono state più volte sanzionate dalla Commissione europea. Alla fine, però ha prevalso la linea di Bruxelles verso l’eliminazione degli aiuti e il dispiegamento del mercato libero.

Introdotto per la prima volta nel 1984, in un momento in cui la produzione dell’UE eccedeva di gran lunga la domanda, il regime delle quote ha rappresentato uno dei primi strumenti creati per superare le eccedenze strutturali. Le successive riforme della politica agricola comune dell’UE hanno orientato il settore sempre più al mercato e, in parallelo, hanno fornito una serie di strumenti più mirati per contribuire a sostenere i produttori in zone vulnerabili, come quelle montuose, dove i costi di produzione sono più elevati. La decisione sulla data ultima per l’abolizione dei contingenti è stata presa per la prima volta nel 2003, in modo da fornire maggior flessibilità ai produttori dell’Unione per soddisfare l’aumento della domanda, soprattutto sul mercato mondiale. La data è stata riconfermata nel 2008, accompagnata da un ventaglio di misure intese a realizzare un cosiddetto «atterraggio morbido».

Per il sistema agricolo italiano, che già ora produce11 milioni di tonnellate di latte e ne importa poco meno di 9 milioni, è un cambiamento importante – ma proprio per i motivi di cui sopra non certamente inaspettato o improvviso – perché il confronto con i produttori degli altri Paesi europei diventa senza rete di protezione e quindi tutto si gioca sulla competitività. Non solo di prezzo, che pure rimane un aspetto  importante, dato che la remunerazione degli agricoltori è un fattore di salvaguardia del sistema agricolo italiano.

Resta il fatto che il prezzo del latte in Italia è superiore alla media Ue e a quello di molti Paesi produttori ed esportatori. Anche sul versante della qualità, se è vero che quello italiano è riconosciuto di altissima qualità,la gran parte del latte prodotto viene venduto come latte fresco o serve per la produzione di formaggi Dop. Ma a sentire alcuni produttori di formaggi non a denominazione, il controllo qualità delle cagliate provenienti dal nord Europa unitamente alla tipologia di allevamenti assicura un prodotto di buon livello. A un prezzo inferiore a quello prodotto in Italia, che attualmente viaggia intorno ai 35 centesimi al litro.

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Per gli agricoltori, peraltro, è un prezzo che non ripaga i costi di produzione e, anche per la dimensione aziendale, non consente di fare investimenti. Si ripete, anche in questo caso, il mantra del nanismo delle imprese italiane che non riescono a competere con quelle estere più grandi, in un mercato dalle porte aperte.

Per contrastare in parte il ribasso dei prezzi, a febbraio Conad aveva annunciato di aver fissato a 38 centesimi al litro il prezzo del latte alla stalla per i prodotti a proprio marchio. «Siamo preoccupati per la crisi che sta affossando il settore – aveva dichiarato l’amministratore delegato Francesco Pugliese -. Conad, nella contrattazione con i fornitori per quanto riguarda il latte, i formaggi e i latticini a proprio marchio, ha ritenuto di fissare il prezzo da pagare per l’acquisto di latte alla stalla a 0,38 euro/litro, prezzo da cui partire per fissare il prezzo del prodotto finito. Una decisione maturata per superare le tensioni che stanno crescendo nel mercato, perché ritiene sia una questione di equità, per valorizzare l’italianità dei prodotti. La nostra è solo una tappa necessaria – aveva poi aggiunto – in attesa che si apra una riflessione generale su tutta la filiera. Ogni attore della filiera deve sentirsi responsabilizzato a garantire il futuro ad un comparto strategico per l’agroalimentare italiano, oggi a rischio di emarginazione, operando di comune accordo per ammodernarlo e migliorarlo».

Sull’altro fronte, Coldiretti denuncia che “solo 1 stalla su 5 è sopravvissuta al regime delle quote latte lasciando in vita in Italia solo 36mila allevamenti e con il pericolo che il prevedibile aumento della produzione comunitaria possa scatenare una vera invasione straniera in Italia, dove si importa già quasi il 40 per cento dei prodotti lattiero caseari consumati”.

Secondo Coldiretti il prezzo pagato agli allevatori è aumentato di poco più 10 centesimi mentre il costo per i consumatori è cresciuto di 1,1 euro al litro, a valori correnti. In altre parole oggi gli allevatori devono vendere tre litri di latte per bersi un caffè al bar, quattro litri per un pacchetto di caramelle, quattro litri per una bottiglietta di acqua al bar mentre quasi 15 litri per un pacchetto di sigarette. Ma soprattutto il prezzo riconosciuto agli allevatori non copre neanche i costi per l’alimentazione degli animali con effetti sull’occupazione, sull’economia, sull’ambiente e sulla sicurezza alimentare degli italiani.

«Questa situazione è determinata dal fatto che in Italia esiste un evidente squilibrio contrattuale tra le parti lungo la filiera che determina un abuso, da parte dei trasformatori, della loro posizione economica sul mercato, dalla quale gli allevatori dipendono» ha affermato il presidente della Coldiretti Roberto Moncalvo nel denunciare che «questa situazione rischia di aggravarsi con la fine del regime delle quote latte e non è un caso che nel mese di marzo comportamenti scorretti nel pagamento del latte agli allevatori hanno portato prima in Spagna e poi in Francia alla condanna da parte dell’Antitrust delle principali industrie lattiero casearie, molte delle quali, peraltro, operano anche sul territorio nazionale (il riferimento è a Lactalis, ndr) dove invece c’è  un “silenzio assordante” da parte dell’Autorità Garante delle Concorrenza e del mercato».

Come corollario non secondario resta la questione della indicazione di provenienza del latte. «In un momento difficile per l’economia dobbiamo portare sul mercato il valore aggiunto della trasparenza e lo stop al segreto sui flussi commerciali con l’indicazione delle aziende che importano materie prime dall’estero è un primo passo che va completato con l’obbligo di indicare in etichetta l’origine degli alimenti», ha affermato il presidente della Coldiretti Roberto Moncalvo. Ad oggi in Italia – continua la Coldiretti – è obbligatorio indicare la provenienza del latte fresco ma non per quella a lunga conservazione ma l’etichetta è anonima anche per i formaggi non a denominazione di origine, per le mozzarelle e gli yogurt.

Tuttavia l’abolizione del regime delle quote latte può costituire motivo di riorganizzazione della filiera produttiva, favorendo accorpamenti e fusioni tra imprese agricole, per far fronte anche all’aumento della domanda prevista nei prossimi anni.

Phil HoganSecondo il Commissario UE per l’Agricoltura e lo sviluppo rurale Phil Hogan (nella foto) : «L’abolizione delle quote latte è al tempo stesso una sfida e un’opportunità per l’Unione. La possiamo considerare una sfida, in quanto un’intera generazione di produttori di latte dovrà abituarsi a vivere in un ambiente completamente nuovo, segnato sicuramente da una certa volatilità. Ma al tempo stesso rappresenterà indubbiamente un’opportunità in termini di crescita e di posti di lavoro. Grazie a una maggiore attenzione sia ai prodotti a valore aggiunto sia agli ingredienti per alimenti «funzionali», il settore lattiero-caseario ha tutto il potenziale per diventare un motore economico per l’UE. Le zone più vulnerabili, per le quali l’abolizione delle sistema della quote può essere considerata una minaccia, possono beneficiare della gamma di misure di sviluppo rurale legate al principio di sussidiarietà».

Nonostante le quote, negli ultimi 5 anni le esportazioni UE di prodotti lattiero-caseari sono aumentate del 45% in volume e del 95% in valore. Le proiezioni di mercato indicano che le prospettive di crescita per il futuro rimangono forti — in particolare per quanto riguarda i prodotti a valore aggiunto quali i formaggi, ma anche per gli ingredienti utilizzati nei prodotti alimentari, nutrizionali e sportivi.

L’addio alle quote latte, però lascia un’eredità pesante: sono le multe comminate da Bruxelles per 4,5 miliardi di euro che, ha affermato il ministro delle Politiche agricole Maurizio Martina, sono costate più di 70 euro a ogni cittadino italiano.

Dall’Osservatorio Economico GS1 Italy aspettative di crescita e focus sulla filiera agroalimentare

La XX edizione dell’Osservatorio economico di GS1 Italy | Indicod-Ecr, che ogni sei mesi dal 2005 rileva il sentiment delle imprese del largo consumo associate, registra un significativo orientamento positivo nelle aspettative sul futuro, che vale per tutti i principali indici economici:ž dalla situazione economica generale del paese, che da 49 passa a 88, all’occupazione, che da 61 arriva a 85, agli investimenti, 87 contro 65 della scorsa edizione.

Questo orientamento ottimistico al futuro spinge verso l’alto il clima di fiducia generale, il cui indicatore da 64 arriva a 74. Anche le percezioni e le attese del giro d’affari nel proprio settore registrano un aumento:da 46 a 71 le percezioni  e da 73 a 90 le attese.

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A commento delle percezioni sull’andamento economico, Marco Cuppini, direttore del Centro Studi di GS1 Italy | Indicod-Ecr, rileva che «le aziende del largo consumo manifestano primi, deboli segnali positivi, e si rivelano più caute sulla percezione del presente, ma maggiormente ottimiste rispetto alle aspettative: la fiducia prosegue nel suo andamento altalenante».

Nel dettaglio delle percezioni relative al secondo semestre del 2014, le imprese del largo consumo sono maggiormente ottimiste rispetto alla situazione economica generale del paese (che da 39 passa a 55) e un po’ più caute su occupazione (da 50 a 51) e investimenti (da 65 a 61).

La filiera alimentare: un bene da valorizzare
In questa edizione l’Osservatorio ha dedicato un focus speciale al tema della “filiera agroalimentare”: per il 71,6% delle aziende rispondenti (che arriva all’81,8% nella GDO) l’Italia ha una forte vocazione al “mangiar bene” riconosciuta anche oltre confine, che si collega al principio secondo cui “mangiar bene vuol dire vivere meglio”, condiviso dal 68,8% delle imprese manifatturiere rispondenti.

«Di fronte a fattori di eccellenza come la filiera agroalimentare» spiega Marco Cuppini «le aziende sono pronte a riconoscerne il valore e auspicano interventi mirati a rilanciare opportunità di crescita sia in Italia sia all’estero».

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Sarebbe utile per il 60% delle imprese manifatturiere e GDO valorizzare un “modello italiano” basato su tradizione-cultura-modernizzazione che possa essere riconosciuto anche all’estero, oltre a predisporre interventi mirati ad attrarre investimenti, a sostenere l’export (62% dei rispondenti) e a consolidare la collaborazione tra gli operatori della filiera, come sottolinea il 73% circa della GDO rispondente.

La sintesi e tutti i risultati dell’Osservatorio Economico suddivisi per Tipologia di impreseMisure e Indicatori possono essere consultati qui

Bilancio 2014 Asiago DOP: produzione stabile, redditività in crescita

Bilancio 2014 positivo per l’Asiago Dop e per le 159 aziende produttrici. L’anno infatti si è chiuso con una leggera crescita nelle produzioni totali passate dalle 1.620.136 forme del 2013 alle 1.626.198 forme del 2014, con un aumento pari a +0,37%. Grazie al piano di crescita programmata introdotto un anno fa, che ha garantito quotazioni stabili per tutto il 2014, è stato possibile – spiega una nota del Consorzio Tutela Formaggio Asiago – “non solo garantire una diversa redditività rispetto al passato ma, anche e soprattutto, di concentrare le energie sul miglioramento continuo della qualità, a tutto vantaggio dell’immagine complessiva del prodotto e della sicurezza del consumatore”.

Il 2014 segna inoltre una parziale staffetta tra le due principali tipologie di formaggio, con la riduzione del 3,16% della produzione di Asiago DOP Fresco e l’aumento del 22,86% rispetto al 2013 della produzione di Asiago DOP Stagionato. In dettaglio, la produzione di Asiago Fresco è stata di 1.356.132 forme (-44.191 forme), mentre quella dell’Asiago Stagionato di 270.066 forme (+50.253).

Per quanto riguarda i mercati esteri, le esportazioni di Asiago DOP negli ultimi cinque anni sono cresciute a volume del 40,9% e a valore del 64%, con un 2014 che vede oltre 1.600 tonnellate esportate e un +7,6% del fatturato export rispetto all’anno precedente.  Da segnalare il trend positivo nelle aree in cui il Consorzio ha messo in atto azioni promozionali. In Germania, dove l’export – in precedenza stabilmente ancorato alle 100 tonnellate annue – è raddoppiato nell’arco degli ultimi due anni, sfiorando le 200 tonnellate esportate nel 2014 ed avviandosi ad ulteriori incrementi nel corso del 2015. A fine 2014, la classifica dei paesi di destinazione delle vendite estere conferma al primo posto la Svizzera seguita dagli Stati Uniti e dalla Germania. Buone anche le performance in Francia e Austria mentre crescono le occasioni di consumo in Croazia, Canada e Australia.

Pugliese contro Assomela: Fruit Innovation riunisce la filiera e guarda all’export

Ferma presa di posizione del presidente di Fruit Innovation 2015 Francesco Pugliese nei confronti di Assomela, l’associazione che riunisce i Consorzi dei produttori di mele del Trentino e dell’Alto Adige (e di altre province), che aveva annunciato qualche giorno fa di non voler partecipare a nessuna fiera del settore ortofrutta in programma quest’anno in Italia, con riferimento al fatto che nel 2015 sono previste Fruit Innovation il 20-22 maggio a Milano, in concomitanza con Ipack Ima e con Expo, Fruit Gourmet (alcuni giorni prima a Verona) e Macfrut (Rimini). La motivazione? In sintesi, l’attesa di “un confronto urgente e necessario per giungere ad un evento italiano unico… con un orientamento internazionale importante”.

“Mi stupisco e non comprendo – ha affermato Pugliese – le ragioni del comunicato emesso da Assomela in merito agli eventi fieristici per il settore ortofrutticolo nel 2015. Un evento forte, con un orientamento internazionale importante e propositivo tanto auspicato da Assomela c’è già ed è Fruit Innovation 2015, a Milano,  in quanto è  la fiera fortemente voluta e sostenuta con impegno dai settori e dalla distribuzione. Non a caso ne ho accettato la presidenza”.

Fruit Innovation nasce infatti dal supporto di una cabina di regia e da un comitato di orientamento di cui fanno parte attivamente il mondo della produzione organizzata, delle grandi imprese private, del commercio, della distribuzione e delle tecnologie, che sono i veri protagonisti del progetto fin dalla sua iniziale messa a punto. È una joint-venture tra Fiera Milano e Ipack-Ima e conta su promotori come FruitImprese, Unaproa, Fedagromercati, Confagricoltura, Coldiretti, Fedagri Confcooperative Lombardia

Un approccio di filiera con un orizzonte internazionale, aggiungiamo noi, che viene indicato da tempo e anche dal ministro Martina come una delle priorità strategiche per il sistema agroalimentare italiano (v. il convegno organizzato a Marca a gennaio). Un richiamo che dovrebbe guidare i protagonisti coinvolti nella filiera dell’ortofrutta, cui le divisioni non giovano.

“Alla luce di queste premesse – conclude Pugliese – non capisco la posizione dello stare a vedere. Ogni decisione è legittima ma non si può dire che manchi la fiera sulla quale puntare”.

Fruit Innovation: in un convegno le strategie per l’export dell’ortofrutta

È promosso da Fruit Innovation, la nuova fiera internazionale in calendario a Milano dal 20 al 22 maggio prossimi per iniziativa di Fiera Milano e Ipack-Ima spa, il convegno che si svolgerà il 14 aprile prossimo al centro Congressi della Fondazione Stelline a Milano. Tema: “L’internazionalizzazione dell’impresa ortofrutticola. Risposte concrete ad esigenze emergenti”.

“Il Seminario – spiega Claudio Scalise, managing partner di SG Marketing, la società che ne sviluppa i contenuti – è di elevato profilo e di respiro internazionale, perché raccoglie le testimonianze di aziende del settore e non, che hanno intrapreso un cammino vincente che le ha portate a espandersi fuori dai confini italiani. Ci concentreremo sulle strategie che le aziende possono porre in essere per affrontare i nuovi mercati, attraverso l’esposizione di best practice, ossia modelli organizzativi di successo che sono già stati adottati”.

A parlare saranno i manager di Dimmidisì (Massimo Bragotto, direttore commerciale), Consorzio Vog (Gerhard Dichgans, direttore generale), Zespri International (Bert Barmans, general manager Zespri Europe), Caviro (Nicolò Tagliarini, country manager Russia – USA) e Unitec (Angelo Benedetti, presidente). L’introduzione sarà affidata a Marco Salvi, presidente di FruitImprese, mentre le conclusioni saranno a cura di Luca Bianchi, capo Dipartimento del Ministero delle Politiche Agricole.

Il settore dell’ortofrutta guarda con fortissimo interesse all’export, così come l’intero comparto agroalimentare italiano. L’esportazione del food Made in Italy oggi vale oltre 34 miliardi di euro e le aspettative parlano di 50 miliardi in 3 anni. In questo scenario l’ortofrutta fresca rappresenta il secondo comparto dopo il vino. Significa quindi che vi sono potenzialità inespresse che devono essere ancora sfruttate, che nel caso dell’ortofrutta, sottolinea Scalise, “condurranno le imprese a guardare con interesse a Paesi ancora non ‘esplorati’, soprattutto quelli extra-europei. Il tema è dibattuto ormai da anni: ora è tempo di agire”.

Fruit Innovation, organizzato da Fiera Milano e Ipack-Ima, vedrà coinvolta SG Marketing anche nell’organizzazione di un secondo convegno che si terrà durante l’evento (il 22 maggio), dal titolo: “Raccontare sul punto vendita il valore del prodotto ortofrutticolo: best practice internazionali”. Verranno in questo caso presentate testimonianze di insegne che hanno lavorato su modalità innovative di valorizzazione dell’ortofrutta fresca sul punto vendita.

Gli oli di semi Oleificio Zucchi certificano la carbon footprint

I risultati ottenuti dalla certificazione della Carbon Footprint sono stati dati in occasione di una tavola rotonda alla fiera del consumo critico "Fa' la cosa giusta".

Primi in Italia, gli oli di semi dello storico Oleificio Zucchi hanno ottenuto la certificazione della carbon footprint, che garantisce il controllo sull’impatto ambientale di ogni fase della lavorazione dell’intera gamma degli oli di semi a marchio dell’azienda cremonese. Dopo avere messo in campo una serie di misure per ridurre l’impatto ambientale, l’azienda ha dovuto affrontare una serie di aspetti tecnici e procedurali nel processo di analisi del ciclo di vita e certificazione dell’impronta di carbonio degli oli di semi a marchio Zucchi. Al termine dell’intera analisi, l’Oleificio ha deciso di neutralizzare integralmente le emissioni di CO2 legate ai prodotti nel corso del 2013 attraverso l’acquisto e il ritiro di 180 carbon credits appartenenti allo standard VCS (Verified Carbon Standard). I crediti derivano da un progetto di riduzione della deforestazione programmata in Brasile (REDD) attuata in collaborazione con EcoWay.

Un modo per traghettare l’olio verso le esigenze del Terzo Millennio e garantirgli una sostenibilità sempre più trasparente, completa e misurabile. Una trasparenza che Oleificio Zucchi persegue da oltre 20 anni attraverso diversi canali: la redazione del bilancio di sostenibilità, arrivato quest’anno alla 10° edizione e le certificazioni ottenute (tra queste la SA8000 sulla Responsabilità Sociale d’Impresa) che dimostrano l’avanguardia aziendale.

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