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Ricerca Gea-Asset: ripensare la supply chain delle imprese alimentari

È urgente ripensare i processi di gestione della domanda e della supply chain delle imprese alimentari italiane: per sostenere il valore di prodotti eccellenti senza essere sopraffatti dalla crescente complessità del mercato; per recuperare margine ed efficienza, sfruttando al meglio la capacità produttiva di impianti spesso sovradimensionati; per muoversi con successo verso nuovi confini.

Questo, in sintesi, quanto emerge dall’indagine realizzata da Gea Consulenti di Direzione e Asset, presentata in occasione del convegno Food Boost – Liberare l’eccellenza con la supply chain che ha visto la partecipazione di oltre 200 rappresentanti dell’industria del food&beverage, secondo settore manifatturiero a livello nazionale con 6.800 imprese e € 133 miliardi di fatturato.

Ma in quale misura essere eccellenti in questi ambiti costituisce un reale vantaggio competitivo, in particolare per lo sviluppo sui mercati esteri?

«Oltre la metà delle aziende continua a sprecare capitali perché non è in grado di realizzare previsioni accurate, che siano di supporto a una programmazione strategica e ottimizzata delle attività produttive. In un mercato globale sempre più esigente e complesso, non basta guardare a come si è sempre fatto in passato e non possiamo più permetterci che questo continui a penalizzare i nostri marchi», ha commentato Luigi Consiglio, Presidente di Gea Consulenti di Direzione. «È vitale rivedere con urgenza i processi di gestione dell’intera supply chain in un’ottica più evoluta, integrata e interfunzionale; una svolta necessaria per recuperare efficienza e accelerare la crescita della nostra industria alimentare, in Italia come all’estero».

«Incremento della gamma, competizione sempre più sul tempo, pressione sulla riduzione dei costi e globalizzazione sono fenomeni che caratterizzano la maggior parte dei settori industriali; nel caso del food&beverage la complessità è enfatizzata dalla presenza di numerosi canali da servire contemporaneamente, tenendo conto delle rispettive specificità e da normative sempre più stringenti. Sfide sempre più difficili richiedono approcci sistemici e soprattutto progettualità, non solo nell’affrontare i percorsi di internazionalizzazione, ma anche nel recupero di efficienza dei sistemi produttivi e nel recupero di efficacia dei processi di pianificazione e programmazione della produzione e della catena di distribuzione» ha aggiunto Andrea Sianesi, Partner di Asset.

Il campione e le aree di indagine

L’indagine Gea-Asset ha preso in considerazione un campione selezionato di 30 aziende italiane – rappresentativo di tutte le categorie merceologiche dell’industria alimentare e di diversi livelli di grandezza e fatturato – analizzandone l’assetto organizzativo (dipendenze gerarchiche, responsabilità operative e gestionali, momenti di condivisione interna delle informazioni), le performance (livello di servizio erogato e impegno del capitale circolante) e le prassi adottate nella gestione dei processi di demand management e operations planning, nonché gli strumenti informativi a supporto.

In particolare, il panel di intervistati è composto in prevalenza di imprese del settore beverage (36%), seguito da caffè e dolciumi (20%), pasta e bakery (16%), carne e salumi (16%), latte e derivati (16%) e comparto ortofrutticolo (4%).

Più dell’80% sono aziende grandi (44% con più di 250 dipendenti) e medie (40% tra 50 e 250 dipendenti); in termini di fatturato, per il 36% delle imprese coinvolte è compreso tra 100 e 500 milioni di euro, per il 24% tra 50 e 100 milioni, superando il miliardo di euro nel 20% dei casi, per un giro d’affari complessivo di oltre € 20 miliardi. Per il 44% del campione, l’export rappresenta meno del 10% del fatturato e solo per il 16% la percentuale supera il 50%; mentre la quota derivante dalla Gdo rappresenta oltre la metà del fatturato per due terzi delle imprese, superando l’80% nel 40%.  Tutte le aziende prese in esame – concentrate prevalentemente nel Centro-Nord Italia (28% in Lombardia, 24% in Emilia Romagna e 20% in Veneto) – hanno la produzione in Italia, di cui la maggior parte con 1 o 2 stabilimenti produttivi.

I risultati dell’indagine

Solo un terzo degli intervistati, infatti, si ritiene soddisfatto dei processi adottati attualmente dalla propria azienda e il 50% conferma di avere intrapreso una revisione di tali procedure, concentrandosi soprattutto sul demand management.

Di fronte alla diffusa incapacità di realizzare previsioni oculate, la grande maggioranza delle imprese sopperisce alla difficoltà di anticipare la domanda affrontando il mercato in ottica perlopiù reattiva. Se, da un lato, solo il 25% degli intervistati ritiene di avere una buona accuratezza delle forecast, dall’altro più dell’80% sostiene di avere performance eccellenti nella flessibilità di risposta al cliente, pagando tuttavia un costo elevato in termini di efficienza interna e di impegno di capitale circolante. Questa elevata variabilità e scarsa prevedibilità della domanda impatta fortemente sulle attività di pianificazione e sui processi produttivi, tanto che meno di un quarto delle aziende del campione riesce ad avere più di una settimana di orizzonte congelato.

Guardando agli aspetti che ad oggi contribuiscono a rendere soddisfatti il 30% dei rispondenti in materia di demand planning, a fare la differenza sono la raccolta di più informazioni bottom-up dalla forza vendita e sulle promozioni dei clienti (nel 90% dei casi), una maggiore frequenza di aggiornamento delle previsioni (più che mensile per il 65%) e l’utilizzo di algoritmi a supporto (75%). Aspetti che si riflettono anche sulle aziende più soddisfatte del proprio operations planning che, potendo contare su una buona accuratezza previsionale della domanda (63% degli intervistati) riescono a garantire alla produzione un orizzonte congelato (nel 75% dei casi) e, quindi, a limitare al minimo le inefficienze, pur rivedendo spesso i piani.

Tre modelli di gestione del rapporto domanda-supply chain

In generale, tuttavia, si rilevano livelli di maturità differenti nella definizione dei ruoli deputati a gestire l’interfaccia tra la domanda e supply chain. Oltre il 50% delle imprese coinvolte non ha un processo definito per il demand management, che risulta o del tutto inesistente (26%) oppure assimilato alle vendite (26%) denotando grande confusione circa i confini di responsabilità tra le varie funzioni aziendali. Laddove esiste un’unità dedicata alla gestione della domanda (48%), questa fa capo prevalentemente all’area Supply Chain (55%). Entrando nel dettaglio dei tre livelli:

– quando il ruolo del demand manager è inesistente, le performance aziendali sono basse, vi è una scarsa visibilità sul mercato in quanto le informazioni sono raccolte solamente dalle vendite, l’export conta per una piccola percentuale del fatturato (10% circa) e vi è una limitata incidenza delle promozioni.La maggiore preoccupazione di queste aziende risiede nel rispondere alla crescente complessità del settore.

– se è assimilato alle vendite, le performance sono mediamente buone, vi sono da 3 a 5 persone che se ne occupano ma vi è una forte distinzione tra chi ha la responsabilità di gestire il mercato rispetto a chi si occupa della supply chain, l’export conta per il 20%-30% del fatturato e vi è un’incidenza delle promozioni fino al 50%. La principale criticità per questo tipo di imprese consiste nel gestire in maniera efficace il coordinamento interno tra le diverse funzioni.

– laddove esiste un’unità dedicata, le performance sono alte e la funzione dispone solitamente di molte risorse, che realizzano previsioni raccogliendo informazioni attraverso meeting periodici interfunzionali e tenendo conto sia della BaseLine sia delle promozioni, che anche in questo caso hanno un’alta incidenza; l’export rappresenta oltre il 50% del fatturato e la produzione è spesso legata a un’elevata stagionalità. La difficoltà per queste aziende sta nel gestire al meglio la collaborazione con gli attori esterni della filiera (fornitori e retailer).

Il nodo dei sistemi informatici

Infine, alla luce della crescente necessità di amministrare grandi volumi di dati complessi, diventa fondamentale avvalersi di adeguati strumenti informativi che siano di effettivo supporto ai processi decisionali e operativi dell’azienda, in un’ottica quanto più integrata. Ciononostante, guardando al campione di imprese interpellate, si evidenzia un’elevata frammentazione anche nell’utilizzo dei sistemi informatici. Spesso la scelta di soluzioni diverse, che tendono a tenere separati il demand planning (DP) dall’operations planning (OP) ostacola l’adozione di un approccio realmente interfunzionale e flessibile. In particolare: il 23% degli intervistati utilizza Excel quale unico programma a supporto per entrambe le funzioni; i sistemi ERP sono utilizzati dal 18% per il DP e dal 27% per l’OP, sebbene molto spesso integrati con Excel (rispettivamente nel 75% e 83% dei casi);  il 59% si avvale di un sistema verticale o software ad hoc per il DP, in linea con quanto accade per l’OP (50%), sempre sfruttando anche Excel per alcune funzionalità (62% DP vs 9% OP).

Il quadro complessivo che emerge dall’indagine GEA-ASSET sul food italiano è quindi quello di un settore in cui è sempre più forte l’esigenza di evolvere verso nuove prassi virtuose, che favoriscano l’adozione di un unico processo integrato di Sales & Operations planning, basato su: un ascolto più attento del mercato e dell’azienda stessa, per raccogliere le informazioni utili al processo su vari fronti, con rapidità e precisione; una maggiore collaborazione, sia tra le diverse funzioni aziendali sia verso l’esterno, con clienti e fornitori;  una misurazione più efficace delle performance del processo e un nuovo approccio all’innovazione, che sappia guardare ad esempi eccellenti anche fuori dal proprio settore, per ripensare a proprio vantaggio le regole del gioco.

Istat: vendite a febbraio positive, crescono discount e supermercati

Una crescita dei consumi ancora fragile e incerta è quella registrata ieri dall’Istat relativamente al mese di febbraio: per il terzo mese consecutivo le vendite al dettaglio registrano un segno positivo. La gdo cresce, in particolare i discount.

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Rispetto a un anno fa, scrive l’Istat, l’indice grezzo delle vendite segna un aumento dello 0,1%. L’indice del valore delle vendite di prodotti alimentari aumenta dello 0,5%, quello dei prodotti non alimentari, invece, diminuisce dello 0,3%. Restano invece negative le vendite rispetto a gennaio 2015: -0,2% quelle dei prodotti alimentari e -0,1% i non alimentari.

Nel confronto con il mese di febbraio 2014 si registra una variazione positiva dello 0,8% per le vendite delle imprese della grande distribuzione e una diminuzione dello 0,5% per quelle delle imprese operanti su piccole superfici.

Nella grande distribuzione le vendite aumentano, in termini tendenziali, dell’1% per i prodotti alimentari e dello 0,5% per quelli non alimentari. Nelle imprese operanti su piccole superfici le vendite segnano variazioni negative dell’1% per i prodotti alimentari e dello 0,5% per quelli non alimentari.

Schermata 2015-04-23 alle 10.06.10Con riferimento alla tipologia di esercizio della grande distribuzione invece a febbraio 2015 si registrano aumenti dello 0,4% per le vendite degli esercizi non specializzati e del 3,5% per quelle degli esercizi specializzati. Tra i primi, aumentano dello 0,2% le vendite degli esercizi a prevalenza alimentare e del 2,8% quelle degli esercizi a prevalenza non alimentare.

In particolare, per quanto riguarda gli esercizi non specializzati a prevalenza alimentare, aumentano le vendite di discount e supermercati (rispettivamente +3,6% e +0,2%) mentre diminuiscono quelle degli ipermercati (-1,5%).

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Di fronte a questi dati, il presidente di Federdistribuzione Giovanni Cobolli Gigli ha commentato positivamente il fatto che “si registri una leggera crescita delle vendite di prodotti alimentari, un fattore che può contribuire a dare stabilità all’ancora debole percorso di ripresa della domanda interna”, ma ha rilevato che il -0,3% dei non alimentari sia un “segno che non si è ancora consolidato nei consumatori un atteggiamento di fiducia sul futuro che li possa portare ad affrontare con più regolarità e intensità anche acquisti più impegnativi”.

Ricordando poi che il recente Documento di Economia e Finanza emesso dal Governo va nella direzione giusta, escludendo per il 2016 l’applicazione delle clausole di salvaguardia inserite nelle ultime Leggi di Stabilità che, tra l’altro, avrebbero previsto l’innalzamento delle aliquote Iva dal prossimo anno, ha aggiunto: “Riteniamo però che sia importante fare di più: le imprese distributive per programmare i propri investimenti hanno bisogno di scenari certi, e la spada di Damocle di un possibile aumento dell’Iva dal 2017, con i suoi effetti su prezzi e consumi, frena i progetti di sviluppo. È necessario quindi rafforzare spending review, vendita del patrimonio dello Stato e lotta all’evasione per recuperare le risorse necessarie a scongiurare l’aumento delle imposte indirette. Per la GDO permane inoltre un ulteriore punto di preoccupazione: la reverse charge, un dispositivo che, se attuato, comporterebbe per il settore gravi problemi finanziari ed economici, oltre a significativi costi organizzativi”.

Ipsos per Tuttofood delinea il futuro del cibo, in un confronto tra generazioni

Due generazioni a confronto per delineare il futuro del food: è l’operazione svolta da Ipsos e commissionata da Tuttofood (dal 3 al 6 maggio 2015 a fieramilano Rho) che ha messo i “Millennials” (18-29 anni) e i “Baby Boomers” (50-64 anni). La ricerca, di ambito internazionale ma focalizzata sull’Italia, ha delineato alcune tendenze, atteggiamenti e desiderata nei riguardi dell’alimentazione, dentro e fuori casa.

Occhi puntati sull’etichetta
Molti i punti di contatto tra generazioni quando si parla di food: l’importanza della gratificazione emotiva ad esempio, che accomuna il 77% dei Millennials e il 76% dei Baby Boomers, ma anche il cibo sano, importante per l’87% dei “grandi” e il 75% dei giovani. Il risultato è un approccio che sposa piacere e salute, una sorta di salutismo non punitivo. Proprio per questo aumenta l’attenzione verso le etichette, un tempo inutile orpello del retro confezione ed oggi sempre più lette, alla ricerca di due elementi: le proprietà nutritive (le cerca il 56% dei Baby Boomers e il 54% dei Millennials) e i valori nutrizionali (importanti per il 48% dei junior e il 56% dei senior).


Al prodotto industriale, che non è demonizzato ma visto come necessario, si chiede però di essere “smart”, meno corrente, mantenendo le sue caratteristiche di economicità ma insieme a un approccio sostenibile, per la salute e l’ambiente

Un’ondata che non accenna ad arrestarsi è quella del biologico: oltre un quinto dei consumatori più giovani (23%) compra solo prodotti biologici, quota che scende al 18% tra le schiere dei loro genitori.

Nel fuori casa vince lo street food, a casa fusion e creatività
Quando si mangia fuori casa lo street food si candida come concorrente di cibi pronti o confezionati: oltre al piacere di mangiare bene e provare sapori diversi dal solito, sempre più il consumo di pasti fuori casa sarà orientato alla comodità, come richiedono i Millennials (+10% rispetto ai loro “genitori”).
La cucina domestica, tratto distintivo del Bel Paese, che totalizza il valore indice più alto in assoluto (47) seguito da USA (42), Giappone (38), Cina (37) e Brasile (27), vede dominare sperimentazione e creatività, condivisione sui social, apertura alla cultura etnica, superamento di vecchi stereotipi con l’uomo sempre più presente dietro ai fornelli, utilizzo di strumenti tecnologici e prodotti come preparati e basi che velocizzano tutti i processi. I cibi stranieri che più hanno influenzato la cucina italiana sono Kebab, Hamburger e Sushi mentre se si esaminano piatti e ricette made in Italy che maggiormente hanno influenzato la cucina di altri Paesi, secondo i Millennials si tratta senza dubbio di pizza, pasta ed espresso/cappuccino sostituito dal parmigiano/grana per i Baby Boomers.

I sapori del 2015: salato, leggero, tradizionale rivisitato
Quali sono i sapori che si imporranno nell’anno a venire, cosa ricercheranno i consumatori a tavola? La ricerca Ipsos risponde anche a questa domanda: il mood generale è verso il salato, ma con poco sale. Il 66% degli intervistati pensa che nell’anno in corso ci sarà una ricerca di gusti sapidi, più maturi, che si rifletterà nella tendenza a piatti e alimenti salati piuttosto che dolci. Per il 2015 il 70% degli intervistati ritiene però che sarà necessaria la ricerca di piatti e ricette in grado di coniugare gusto e attenzione alla salute. La maggioranza degli italiani infine (il 60%) ritiene che il 2015 gastronomico sarà l’anno della riscoperta delle origini e dei sapori tradizionali, con una polarizzazione netta: gli intervistati più maturi sono orientati verso un ritorno dei grandi classici della cucina italiana, mentre i più giovani sono più propensi a pensare che il 2015 sarà un anno di svolta orientato a una cucina innovativa e a una ricerca dell’atipico. La “quadratura del cerchio” potrebbe essere quel che Ipsos chiama un “ritorno all’innovazione”, con una rivisitazione di piatti tradizionali alla luce di nuovi gusti.
Parimenti, il 53% degli intervistati ritiene che il 2015 gastronomico sarà nel segno del rassicurante, con cibì delicati, in grado di soddisfare il palato senza stufare; mentre il 47% ritiene invece che il 2015 sarà l’anno delle sensazioni forti, da esplicarsi nella ricerca di gusti decisi e sapori piccanti.
Spostando l’orizzonte ai prossimi 2-3 anni, ci sarà una crescita del fresco e del biologico.

Marca: affascina soprattutto gli uomini
La pubblicità non domina più la mente dei consumatori, che tendono ad affidarsi molto più al passaparola e alle opinioni degli altri consumatori. Sostanziale in questo la differenza di genere, con le donne che prestano molta attenzione ai giudizi sui prodotti mentre gli uomini saranno sempre più brand oriented e quindi portati all’acquisto di prodotti di marca. Nel medio periodo la reputazione dei brand passerà sempre di più attraverso la rete di relazioni (on e off line) e sempre meno dall’etichetta e dall’esperienza storicizzata.

Rizzoli Emanuelli, una prima a Tuttofood

Innovazione e tecniche di lavorazione artigianali caratterizzano l’offerta di conserve ittiche che Rizzoli Emanuelli produce a Parma dal 1906  che saranno in mostra per la prima volta a Tuttofood (3-6 maggio a Fiera Milano Rho)

In luce la nuova linea di Rizzoline del Mar Adriatico, alici pescate  con la tecnica sostenibile “al cerchio”, disponibili in tre varietà: in olio d’oliva, in olio extravergine di oliva e arrotolate con cappero. Per mantenerne inalterato il sapore e la freschezza, sono confezionate in atmosfera protettiva e racchiuse in un packaging semiflessibile dotato di finestra con film trasparente che protegge dai raggi UV e O2, facile da aprire e contro lo spreco di prodotto. Le nuove Rizzoline hanno la certificazione di prodotto italiano Italcheck che consente di tracciarne l’intera storia, dalla pesca alla tavola.

“Abbiamo scelto di partecipare, per la prima volta, a TuttoFood per diverse motivazioni: la maggiore enfasi che avrà questa importante manifestazione con la concomitanza di Expo e la presenza di buyer italiani e internazionali verso i quali puntiamo per consolidare il nostro percorso di sviluppo. Saremo presenti in maniera significativa, come uno dei player di riferimento nel settore, con l’obiettivo di incrementare sia la crescita nazionale sia l’export”, ha dichiarato Roberto Sassoni, Direttore Generale di Rizzoli Emanuelli.

Le 25 nomination all’Oscar dell’Imballaggio

Ancora poche settimane per svelare quali sono le soluzioni che riceveranno l’Oscar dell’Imballaggio, il premio che ogni anno viene assegnato dall’Istituto Italiano Imballaggio ai packaging con caratteristiche di innovazione interessanti.

I 25 finalisti sono stati esposti al pubblico durante tutto il periodo della Milano Design Week appena conclusa. La premiazione sarà il 20 maggio a Ipack-Ima.

Qui una gallery con tutti i finalisti e una scheda che ne illustra le caratteristiche

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La via giusta dello sviluppo nella ristorazione, un Convegno a Tuttofood

Ha ancora senso investire in Italia nel settore della ristorazione? Sì, poiché le previsioni permettono di dimostrare che il giro d’affari del settore della ristorazione aumenterà del 2,6% nel quinquennio dal 2014 al 2019.

Il settore, che nel 2019 arriverà infatti a toccare circa 25,2 miliardi di euro di fatturato totale annuo, è quindi un business che può offrire buone opportunità e generare valore per il futuro.

Ma è necessario però sapere quali saranno le leve di settore e dove si trovano queste opportunità.

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È questo il tema al centro del convegno Fare ristorazione oggi. La “via” giusta per lo sviluppo, organizzato dalle riviste inStore e Mixer in collaborazione con DGM Consulting il 4 maggio (h14,30, sala Lem 2) all’interno di Tuttofood.

Il convegno prende lo spunto da una ricerca svolta da Gianluca Meloni, founder di DGM Consulting e docente alla Sda Bocconi che ha identificato gli ambiti territoriali più appetibili per il settore della ristorazione tenendo conto non solo dell’attuale distribuzione del mercato, ma anche delle sue evoluzioni future, conseguenti agli andamenti demografici e all’evoluzione del potenziale di spesa.

«La ristorazione italiana – afferma Meloni – ha saputo trovare in questi ultimi anni soluzioni in grado, da un lato, di valorizzare le tipiche tradizioni universalmente riconosciute come componenti essenziali del “Made in Italy”, e, dall’altro, di proporre soluzioni innovative e originali sempre più allineate ai nuovi modelli di consumo. Nonostante questo, però, il “giusto formato” non è più sufficiente a garantire crescita e sviluppo nel retail alimentare. Diventa sempre più indispensabile avere una solida strategia territoriale in grado di identificare le zone maggiormente appetibili, verificarne la coerenza rispetto al proprio sistema d’offerta, analizzare gli spazi lasciati aperti dalla concorrenza. La mancata conoscenza del territorio amplifica il rischio di errate aperture che, nella migliore delle ipotesi, riducono i livelli di marginalità (a causa di vendite non eccellenti e di costi logistici elevati) e, nella peggiore, producono danni dal punto di vista economico e dell’immagine.

È un passo preliminare che deve guidare tutte le aziende della ristorazione nella scelta della giusta location, ovvero della “via” (dell’indirizzo) giusta per qualsiasi nuova apertura».

Sono considerazioni che, amplificate, riguardano il successo dell’italian food nel mondo e della ristorazione italiana che ne diventa ambasciatrice. Ma, anche in questo caso il presidio territoriale (i mercati) diventa un fattore determinante.

Il programma del convegno, realizzato con il sostegno di Cigierre e McCain prevede le relazioni di Gianluca Meloni con focus Italia e mondo, gli interventi di due operatori della ristorazione – Marco Di Giusto, Amministratore Delegato Cigierre e Alessandra De Gaetano, Concepts Industrialization Director Autogrill Group che illustreranno l’esperienza dei due gruppi nel governare lo sviluppo territoriale in Italia e l’approccio al mercatoo internazionale e l’intervento di McCain incentrato sulla segmentazione dell’offerta ristorata in funzione dei formati

In conclusione una tavola rotonda sul tema delle strategie territoriali per tutte le imprese coinvolte lungo la filiera della ristorazione (fornitori, distributori, retailer) con testimonianze di alcuni player con una visione anche internazionale e una tavola ritonda nel corso della quale i temi affrontati saranno discussi e declinati secondo i diversi punti di vista dei partecipanti in rappresentanza della filiera: McCain (food), Nagel (logistica), Metro (distribuzione), Cigierre (ristorazione).

Qui il modulo d’iscrizione

Stabilimento di produzione in etichetta: su Twitter, la gdo alza l’asticella

Sulla questione dell’eliminazione dello stabilimento di produzione dall’etichetta dei prodotti alimentari, previsto dal Regolamento europeo 1169/2011, la Gdo dopo un periodo di silenzio, ha preso ferma posizione, anche sollecitata da ioleggoletichetta che aveva lanciato una petizione su internet, oggi sottoscritta da 24.160 firme.

Sulla questione, poi, il governo, al di là di dichiarazioni e qualche debole misura annunciata dal Ministero delle Politiche agricole, non ha propriamente preso il toro per le corna, considerando che prima dell’entrata in vigore delle Regolamento 1169/2011 l’indicazione dello stabilimento di produzione in etichetta era obbligatorio. Anzi l’atteggiamento del ministero dello Sviluppo economico è stato per lo più cincischiatorio.

Appare quindi quantomeno curioso che di fronte alla necessità di salvaguardare il valore del food italiano, per di più alla vigilia dell’Expo, non sia stato preso alcun provvedimento d’urgenza in questa direzione, ma si siano solo attivati i canali  ufficiali per avere risposte dalla Ue sulla possibilità di rendere nuovamente obbligatoria l’indicazione dello stabilimento di produzione.

In questo contesto la quasi totalità della gdo opernte in Italia ha deciso di continuare a mantenere tale indicazione sui prodotti a marchio del distributore.

Ma all’orizzonte le cose stanno prendendo un’altra piega con una possibile decisione della distribuzione di boicottare i prodotti di marca che non inseriscono tal dicitura.

L’iniziativa è partita su Twitter per  merito di Mario Gasbarrino, ad di Unes e uno dei più convinti assertori della necessità di mantenere la dicitura (insieme con Vito Gulli ad di Generale Conserve), tanto che sulle confezioni dove la materia prima è prevalente, come il latte e l’olio,  non solo viene indicato lo stabilimento, ma viene inserito anche il pittogramma della bandiera italiana per comunicare l’origine stessa del prodotto in maniera più evidente. «Non è questione di autarchia – scrive su Twitttter @mgasbarrino rispondendo a un follower che chiedeva di manatenere in assortimento la pasta secca con grano duro canadese per  via di un superiore apporto di proteine – ma di trasparenza. Basta che sulla confezione sia riportato il luogo di produzione».

Per chiarire, quindi, la battaglia che viene condotta a questo riguardo, non ha nulla a che vedere con la presunta difesa del prodotto italiano in sé – anche perché senza l’importazione di tante materie prime dal grano duro all’olio extravergine, non ci sarebbe la possibilità di esportare la pasta e i blend di evo caratteristici del made in Italy. Si tratta invece di una presa di posizione a difesa del sacrosanto diritto del consumatore di sapere dove viene prodotto il cibo che sta acquistando.

In un suo messaggio Gasbarrino afferma “#prodottodove: una #gdo ke si limita solo a firmare petizione @etichettiamoci è come UE ke lascia sola It su immigrazione!Ci vogliono fatti”. Raccogliendo un immediato endorsement di Francesco Pugliese ad di Conad (@fpugliese_conad) che scrive: “Condivido fatti non solo parole“.

E i fatti sono che, dice sempre Gasbarino, “io se trovo altri 10 retailers firmo un patto x boicottare (non vendere) prodotti senza luogo”, riscuotendo rapidamente l’adesione di Giorgio Santambrogio, ad di VéGé (@gsantambrogio1) che twitta: “Gruppo VéGé è con te” “Solo 1 forte cartello di retailers  può impedire eliminazione #prodottodove!”.  E a seguire quella di Eleonora Graffione, presidente di Coralis (@eleonoragraffio), che scrive: “Coralis unita ai colleghi per maggiori info al cliente. Abbiamo aderito fra i primi a @etichettiamoci e nostro programma prevede la tutela dell’indicazione del luogo di produzione”.   E aggiunge: “Proviamoci. Magarii è la volta che si accorgono che anche noi facciamo parte del Pil”.

Di rimando Gasbarrino annota. “Solo un forte cartello di retailers  può impedire eliminazione #prodottodove ! Siamo già in 3 disposti a non venderli”.

E conclude, per il momento: “Credo che saranno molti i distributori disposti al boicottaggio: si facciano avanti!“.

 

Giuseppe Villani eletto presidente del Consorzio del Prosciutto di San Daniele

Il nuovo consiglio di amministrazione del Consorzio del Prosciutto di San Daniele. Da sinistra, Adriano Milani, Matteo Zolin, Nicola Levoni, Lorenzo Bagatto, Marco Pulici, Villani (presidente), Alessio Prolongo e Stefano Fantinel (vicepresidenti), Sofia Kavcic, Alberto Bellegotti.

Nel 2014 le vendite del Prosciutto di San Daniele sono cresciute del 10%. Segno che, nonostante la congiuntura economica non favorevole, la qualità continua a premiare, così come il rigore nei controlli e l’eccellenza di uno dei prodotti simbolo di Made in Italy nel mondo.

“La conferma dell’apprezzamento del prosciutto di San Daniele da parte del mercato è motivo di grande orgoglio per il Consorzio e rappresenta l’ulteriore dimostrazione della forza del prodotto sia sul territorio nazionale che all’estero”, dichiara Giuseppe Villani, neopresidente del Consorzio del Prosciutto di San Daniele, eletto dal nuovo consiglio di amministrazione. “Questo consenso da parte del consumatore finale che continua a scegliere il nostro prodotto è espressione diretta del lavoro che è stato portato avanti dal Consorzio e del costante impegno dei produttori, volti a garantire la qualità del prodotto che diventa il valore differenziante nel momento dell’acquisto”, conclude Villani.

Le esportazioni, infatti, sono in crescita del 6% rispetto al 2013 e la quota export ha inciso per circa il 13% dei volumi di prodotto venduti, ricavato da circa 2 milioni e 500 mila cosce di suino fresche.

Buone notizie anche per il San Daniele affettato in vaschetta la cui produzione ha registrato una crescita del +17,3% sul 2013, attestandosi a oltre 16.500.000 confezioni certificate, corrispondenti ad oltre 308.000 prosciutti affettati e pari al 12,4% della produzione annua complessiva.

Nel 2014 sono stati inoltre verificati direttamente dagli agenti vigilatori del Consorzio del Prosciutto di San Daniele un migliaio di esercizi in Italia e 500 all’estero, in linea con il notevole aumento dell’attività di tutela e vigilanza attuato negli ultimi anni: nel triennio 2012-2014 sono stati verificati quasi 3000 esercizi in Italia e più di 950 all’estero.

Il temporary store di Ikea ripensa alla cucina e al cibo

Ha aperto i battenti qualche giorno fa il Temporary Store di Ikea a Milano, in zona Navigli, subito preso d’assalto dal popolo del design che in questi giorni affolla le strade di Milano. 1000 gli eventi grandi e piccoli, importani o meno significativi, frutto della creatività e del design che aprono, di fatto, il semestre di Expo a Milano.

E proprio il temporary di Ikea, che rimarrà aperto fino alla fine di settembre (unica presenza scandinava nel semestre di Expo), contiene al suo interno il Kitchen Lab,  frutto di un lavoro di alcuni anni legato all’uso intelligente della cucina svolto in collaborazione con gli studenti della Eindhoven University of Technology e dell’Ingvar Kamprad Design Center dell’Università di Lund con il coordinamento dell’incubatore londinese Ideo.

Qui vengono proposte riflessioni sulla cucina del 2025 che coinvolgono tutta la filiera del mangiare, perché contempla dei sistemi di refrigerazione di tipo passivo e a induzione (senza cioè il frigorifero), dei compattatori di rifiuti domestici, un compostatore da cui si ricavano pastiglie essiccate di compost mentre il liquido estratto, pieno di sostanze nutritive, serve per innaffiare le piante di casa, un germogliatore. E soprattutto un tavolo che contiene nascosto al suo interno un piano a induzione sul quale si cucina direttamente. Attraverso un sistema di riconoscimento dei cibi con fotocamere e proiettori posizionati sul soffitto, sul piano  del tavolo sono proiettati  suggerimenti d’uso e ricette di cucina.

Ma il Temporary Store contempla tante altre proposte sempre legate alla cucina e al food: dal ristorante (Food Lab) con le famose polpette svedesi, declinate anche in versione vegetariana e di pollo, allo studio di una cucina per bambini di Matali Crasset, allo spazio cucina progettato da Paola Navone, a nuovi modelli e nuovi prodotti, tutti contrassegnati dall’idea di sostenibilità, come il tavolo e gli sgabelli di sughero. Ovviamente è un vero e proprio punto vendita dove è possibile acquistare o progettare la propria cucina.

«Sono quattro i motivi alla base dell’apertura di questo spazio», spiega a inStore il direttore delle relazioni esterne di Ikea Italia Valerio Di Bussolo. «L’opportunità di presentare il lavoro svolto in questi ultimi anni sul cibo e sulla cucina in sintonia con Expo è il primo. Il secondo motivo è la ricerca di formule cittadine di negozi. Abbiamo un punto vendita urbano ad Amburgo, nella zona dei doccia, di 35 mila metri quadrati e abbiamo da poco aperto un pick-up store a Pamplona. Stiamo insomma cercando di individuare le diverse formule più idonee al tipo di tessuto urbano scelto. Qui a Milano, per esempio, è improbabile aprire una grande superficie (anche se non è un problema di location, visto che ci sono tante caserme), ma essenzialmente per il traffico automobilistico e per la sostenibilità ambientale.

Il terzo motivo è la focalizzazione sul cibo e sulla cucina, non solo in quanto prodotto, ma anche in termini di pianificazione e progettazione (da qui i progetti di Navone e di Crasset), perché ci è sempre stato imputato una proposta omologata e standardizzata. Infine, una presenza di marketing, per intercettare quella parte di potenziali clienti che ancora non frequentano i nostri punti vendita».

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Due nuove referenze per la pasta integrale biologica Del Verde

Fettuccine  Tagliatelle BIO-3DIl pastificio Delverde amplia la gamma di pasta inegrale bio con le fettuccine e le tagliatelle a nido, che si aggiungono a fusilli, penne, spaghetti, linguine, caserecce e mezzi rigatoni.

Il fatto di aver preferito la strada del biologico per la linea integrale, rappresenta un valore aggiunto di fondamentale importanza per Delverde: la pasta integrale, infatti, è ottenuta aggiungendo crusca alla normale semola di grano duro raffinata; la crusca, però, a differenza dei cereali raffinati, viene macinata per intero e non viene ripulita degli strati più esterni, dunque potrebbe trattenere inquinanti e additivi. Proprio per questo Delverde ha scelto di utilizzare esclusivamente semola biologica (prodotta sotto il controllo dell’ICEA) per la sua linea integrale. Le due nuove referenze sono disponibili nell’originale formato a tubo

“In un momento in cui il consumatore è sempre più in cerca di un prodotto sano, oltre che buono, le paste di ‘benessere’, sono il vero driver di crescita del nostro mercato – spiega Luca Ruffini, Ceo Managing Director Delverde – Tra le varie tipologie, l’integrale è senza dubbio il segmento più corposo, sia in termini di peso a volume, sia quanto a dinamicità. Le nostre performance in Italia in questo segmento sono eccellenti: stiamo infatti crescendo del +54% a volume. Anche all’estero il trend è altrettanto dinamico, con maggiori picchi nei Paesi in cui il mercato è più maturo o dove i consumatori sono storicamente più sensibili al wellness food”

Delverde fa capo al gruppo “Molinos Rio de la Plata s.a.”, tra i principali player nel settore agroalimentare dell’America Latina, che tra il 2009 e il 2010 ha acquisito l’intero pacchetto azionario dell’azienda abruzzese, situata a Fara San Martino, piccolo borgo pedemontano in provincia di Chieti riconosciuto come una delle capitali della pasta italiana e considerato modello di eccellenza tra i distretti del “made in Italy”

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