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Vino, Uiv: pasticcio normativo mette in stallo i dealcolati

Un mercato depresso dall’incertezza”. È la denuncia dei principali produttori di vino No-Lo e dei fornitori di tecnologie e macchinari per la dealcolazione italiani intervenuti a Vinitaly 2025 al convegno “Tecnologia 0.0: produzione e innovazione a confronto”, organizzato da Unione italiana vini (Uiv) in collaborazione con Veronafiere. A inibire la produzione, oltre all’ambiguità delle disposizioni relative l’obbligo di separazione degli spazi che dovrebbe risolversi a breve, il pasticcio normativo che lascia il comparto in balia dell’incertezza sull’applicazione delle accise in attesa del decreto interministeriale, previsto a partire dal 1° gennaio 2026. “Stiamo parlando dell’atterraggio su Marte mentre in Italia non abbiamo ancora il binocolo per vedere la luna”, ha dichiarato Martin Foradori, Ceo di Tenuta J. Hofstätter, una posizione condivisa non solo dagli altri produttori intervenuti alla tavola rotonda, ma anche dai fornitori di macchinari e tecnologie per il processo di dealcolazione. “In Italia c’è molto fermento ma abbiamo solo iniziato a vendere impianti – ha commentato Albano Vason, Direttore Generale di VasonGroup –, all’estero è più facile. Stiamo lavorando molto bene in Spagna e ora si è aperto il mercato anche in Argentina”. “Ci sono sicuramente aziende italiane interessate, ma stiamo aspettando che sia pronta la normativa”, ha confermato Massimo Pivetta, Sales Director Wine di Omnia Technologies. Per Pierluigi Guarise, Ceo di Collis Wine Group, “Ci viene detto di andare per tentativi e questo comporta un rischio anche reputazionale, ci crederemo veramente nel momento in cui verrà fatta chiarezza su tutta la normativa, dalla produzione all’etichettatura”. Non mancano le conseguenze sul fronte dei costi: “Andare a dealcolare all’estero mina la nostra competitività sul mercato”, ha dichiarato Claudio Galosi del Gruppo Argea.

Rimane all’estero la produzione anche di Mionetto, che, come dichiarato dal Consigliere Delegato e Direttore Tecnico, Alessio Del Savio, sta lavorando con vini a base Glera per “accorciare sempre di più le distanze con il Prosecco, strizzando l’occhio alla denominazione”. E proprio sulla qualità del prodotto vino si gioca la partita che vedrà i No-Lo distanziarsi dal segmento dei drink a bassa gradazione. “Dobbiamo uscire dal mondo delle bevande dove siamo relegati in una competizione a perdere con le multinazionali – ha detto Fedele Angelillo, Ceo di Mack & Schuhle Italia –. Per fare questo dobbiamo continuare ad insistere sulla qualità, anche a partire dalla vigna”. “Sul fronte della qualità abbiamo già fatto passi da gigante – ha concluso Marzia Varvaglione, Presidente del Ceev e di Agivi –. I vini No-Lo sono proposte non solo complementari ma che ci consentono di differenziare il rischio in un contesto estremamente volatile dei consumi. Ora, come produttori e imprenditori, dobbiamo capire come tutelare questi vini e come inquadrarli in modo che siano facilmente e chiaramente riconoscibili anche per i consumatori”.

Secondo l’analisi dell’Osservatorio del Vino Uiv-Vinitaly presentata a Vinitaly, il mercato italiano dei vini No-Lo (no e low alcohol) vale oggi solo lo 0,1% sul totale delle vendite di vino, per un controvalore di 3,3 milioni di dollari che – secondo le stime Iwsr – dovrebbe raggiungere i 15 milioni nei prossimi 4 anni, con un Cagr atteso del 47,1%.

Dazi Usa, al via la conta dei danni nel food & beverage italiano

La guerra commerciale con gli Usa è ufficialmente cominciata: sono oltre 100 i Paesi su cui impatteranno i dazi voluti da Donald Trump e tra questi c’è ovviamente l’Italia. Brilla l’assenza nell’elenco di Russia e Corea del Nord, come ha rimarcato già nelle prime ore la stampa internazionale. In sintesi, a partire dal 5 aprile gli Usa applicheranno dazi del 10% su tutte le importazioni e per alcune nazioni – per esempio il Regno Unito – questa sarà l’unica misura adottata. Dal 9 aprile entreranno in vigore tariffe più pesanti e differenziate per una sessantina di Paesi: nel caso dell’Unione Europea – e dell’Italia, dunque – saranno pari al 20%, mentre il 34% annunciato per la Cina dovrebbe andarsi ad aggiungere al 20% già previsto, portando il totale a ben il 54%. Anche per l’Unione Europea e l’Italia le nuove tariffe si vanno a sommare a quelle già applicate per le singole merci. La conta dei danni per il nostro Paese è subito iniziata, accompagnata anche da proposte per affrontare l’emergenza: “Con i sanguinosi dazi americani al 20% il mercato dovrà tagliare i propri ricavi di 323 milioni di euro all’anno – dichiara Lamberto Frescobaldi, Presidente di Unione italiana vini (Uiv) – pena l’uscita dal mercato per buona parte delle nostre produzioni. Perciò Uiv è convinta della necessità di fare un patto tra le nostre imprese e gli alleati commerciali d’oltreoceano che più di noi traggono profitto dai vini importati; serve condividere l’onere dell’extra-costo ed evitare di riversarlo sui consumatori”.

UIV AUSPICA UNA REAZIONE DI FILIERA
Secondo un’analisi dell’Osservatorio Uiv, l’unica soluzione è infatti da ricercare lungo la filiera, con il mercato – dalla produzione fino a importatori e distributori – che dovrebbe farsi carico di un taglio dei propri ricavi per un valore pari a 323 milioni di euro (su un totale di 1,94 miliardi) e mantenere così gli attuali assetti di pricing. Sempre in base ai calcoli di Uiv, ben il 76% delle 480 milioni di bottiglie tricolori spedite lo scorso anno verso gli Stati Uniti si trova in “zona rossa” con una esposizione sul totale delle spedizioni superiore al 20%. I picchi si registrano per il Moscato d’Asti (60%), il Pinot grigio (48%), il Chianti Classico (46%), i rossi toscani Dop al 35%, i piemontesi al 31%, così come il Brunello di Montalcino, per chiudere con il Prosecco al 27% e il Lambrusco. In totale sono 364 milioni di bottiglie, per un valore di oltre 1,3 miliardi di euro, ovvero il 70% dell’export italiano verso gli Stati Uniti. Per Paolo Castelletti, Segretario Generale di Uiv (nella foto in alto), “Rispetto ai partner europei, l’Italia presenta due principali fattori di rischio: da una parte la maggiore esposizione netta sul mercato statunitense, pari al 24% del valore totale dell’export contro il 20% della Francia e l’11% della Spagna. Dall’altra, una lista di prodotti più sensibili su questo mercato, sia in termini di esposizione, che di prezzo medio a scaffale: solo il 2% delle bottiglie tricolori vendute in America vanta un price point da vino di lusso, mentre l’80% si concentra nelle fasce “popular”, che tradotto in prezzo/partenza significa in media poco più di 4 euro al litro”.

CENTROMARCA AVVIA UN’INDAGINE SUL FRONTE INDUSTRIALE
Dal canto suo, Centromarca ha avviato un’indagine rapida per misurare l’impatto che i dazi americani avranno sull’industria di marca e fornire dati utili in sede nazionale ed europea. “Nel settore del largo consumo il prezzo è una componente significativa – sottolinea Vittorio Cino, Direttore Generale di Centromarca –. Le conseguenze non dovrebbero essere omogenee: ogni merceologia ha specifiche dinamiche di esportazione, variabili produttive e commerciali. Per esempio, ci sono diverse elasticità della domanda alle variazioni di prezzo che i dazi potranno determinare per i consumatori. Certo la scelta statunitense crea una discontinuità senza precedenti nel mercato globale: ci vorrà tempo e un’attività diplomatica di vasta portata per recuperarla”.

GLI EFFETTI SUI COMPORTAMENTI DEL CONSUMATORE STATUNITENSE
Secondo una ricerca, condotta in questi giorni negli Stati Uniti da YouGov per Centromarca, circa la metà dei consumatori americani utilizza prodotti grocery italiani: il 14% lo fa ogni settimana, il 25% mensilmente. Tra i prodotti usati abitualmente, nelle prime cinque posizioni troviamo pasta (50% di citazioni), seguita da olio di oliva (46%), formaggi (38%), salse (37%) e vino (33%). In merito all’effetto dazi solo il 16% dei consumatori afferma di essere disposto a pagare di più per acquistare prodotti grocery italiani, il 48% afferma di essere disposto a spendere la stessa cifra che sborsa per altri prodotti, il 10% vorrebbe investire di meno, il 26% non ha un’opinione precisa. Fatto cento coloro che consumano prodotti grocery made in Italy, il 47% asserisce che in caso di aumento dei dazi manterrebbe la quantità di prodotti italiani acquistati, mentre il 30% la ridurrebbe. Tra gli elementi che guidano l’acquisto di prodotti italiani primeggiano qualità percepita, reputazione della marca e rapporto qualità/prezzo.

L’EXPORT DI PRODOTTI DI LARGO CONSUMO NEGLI STATI UNITI
Alcuni dati elaborati da Nomisma per Centromarca descrivono l’importanza dello sbocco statunitense per le produzioni grocery alimentari e non food italiane. Tra il 2023 e il 2024 l’incremento delle importazioni a valore negli Usa è stato del +16%, da 8,5 a 9,9 miliardi di euro. In dettaglio, l’alimentare cresce da 6,8 a 8,0 miliardi di euro e i prodotti per la cura della casa e della persona da 1,7 a 1,9 miliardi di euro. Nel decennio 2014 – 2024 il fatturato grocery complessivo è passato da 3,8 a 9,9 miliardi di euro, pari a una crescita del +161%. Le analisi mostrano che nel 2024 il peso degli Usa sull’export italiano food & beverage era pari al 12%; 13% per i prodotti cura casa/persona. Il 72% dell’export di sidro italiano (spesso usato come intermedio di lavorazione) ha come canale di sbocco gli states. Seguono: acque minerali (41%), olio di oliva (32%), aceti (30%), liquori (26%), vini fermi/frizzanti (25%), spumanti (24%), formaggi duri/semi duri (19%), profumi/fragranze (18%), pasta (16%), trucchi/prodotti di bellezza (15%), conserve di pomodoro (7%). Per il 54% dei consumatori statunitensi acquistare un prodotto alimentare di marca italiana è sinonimo di bontà, per il 49% di qualità delle materie prime, per 36% di sicurezza e tutela della salute. Nell’ambito dei prodotti per il personal & home care il 53% delle persone trova qualità delle materie prime, il 49% sicurezza, il 32% sostenibilità ambientale.

IL POSIZIONAMENTO PREMIUM SALVERÀ IL PARMIGIANO REGGIANO?
A confidare nella specificità della nostra produzione è Nicola Bertinelli, Presidente del Consorzio Parmigiano Reggiano (nella foto a destra): “I dazi sul nostro prodotto passano dal 15% al 35%. Di certo la notizia non ci rende felici, ma il Parmigiano Reggiano è un prodotto premium e l’aumento del prezzo non porta automaticamente ad una riduzione dei consumi. Lavoreremo per cercare con la via negoziale di fare capire per quale motivo non ha senso applicare dazi a un prodotto come il nostro che non è in reale concorrenza con i parmesan americani. Ci rimboccheremo le maniche per sostenere la domanda in quello che è il nostro primo mercato estero e che rappresenta oggi il 22,5% della quota export totale. Il Parmigiano Reggiano copre circa il 7% del mercato dei formaggi duri a stelle e strisce e viene venduto a un prezzo più che doppio rispetto a quello dei parmesan locali. Nel 2019, quando Trump introdusse tariffe aggiuntive pari al 25%, il Parmigiano Reggiano fu il prodotto più colpito con un incremento del prezzo a scaffale dai 40 ai 45 dollari al chilo. Fortunatamente i dazi sono poi stati sospesi il 6 marzo del 2021 e non ci hanno creato problemi in termini di vendite. Gli americani hanno continuato a sceglierci anche quando il prezzo è aumentato. Negli Stati Uniti chi compra il Parmigiano Reggiano fa una scelta consapevole: ha infatti un 93% di mercato di alternative che costano 2-3 volte meno”.

ALLARME NEL MONDO COOPERATIVO
Fortemente impattato è anche il tessuto cooperativo: negli Usa il fatturato delle cantine cooperative è di oltre 570 milioni di euro, il 30% di tutto l’export vitivinicolo nel mercato statunitense, mentre per un altro settore ad alto valore aggiunto con le sue produzioni DOP come i formaggi, le cooperative commercializzano negli Stati Uniti 122 milioni di euro, il 25% di tutte le vendite di formaggi negli Usa, che nel 2024 hanno toccato quota 484 milioni di euro. Seguono poi altre filiere e prodotti in cui la cooperazione esporta valori significativi come il pomodoro da industria. “Per quanto riguarda il settore vino – dice Raffaele Drei, Presidente di Confcooperative Fedagripesca (nella foto in alto) – occorre destinare maggiori risorse per la promozione, se davvero vogliamo aiutare le aziende ad acquisire nuovi mercati. Andrà fatto inoltre un grande lavoro di sburocratizzazione nelle procedure per l’accesso ai bandi. All’Europa chiediamo misure per la promozione più snelle e in generale risposte più efficaci rispetto al passato perché quelle attuali risultano un po’ timide rispetto all’urgenza di aggredire nuovi mercati”. Più in generale, per altri settori fortemente orientati alle esportazioni, le istituzioni secondo Drei “dovranno concentrarsi maggiormente nei rapporti internazionali per promuovere rapporti bilaterali con altri paesi extra-Ue, anche attraverso nuovi accordi di libero scambio al fine di migliorare canali commerciali già consolidati o aprire altri mercati in cui oggi è difficile conquistare quote di mercato. Il settore lattiero-caseario rischia di veder compromessa la stabilità della tutela delle Dop con il conseguente proliferare dell’Italian sounding”.

Uiv: Europa, tieni il vino fuori dalla disputa commerciale con gli Usa

I dazi “ritorsivi” al 200% minacciati dal presidente Trump a vini e alcolici dell’Unione europea rischiano di azzerare un valore complessivo delle esportazioni verso gli Usa pari a 8 miliardi di euro. Le stesse categorie di prodotto esportate dagli Usa e oggetto delle possibili contromisure dell’Ue quotano circa 1,35 miliardi. Lo rileva l’Osservatorio di Unione italiana vini (Uiv) nel considerare inopportuna l’inclusione nella disputa commerciale di categorie di prodotti in cui il “gioco a perdere” è evidente, con un rapporto di 6 a 1. Una sproporzione che secondo Unione italiana vini rischia di mettere in ginocchio un comparto, il vino, che in Italia vale l’1,1% del Pil con un valore aggiunto che supera i 17 miliardi di euro, con un peso pari al 40% (1,93 miliardi di euro) del totale export Ue negli Stati Uniti. Secondo il segretario generale di Unione italiana vini, Paolo Castelletti: “L’annuncio dei dazi al 200% sta determinando effetti negativi sul mercato, con disdette degli ordini di merci destinate oltreoceano che si vanno moltiplicando. Uiv, assieme agli imprenditori europei del Comité vins, chiede pertanto alla Commissione europea una urgente revisione delle liste, con la richiesta di rimozione delle bevande alcoliche americane (spiriti e vino). È indispensabile, vista la sproporzione dei fattori in campo, fare in modo che questi prodotti restino fuori dalla disputa commerciale in corso”.

Dazi Usa sul vino, Uiv ipotizza danni per un miliardo di euro

Un conto da quasi 1 miliardo di euro solo per l’export. È l’impatto stimato da Unione italiana vini (Uiv) per il vino italiano dei dazi al 25% annunciati dall’amministrazione Trump che potrebbero coinvolgere anche il settore. Un effetto a cerchi concentrici, che parte dagli USA – dove la perdita diretta stimata sarebbe attorno ai 472 milioni di euro, per un saldo rispetto allo scorso anno a -25% – e si allarga ai Paesi impattati direttamente dalle nuove tariffe, per i quali sono previsti rallentamenti economici se non recessione, come in Germania. In Canada l’export italiano potrebbe chiudere i conti del 2025 a -6%, mentre nell’Unione europea le stime si attestano a un -5%, per un saldo valore negativo di 216 milioni di euro. Tra Usa, Canada e Ue, che fanno l’80% del valore export vino italiano, il saldo per l’anno mobile (da aprile 2025 ad aprile 2026) chiuderebbe a -716 milioni di euro (-11%). Il totale delle esportazioni verso il resto del mondo, secondo Uiv, vedrebbe infine una speculare contrazione, che porterebbe il disavanzo tra 2024 e 2025 a -920 milioni di euro. Tutto al netto del mercato interno, che nell’anno mobile subirebbe una ulteriore contrazione di circa 350 milioni di euro, pari al 5% dei consumi.

Per rimanere nel mercato statunitense, che vale per noi circa 1,9 miliardi di euro e il 24% del totale export del settore – precisa Lamberto Frescobaldi, Presidente di Unione italiana vini – ci appelliamo ai nostri partner americani, importatori e distributori. L’obiettivo è fare squadra con le nostre imprese del vino per cercare di ammortizzare insieme il surplus dei costi derivanti dalla guerra commerciale. Ci rendiamo conto che questo sacrificio non sarebbe di facile attuazione e determinerebbe nel breve dinamiche antieconomiche, ma l’imperativo è comunque salvare il mercato e il rapporto speciale che ci lega con i consumatori statunitensi. L’ipotesi dazi al 25% determinerebbe infatti una quasi totale uscita dal mercato, che sarebbe peggiore rispetto alle cifre sopra elencate. In questo mese che ci separa dalle decisioni che saranno adottate dall’amministrazione americana, chiediamo il massimo sforzo della diplomazia italiana ed europea, affinché si avvii, già da adesso, un negoziato sul futuro delle relazioni commerciali con gli Stati Uniti. Il vino deve essere “nella valigetta” delle proposte della Commissione, in merito al riequilibrio commerciale tra i due blocchi”.

Export vino, timore per i dazi USA. Italia più esposta dei competitor

L’ipotesi dei dazi negli Stati Uniti spaventano il mercato del vino. Secondo Uiv – Unione Italiana Vini -, laddove entrassero in vigore, rischierebbero di aggravare una congiuntura già difficile se non si diversifica il mercato e soprattutto se si perseguono politiche di chiusura commerciale. “Per questo Uiv sostiene fermamente l’accordo Mercosur e condivide il via libera dell’Italia ai vini dealcolati, una nicchia che potrebbe comunque aprire le porte a nuovi target e Paesi” ha detto Lamberto Frescobaldi, Presidente di Unione Italiana Vini. “Il 60% dell’export italiano è concentrato su cinque mercati, con gli Stati Uniti che da soli valgono quasi un quarto delle nostre spedizioni: non possiamo chiuderci anche verso mercati – come il Brasile e l’America Latina – che per radici culturali potrebbero ampliare i nostri orizzonti commerciali”.

Secondo un focus dell’Osservatorio Uiv, l’Italia sarebbe il Paese fornitore europeo maggiormente esposto in caso di nuovi dazi aggiuntivi statunitensi. Dall’analisi delle importazioni nei primi 9 mesi di quest’anno emerge infatti come gli Usa siano oggi la “stampella commerciale” delle vendite italiane (+4,4% nel periodo), con una domanda che ha contribuito a limitare il calo a valore delle spedizioni verso 11 Paesi top buyer a -1,5%. Al netto del mercato Usa, la perdita salirebbe infatti a -4,9%. Meno traumatico l’effetto sulla Francia, che passerebbe dall’attuale -7,3% a -8,5%.

2023 nero per l’export di vino italiano: -4,4% a volume e -7,3% a valore

Un 2023 col freno a mano tirato per l’export di vino italiano nelle cinque principali piazze mondiali: è così che si può sintetizzare la lettura dell’Osservatorio di Unione Italiana Vini (Uiv) dei dati finali relativi alle importazioni da Stati Uniti, Germania, Regno Unito, Canada e Giappone, che insieme valgono il 56% dell’export complessivo del Belpaese. Per il vino made in Italy quindi il 2023 si è chiuso con un calo tendenziale del 4,4% nei volumi e del 7,3% nei valori, a 4,45 miliardi di euro. L’analisi, realizzata da Uiv su base doganale, vede decrementi nei volumi in tutti i Paesi della domanda a eccezione della Germania, che chiude l’anno a +7% per effetto del boom di ordini di vino sfuso (+16%).

Particolarmente negativo, anche a causa di un eccesso di scorte detenute dai distributori che hanno condizionato gli ordini di tutto il 2023, il mercato negli Stati Uniti, che totalizzano un -13% a volume, ma anche in Canada e Giappone, entrambe a -11% e in Uk (-9%). In contrazione, nonostante il surplus di costi produttivi per le imprese, il prezzo medio (-3%), per effetto della crescita import di sfusi (+9%, dove però i listini crollano a -11%) e grandi formati (+6%) e al contestuale minore impatto di prodotti imbottigliati (-7%) e spumanti, giù dell’11% nei volumi ma unica tipologia a crescere nel prezzo medio (+5%).

“È innegabile che il 2023 abbia sofferto di fenomeni congiunturali, soprattutto il destocking di prodotto accumulato in eccesso in Nordamerica, ma è altrettanto vero che il nostro Paese ha l’esigenza primaria e non più rinviabile di allargare la propria base clienti: questi cinque Paesi rappresentano quasi il 60% del valore delle esportazioni italiane, contro il 50% della Francia e il 40% della Spagna” ha detto Lamberto Frescobaldi, Presidente UIV, che aggiunge: “Il 2024 si annuncia molto complesso e sfidante: con una produzione italiana ai minimi storici, le nostre imprese avranno l’esigenza vitale di alzare il valore unitario dei propri prodotti, in un contesto macroeconomico che non è dei più favorevoli. Si è visto già l’anno passato, con le difficoltà patite nei circuiti retail dei principali Paesi, dove ad aumenti di prezzo anche limitati sono corrisposti in maniera quasi automatica cali degli acquisti a volume”.

Secondo l’Osservatorio Uiv, l’anno si è però rivelato negativo per tutti i Paesi produttori, complice l’obiettivo destocking degli importatori unitamente alla crisi inflattiva e al conseguente minor potere di acquisto. L’import globale di vino dei 5 top buyer ha chiuso infatti a 16,9 miliardi di euro, il 7,5% in meno sull’anno precedente, con i volumi a -6,7%. Il principale Paese esportatore, la Francia, si è attestata su un trend volumico ancora peggiore rispetto all’Italia (-10%), ma meno deficitario in termini valoriali (-5%).

Festività: immancabili le bollicine italiane ma le Doc frenano a favore delle economiche

Le stime conclusive del 2023 confermano una sostanziale tenuta dei consumi di bollicine made in Italy, a quota 936 milioni di bottiglie. In linea coi volumi dello scorso anno – ma a +24% rispetto al 2019 – si annunciano anche gli acquisti per le prossime feste, durante le quali salteranno circa 333 milioni di tappi tricolori, con oltre 95 milioni di bottiglie consumate solo nel Belpaese. Alle celebrazioni di Natale e Capodanno si aggiungeranno poi gli sparkling esteri, con circa 6 milioni di bottiglie.

Secondo l’analisi di fine anno sui consumi a cura dell’Osservatorio Uiv-ISMEA, durante le feste i consumatori di tutto il mondo non saranno quindi disposti a rinunciare alle bollicine tricolori. A cambiare, piuttosto, sarà la scelta di un prodotto in alcuni casi più accessibile per le tasche di consumatori italiani ed esteri alle prese con un carovita che non allenta la morsa. Da qui, secondo elaborazioni su dati Nielsen, ISMEA e Uiv registrano l’incremento degli acquisti di spumanti più economici come metodo charmat anche varietali e di annata (+7,5% a 206 milioni di bottiglie la stima a tutto il 2023) rispetto a denominazioni “bandiera” italiane come Prosecco (Doc, Conegliano Valdobbiadene, Colli Asolani) e Asti Spumante o ai metodo classico (Trento Doc, Franciacorta, Oltrepò Pavese, Alta Langa, Lessini Durello) che chiudono la stagione con una contrazione del 3% (727 milioni di pezzi). Con un paniere dell’offerta aggiustato quindi grazie all’incremento delle produzioni di spumante non Dop, il computo totale previsto da ISMEA e Unione Italiana Vini (Uiv) a fine 2023 è pari a 936 milioni di bottiglie di spumante italiano, in 7 casi su 10 commercializzate all’estero.

Sotto l’albero le bollicine si presentano quest’anno con un prezzo medio più alto, con i listini cresciuti di oltre il 5% a causa di inflazione e surplus di costi produttivi. In totale produttori e imprese spumantistiche italiane incasseranno durante le festività circa 1 miliardo di euro. Negli ultimi 10 anni le vendite di spumante italiano nel mondo sono praticamente triplicate, con crescite in valore del 351% negli Usa (top buyer), ma anche in altre destinazioni di sbocco come Regno Unito (+350%), Germania, (+42%), Francia (+416%) o nell’emergente Est Europa, con la Polonia a +983%.

Le esportazioni
Le esportazioni nei primi 9 mesi di quest’anno segnano un calo tendenziale del 3,1% per gli spumanti che in valore, per gli effetti inflattivi, virano invece in positivo (+2,5%). A livello complessivo, l’export al terzo trimestre 2023 si ferma a -0,2% nei volumi, mentre il saldo sui valori indica una decrescita, in peggioramento, dell’1,9% (5,65 miliardi di euro). In difficoltà le Dop (volumi a -3,8%), mentre salgono le vendite degli sfusi (+18,9% volume) che, in seguito al calo dei prezzi alla produzione, hanno abbassato il valore medio di circa il 14%. Tra i top mercati, proseguono le difficoltà negli Stati Uniti (volumi a -12,8%, valori a -9,5%), mentre la Germania chiude il periodo a +12,4% nei volumi grazie a maxi-ordini di vino sfuso. Stazionario il Regno Unito e in leggera contrazione la Svizzera. Nel complesso, si allarga la forbice tra domanda Ue (volumi a +9,3%) ed extra-Ue (-9,2%).

Vino Gdo: volano gli spumanti low cost a scapito di Chianti e Prosecco Docg

Si registra un lieve miglioramento delle vendite di vino nella grande distribuzione nei mesi estivi che portano il cumulato dei primi nove mesi di quest’anno, con un tendenziale in volume a -3,4% (nel semestre la perdita era del -3,9%) per un controvalore, sospinto dal caro prezzi, di 2,1 miliardi di euro che lascia la variazione a +3,4%. I vini fermi, rileva l’Osservatorio Uiv-ISMEA su base Ismea-NielsenIQ, segnano un -3,9% nei volumi (+2,6% i valori) mentre risale la tipologia spumanti, a +0,6% nelle quantità e a +6,2% nei valori (a 455 milioni di euro).

Secondo l’analisi dell’Osservatorio, permane un atteggiamento prudente dei consumatori tra gli scaffali, con acquisti “difensivi” che privilegiano i prodotti in promozione o alcune tipologie più convenienti a scapito di altre. È il caso degli spumanti low cost (“Charmat non Prosecco”, con 25 milioni di litri acquistate), che hanno ormai superato nelle vendite in volume anche il Prosecco Doc (24,8 milioni, comunque in risalita) e che si stanno sempre più affermando non più solo nei discount ma anche nei canali iper e super. Oppure denominazioni importanti come il Chianti Classico (volumi a -13,2%), o ancora il Prosecco Docg (-14,5%) che cedono quote a indicazioni geografiche o vini comuni che propongono prezzi più accessibili.

Nel complesso, i listini rimangono alti (+7% sul pari periodo 2022) e non è un caso se in generale si assiste a una maggior tenuta delle vendite laddove i costi sono più limitati. Per esempio, osserva l’analisi, l’unico formato a crescere tra gli scaffali, per i vini a denominazione come per quelli comuni, è quello di plastica e bag in box che in media presentano un prezzo di 1,8 euro/litro. Tra le tipologie, in quantità fanno leggermente meglio della media (-3,9%) i vini bianchi (-3%), i rosati (-3,6%) mentre ancora in difficoltà risultano i rossi (-4,8%). Gli spumanti virano in positivo (+0,6%) ma la crescita riguarda, oltre all’Asti (+4,5%), solo i già citati “Charmat non Prosecco”, senza i quali anche il comparto bollicine pagherebbe un -3,6% nei volumi.

Nel segmento IG, ancora segni meno per le principali tipologie; tra i primi 10, solo il Vermentino di Sardegna, il Puglia Igp e il Cannonau in dinamica positiva (+4%, +2% e +3% rispettivamente in volume). Chianti in regressione (-4.4%), mentre migliora leggermente la situazione del Montepulciano d’Abruzzo, che da -14% di marzo è arrivato a -9% a giugno per risalire a -6.6% di settembre. In forte discesa il Nero d’Avola siciliano, a -12%, così come la pattuglia dei Salento Igt (-9%), i Lambruschi emiliani (-11%), le Bonarde oltrepadane (-15%) e il Verdicchio di Jesi (-18,9%). Tra i veneti, Valpolicella a -2% e Bardolino a -3.4%, mentre il Soave continua a essere positivo, chiudendo il conto dei nove mesi a +5%. Tra i canali, oltre la media il gap nei discount, specie per il segmento Dop e Igp (-6,8%), segno che le tensioni sul carrello della spesa sono maggiormente percepite dai consumatori.

A un mercato interno debole – conclude l’Osservatorio Uiv-ISMEA e ai costi produttivi ancora alti, non fanno da contraltare le esportazioni: il dato Istat di oggi sui primi 7 mesi dell’anno evidenzia infatti una contrazione tendenziale sia nei volumi (-1,5%) che nei valori (-1,2%, a 4,45 miliardi di euro). Un peggioramento anche rispetto all’export del semestre – che segnava rispettivamente -1,4% e -0,4% – per effetto delle difficoltà nell’extra-Ue (volumi a -8,5%) non del tutto controbilanciato dalla domanda comunitaria (+5,4%). Tra i prodotti, è forte la domanda di sfusi (+13,1%) mentre sono in contrazione sia gli spumanti (-3,2%) che i vini imbottigliati (-4,9%), dove pesano le forti difficoltà dei rossi (-10%).

Giacenze in cantina e calo export, momento difficile per il vino

Secondo l’analisi Uiv e Vinitaly, la vendemmia 2023 si apre con una giacenza di vino in cantina pari a 45,5 milioni di ettolitri, l’equivalente di oltre 6 miliardi di potenziali bottiglie da 0,75/litri. Il dato riflette un’eccedenza dello 4,5% rispetto al pari periodo dello scorso anno a causa in particolare di un incremento senza precedenti degli stock per i vini di maggior qualità, con le Dop a +9,9% sull’ultima rilevazione pre-vendemmiale del 2022. L’altro indicatore di mercato – aggiunge l’Osservatorio – è anch’esso complicato, con la domanda extra-europea segnalata nel primo semestre in ulteriore contrazione.

Tra i top 10 buyer – che assieme rappresentano circa l’85% del mercato extra comunitario – le esportazioni a volume sono positive solo per la destinazione russa, con cali quantitativi in doppia cifra per Stati Uniti, Canada, Giappone, Norvegia, Cina e Corea del Sud. Complessivamente la riduzione tendenziale nella prima metà dell’anno segna un -9% a volume e un -5% a valore, con gli spumanti giù del 13% e i fermi imbottigliati inchiodati a -5%. Per entrambe le tipologie, il trend a valore indica un gap del 4%, ma mentre per gli sparkling l’aumento del prezzo medio è in linea con il surplus dei costi produttivi (+10%), lo stesso non si può dire per i fermi (+1%).

“Sulla prossima vendemmia – la cui paventata forte contrazione è ancora tutta da verificare – pesa una congiuntura che si sta manifestando in tutta la sua complessità” commenta Lamberto Frescobaldi, il Presidente di Unione italiana vini (Uiv). “Comprendiamo la volontà da parte delle nostre imprese di mantenere le quote di mercato, ma abbassare i prezzi – come per esempio con i rossi sfusi in Germania, che stanno scendendo verso le quotazioni spagnole a circa 50 centesimi/litro – rischia di diventare un pericoloso boomerang una volta fuori dalla crisi di potere di acquisto che coinvolge anche i nostri competitor. A tal proposito il fenomeno crescente dei prodotti a private label e gli imbottigliamenti del nostro vino fuori dall’Italia contribuiscono all’erosione del valore aggiunto”.

“L’Osservatorio aveva previsto un 2023 difficile, ciò si sta verificando nonostante l’economia globale abbia per ora tenuto lontano buona parte delle nubi recessive. Ciò che può fare Vinitaly è intensificare la costruzione di ponti commerciali con l’estero, in particolare nelle relazioni con i mercati extra-Ue, a partire da quello americano dove saremo partner della Camera di Commercio di Chicago per l’International Wine Expo. Da settembre a dicembre abbiamo infatti in programma una nuova campagna di internazionalizzazione con 25 appuntamenti in 15 Paesi e 4 Continenti. Da una parte per rifinire ulteriormente l’incoming per la prossima edizione veronese, dall’altra per garantire b2b direttamente sulle piazze estere” aggiunge Maurizio Danese, AD di Veronafiere.

Il 12 settembre Assoenologi, Ismea e Uiv rilasceranno le proprie previsioni vendemmiali in conferenza stampa al ministero dell’Agricoltura e della Sovranità alimentare.

Vino italiano all’estero, i volumi restano piatti

Nel primo semestre di quest’anno sono tornate in linea di galleggiamento le vendite del vino italiano tra gli scaffali della grande distribuzione e retail nei top 3 mercati al mondo. Secondo l’Osservatorio Uiv-Vinitaly che ha elaborato gli ultimi dati di Nielsen-IQ, le vendite tricolori in Usa, Germania e Uk chiudono il semestre con un risultato tendenziale piatto a volume (-0,2%) e con un lieve incremento a valore (+1,3%, a 2,2 miliardi di euro). La performance – rileva l’Osservatorio – è migliore rispetto al primo trimestre (-4% volume e -1% valore) ma ancora insufficiente per dare respiro alle imprese di un settore tuttora fortemente penalizzato da un surplus di costi che incide per circa il 10% sul prezzo medio.

Il totale dei volumi commercializzati di vini fermi e frizzanti segna un +0,7%, complici gli incrementi in Uk (+3,2%) e soprattutto in Germania (+4,2%), sostenuta dalla forte domanda di frizzanti “low cost” tricolori. In controtendenza i fermi negli Usa, che cedono il 7,4%. Gli spumanti accusano invece un decremento del 2,8%, con gli Usa positivi (+2%), controbilanciati in negativo da Regno Unito (-6%) e Germania (-3,8%).

“Occorre fare in modo che le difficoltà congiunturali non si trasformino in strutturali, in queste situazioni diventa fondamentale la presenza e la promozione di bandiera del brand enologico italiano. Per questo, tra settembre e dicembre di quest’anno Vinitaly attiverà una nuova campagna di internazionalizzazione attraverso 25 appuntamenti tra fiere, road show e incoming sulla prossima edizione veronese organizzati in 15 Paesi e 4 continenti” commenta Maurizio Danese, l’Ad di Veronafiere.

“Rispetto al primo trimestre riscontriamo una timida risalita, ancora però troppo debole se consideriamo le tensioni vissute dal settore. Lo scatto in avanti dei volumi commercializzati in Germania è dovuto al raffreddamento dei listini, che nell’ultimo trimestre anziché aumentare sono scesi in media del 4%, con una contrazione anche rispetto al primo semestre del 2022. Variazioni sul prezzo medio che riteniamo essere troppo deboli anche negli Usa e in Uk, rispettivamente del 4% e del 3%” aggiunge Paolo Castelletti, il Segretario generale di Unione Italiana Vini (Uiv).

Dei 2,2 miliardi di euro commercializzati, 960 milioni (-0,3% tendenziale, -4,4% i volumi) sono frutto di acquisti di vino made in Italy nella Gdo statunitense; oltre 840 milioni provengono dalla domanda Uk (+2,4%, con i volumi -0,5%) e 400 milioni dalla Germania (+2,9%, +3,7% i volumi). Il primato dei volumi spetta ai tedeschi (84 milioni di litri venduti su un totale di 231 milioni nei 3 Paesi) ma il prezzo medio allo scaffale di 4,7 euro al litro è 3 volte inferiore a quello degli Stati Uniti (14,3 euro) e meno della metà rispetto al dato Uk (10,5 euro). In generale, è piatta la crescita dei listini per i fermi/frizzanti (+0,3%) mentre per gli spumanti l’aumento è del 4,9%. Il Prosecco, principale denominazione italiana commercializzata nel mondo, segna un -2% nei volumi (bene negli Usa, ancora negativa in Uk anche se in fase di recupero) e un +3,2% nei valori, per un corrispettivo (675 milioni di euro) che incide per il 31% su tutto il vino made in Italy commercializzato sui canali dell’off trade dei 3 Paesi.

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