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Millennials: intraprendenti, social e stakanovisti

Millennials, un universo da scoprire. E da apprezzare, mettendo da parte pregiudizi e luoghi comuni.
È quanto emerge dalla ricerca «Vita da Millennials: web, new media, startup e molto altro. Nuovi soggetti della ripresa italiana alla prova» realizzata dal Censis per il Padiglione Italia di Expo 2015, su un campione di giovani tra i 18 e i 35 anni. Accantonato il clichè che li classificava come “bamboccioni” o “choosy” i giovani si rivelano intraprendenti, fortemente motivati, stakanovisti , sobri, strenui fautori del proprio io, ma solidali e… accomodanti.
Specialmente per quanto riguarda il mercato del lavoro, non sempre generoso con le nuove generazioni.
Pare infatti che rispetto ai più “anziani” Baby Boomers i Millennials siano più propensi ad accettare contratti brevi, qualifiche inferiori alla propria formazione,  impieghi al nero o stage non retribuiti. E questo nonostante abbiano dei plus importanti: sono infatti la prima generazione realmente bilingue e nativa digitale. Atout significativi che, messi a frutto realmente, sarebbero un potente propellente per il successo e l’affermazione professionale.
Intraprendenza
Davanti a un mercato ostico i Millennials non si sono arresi: quasi 32.000 nuove imprese nate nel secondo trimestre del 2015, infatti, fanno capo a un under 35, con una crescita del 3,6% rispetto al trimestre precedente. Una forte vitalità, dunque, trasversale a tutte le aree del Paese se anche nel Mezzogiorno il 40,6% delle attività nate nel trimestre è riconducibile a un giovane, con un tasso di crescita del 3,5% rispetto al trimestre precedente.
I Millennials sono lavoratori indefessi: più di 3,8 milioni lavorano oltre l’orario formale (il 17,1% in più rispetto ai Baby Boomers). Di questi, 1,1 milioni lo ha fatto senza ricevere il pagamento degli straordinari (il 4% in pi. rispetto alla fascia di 35 -64 anni) e 1,7 milioni con una copertura economica solo saltuaria.
A 1,1 milioni di Millennials capita di lavorare anche di notte, a quasi 3 milioni durante il weekend. Molti lavorano in remoto da casa e questo, anziché attenuare l’impegno, significa, al contrario, dilatare i tempi dedicati alle attività professionali.

L’io e la sharing economy
I Millennials, credono nel proprio Io.
Questo non vuol dire che siano egoisti: per questo è più corretto parlare di soggettivismo etico. L’io è considerato la misura di tutte le cose, quindi, l’obiettivo precipuo è soddisfarlo, in linea con una nuova dimensione più sobria e contenuta. In questo mood si innesca il successo della sharing economy (Uber, Airbnb, Gnammo, iBarter e via dicendo) che vede la dimensione del noi entrare in campo per sostenere e soddisfare i bisogni dell’Io.

Foodies, l’importanza del cibo
Nel sistema valoriale dei Millennials il cibo, e tutto ciò che vi ruota intorno, hanno assunto un ruolo di primo piano, testimoniato dalla fioritura di blog e piattaforme web dedicate al cibo, dalla miriade di start up nel settore della ristorazione e- non ultimo- dal ritorno all’agricoltura.
Ma cosa amano i giovani del cibo? Innanzitutto il legame con il territorio: il 60% degli under 35 infatti ritiene che l’eccellenza del proprio territorio si concretizza nei prodotti alimentari locali a fronte del 47,5% della media nazionale.
Mangiare è un fatto culturale e relazionale, molto più che un vettore funzionale, e attraverso il rapporto con ciò che si mette in tavola e proviene dai propri territori i giovani italiani plasmano il loro sentire identitario.   L’Italian food, inoltre, è un fattore distintivo di portata internazionale che inorgoglisce i Millennials che più degli altri vanno per il mondo.  Il 23,9% definisce il rapporto con il cibo degli italiani divertente, perché mangiare fa parte del nostro modo di stare insieme e divertirci, per il 20,5% è salutare.
Per i giovani il cibo è cultura: il 93% dei Millennials si dichiara coinvolto dal tema, il 53,5% è un appassionato, il 28,3% un intenditore e l’11,1% pensa a sé stesso come a un vero esperto. E in effetti il tempo investito in attività culinarie non è poco: sono 10,9 milioni i giovani che dichiarano di cucinare, 3,4 milioni lo fanno con regolarità e 5 milioni lo fanno spesso.
Ed è attività che appassiona, attira, gratifica, taglia trasversalmente appartenenze di genere, sociali, territoriali. Sono 10 milioni i Millennials italiani che cucinano e a cui piace farlo: 4,2 milioni perché li appassiona, 2,6 milioni perché li rilassa e 2,7 milioni ai fornelli provano un senso di gratificazione.

Quale cibo va per la maggiore?
La cucina italiana rimane quella più praticata nel quotidiano (11,1 milioni di Millennials) seguita dalla cucina tipica dei territori (11 milioni), però anche “l’esotico” va bene: sono 8,7 milioni i Millennials italiani che dichiarano di mangiare piatti tipici di altri paesi europei (paella, crepes, ecc.); 7,7 milioni (1,8 milioni abitualmente) mangiano piatti etnici (guacamole, cous cous) e 10 milioni (di cui 3,3 milioni regolarmente) consumano piatti preparati secondo ricette nuove di cui hanno sentito parlare in tv e/o letto su riviste e/o su ricettari.
Quanto allo stile alimentare professato, i  Millennials sono perfetti interpreti del neopoliteismo sobrio italico: riescono cioè a far convivere senza colpo ferire fast food e slow food.

La tecnologia cambia le indagini di mercato qualitative: il punto di Gfk

Negli ultimi anni è indubbio come sia cambiata profondamente l’esperienza di acquisto. Le nuove tecnologie, il web e l’e-commerce ed ora il mobile, hanno rivoluzionato il modo di approcciarsi al prodotto, e di sceglierlo. Per questo, giocoforza, vanno cambiati anche i paramatri di misurazione dell’acquisto, ovvero le ricerche di mercato. Se ne è parlato al seminario organizzato a Milano al Lab GfK “Come cambia la ricerca qualitativa. Dai racconti alle esperienze” curato da Isabella Cecchini e Giuseppe Minoia, ha visto interventi di Anna Tagliabue, Gianni Para, Giovanni Seveso, Elena Presezzi, Silvia Pizzetti, Chiara Gritti, Valeria Bistulfi e Valeria Fai.

 

Cambia lo scenario

Gli oggetti sensibili e intelligenti (la cosiddetta Internet of Things) stanno modificando la qualità delle scelte individuali. Secondo Gfk, nel 2016 nelle Smart Cities saranno attivi 1,6 milioni di oggetti connessi: nei trasporti nelle utilities, ma anche nel commercio. Ad esempio, si pagherà in modi inediti con gli onnipresenti smartphone sempre più in grado di connettersi con i Pos e un aumento delle modalità di pagamento contactless (già in teoria disponibile in moltissimi punti vendita e con le nuove carte di credito predisposte ma speso non ancora abilitate).

I negozi “reali” stanno già cambiando faccia grazie a totem e display interattivi, digital signage e spazi espositivi 3D. Soprattutto, il flusso dei clienti sarà soggetto sempre più ad analisi che consente di valutare la performance dello store e delle sue varie aree. Tra storytelling e multisensorialità, l’emozione che i prodotti suscitano è sempre più importante e differenziante dal punto di vista competitivo e diventa fondamentale capire quale sia il ritorno emozionale offerto da idee, concetti ed esperienze.

 

Valutare le emozioni

Le ricerche di mercato oggi devono saper cogliere tutti questi aspetti. Si rendono quindi indispensabili nuovi attrezzi di osservazione e di esplorazione, ma anche nuove tecniche di registrazione senza filtri, in modo da prevedere e monitorare i “nuovi comportamenti” delle persone.

Gfk segnala dunque come tendenze principali della “nuova” ricerca qualitativa l’utilizzo di sempre meno parole, che troppo spesso filtrano e rielaborano le vere emozioni, e piuttosto di tool in grado di registrare, come un elettrocardiogramma, ciò che davvero il corpo e la mente delle persone esprimono durante gli atti di acquisto (espressioni facciali, tono della voce, battito cardiaco ad esempio).

Per questo il Lab GfK ha elaborato una metodologia articolato in tre sessioni. La prima dedicata alle esperienze con il fine di restituirle in maniera e misura concreta; la seconda dedicata agli strumenti per innovare i prodotti, i processi, la distribuzione, la comunicazione, il marketing tout court e la terza dedicata al mondo digital, ai metodi contenuti nella piattaforma GfK Sociolog.

È stata presentata una case history sulla vendita del caffè nella Grande distribuzione analizzando il comportamento del consumatore “ripreso” davanti allo scaffale. Da questo sono derivati due spunti di riflessione e opportunità. La consapevolezza che lo studio dell’esperienza “chiama” esperienza diretta, con il momento dell’acquisto valorizzato da un’immersione a 360° dell’esperienza complessiva (non solo il gusto o l’aroma del caffè, ma le sensazioni, i sentimenti associati, l’oggetto nella stanza, il percepito degli altri, il messaggio condiviso). E la permeabilità dell’attenzione del cliente che apre spazi, di cui spesso le aziende e le insegne non sono consapevoli, alle aree contigue nei punti vendita: va sempre considerato come il consumatore sia un “esploratore” innato.

Da queste riflessioni Gfk ha elaborato una ricerca qualitativa che tende a sviluppare strumenti per l’innovazione e analizzare in profondità i bisogni (Need Gap Analysis e White Spaces), generando idee e servizi (workshop interattivi e in progress, sessioni con esperti e trend setter quali expert community, advisory board, delphi panel…) e co-creazione con il supporto di visualizer e copy writer che traducono in tempo reale testi, immagini, disegni. Gli strumenti concreti utilizzati spaziano dall’emoscan alla voice recognition, all’eye tracking davanti allo scaffale o a un messaggio pubblicitario.

Michelle Hunziker promuove Emmentaler Dop e diventa protagonista di due spot

Michelle Hunziker e Emmentaler Dop: un binomio vincente  che avvicina ancora di più il brand ai consumatori, grazie al nuovo concorso “Vinci un anno di spesa”.

Per partecipare basta acquistare un minimo di 150 grammi di Emmentaler Dop (confezionato, sfuso al taglio o porzionato nelle vaschette take away) e seguire le istruzioni riportate sulle confezioni o sulle apposite cartoline.

EMMENTALER_F_05_005_EDue le modalità: o inviando un sms con i dati dello scontrino comprovante l’acquisto o connettendosi al sito http://concorso.emmentaler.it e inserendo i dati richiesti.

Con l’instant win si partecipa subito all’estrazione di 15 macchine da caffè Nespresso. L’estrazione finale invece prevede n°3 Gift Card del valore di 5.500 euro l’una, l’equivalente del valore di spesa media annuale di una famiglia contemporanea di tre persone (fonte Istat).

Il concorso verrà supportato da un’attività di comunicazione sul sito http://concorso.emmentaler.it, sul web attraverso i propri canali social (Facebook, Instagram e Twitter) e sui principali magazine italiani e verra promosso proprio da Michelle Hunziker che invita i consumatori a partecipare attraverso una pianificazione di spot da 10” e 20” sulle principali reti, nel mese di Febbraio.

Marca del distributore, il suo futuro passa da premium e bio

Benché qualche segnale di ripresa della fiducia inizi a fare capolino tra le rilevazioni ufficiali, gli italiani spendono meno: dal 2007 a oggi – dice il rapporto Coop 2015 – la crisi è costata 75 miliardi di euro di minori consumi. E le insegne delle distribuzione non hanno potuto che prenderne atto. Stretti tra la guerra dei prezzi sferrata dall’avanzata dei discount e l’offerta gourmand di operatori di fascia alta (si pensi ad Eataly), i principali gruppi del settore stanno quindi ridisegnando le proprie strategie. E in questo percorso – raccontano le stesse insegne a In Store – un ruolo centrale è recitato dalla marca privata che, dopo un 2014 complessivamente stagnante, quest’anno sembra avere ritrovato smalto. Le private label possono del resto contare su più frecce al proprio arco: consentono di compensare la ormai fortissima pressione promozionale, permettono di fidelizzare i clienti e, non ultimo, di creare una brand identity di marca. A patto però che siano approcciate in modo corretto. Il che, in buona sostanza, significa agire su più fronti.

Qualità & prezzo

Il primo aspetto da valutare – suggeriscono i player del settore – è rappresentato dal bilanciamento tra

Erica Fiore
Erica Fiore

le politiche di prezzo, la qualità e la varietà dei prodotti in catalogo. «La convenienza – spiega Erica Fiore, responsabile offerta, display e marca privata di Simply Italia – unita alla qualità dei prodotti e all’ampiezza dell’assortimento, rappresenta il driver principale per costruire un’architettura di categoria differenziante rispetto ai competitor, in linea con le aspettative del cliente e in grado di generare quei volumi necessari per costruire un circolo virtuoso di crescita. È però d’obbligo trovare un sano equilibrio: il prezzo da solo non basta, così come non basta soltanto la qualità se associata a un “out of pocket” troppo impegnativo per il consumatore. Allo stesso modo, è necessario cogliere i cambiamenti in atto nelle abitudini di consumo dei nostri clienti e costruire un assortimento in linea con questi trend».
Una priorità, quest’ultima, condivisa anche da Mario La Viola, direttore marketing e format Crai Secom:

Mario La Viola
Mario La Viola

«A guidare deve essere un’attenta politica di category management. E in questa prospettiva è fondamentale saper leggere e intercettare le tendenze emergenti. Ovviamente la politica di pricing resta importante, ma – e ce lo stanno dicendo i consumatori – non rappresenta più il primo driver di scelta. Oggi il cliente pretende prodotti di sempre maggior qualità, capaci di garantire sicurezza e tracciabilità delle materie prime. Prodotti associati a servizi eccellenti. E, come detto, ci chiede grande attenzione verso i nuove trend».

La comunicazione

Germano Ottone
Germano Ottone

Un altro asset da non dimenticare è la capacità di interagire con i clienti. «Le strategie saranno sempre più fondate sulla comunicazione relativa all’attenzione che si riserverà ad elementi cardini quali la certificazione dei prodotti e dei fornitori, la qualità, l’impatto ambientale» rileva Germano Ottone, responsabile Mdd Sisa.
«Il comparto delle Pl – conferma anche La Viola – potrà tornare a crescere se seguiranno investimenti destinati alle comunicazione e, aggiungo, riservati anche e soprattutto a contenuti informativi, editoriali e qualificanti circa i prodotti». Il dialogo con i consumatori, insomma, pare costituire una leva imprescindibile. Anche perché si rivela uno strumento tutt’altro che fine a se stesso, ma funzionale a precisi obiettivi di business. «Come per tutti i prodotti – conferma Luca Vaccaro, responsabile Mdd di Selex – anche nel caso della marca privata, più siamo e saremo bravi a comunicare i nostri valori, maggiori saranno i

Luca Vaccaro
Luca Vaccaro

risultati in termini di venduto».

Prospettiva locale

Va poi considerato che, in un Paese molto variegato sotto il profilo culinario come l’Italia, anche le specificità locali possono rivelarsi significative nella gestione della marca privata. «La nostra mission – racconta La Viola – sottolinea l’importanza del territorio. Non a caso il nostro pay off – “Nel cuore dell’Italia” – riflette la vocazione “locale” di Crai e il valore aggiunto della relazione. Princìpi, questi, che trovano espressione anche attraverso il nostro prodotto a marchio: il gusto di assaggiare l’Italia nelle sue diversità sta infatti oggi alla base di Piaceri Italiani, la linea premium firmata Crai che va alla scoperta delle eccellenze gastronomiche del nostro Paese. Inoltre, abbiamo voluto identificare i prodotti locali con il logo “A due passi da qui”, così da evidenziare i valori della vicinanza, sottolineare l’importanza della stagionalità e rafforzare il coinvolgimento della comunità del territorio. Abbiamo, insomma, creato un mondo di riferimento dove far convivere eccellenze e storie locali e distribuzione nazionale». Ma altrettanto vale anche per VéGé. «Vogliamo disporre di uno “zoccolo duro” nell’assortimento in grado di essere affiancato intelligentemente da

Marco Pozzali
Marco Pozzali

ulteriori prodotti che incontrino esigenze locali di consumi, di scaffale, di formato e naturalmente di prezzo – sostiene Marco Pozzali, responsabile marca distributore di Gruppo Végé -. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che la ricchezza della nostra DO risiede proprio in una rete eterogenea presente in piazze  molto differenti e con format di vendita che spaziano dal negozio di prossimità all’ipermercato».

I segmenti emergenti

Agli occhi delle catene distributive, però, le maggiori opportunità di espansione della private label sono affidate alla crescita di specifiche categorie merceologiche. Un punto sul quale tutti si trovano d’accordo. «Per quanto riguarda il lancio dei nuovi prodotti – chiarisce Vaccaro -, Selex si sta concentrando sempre più sullo sviluppo delle linee specialistiche». E in questa prospettiva, l’approccio della catena si prepara ad essere molto strutturato. «Le marche del distributore – continua Vaccaro – stanno sempre più evolvendo verso un concetto di “marca” con propri valori e un proprio posizionamento. E questo ragionamento vale ancora di più se ci riferiamo proprio alle linee specialistiche».
Nello stesso contesto si muovono poi anche le strategie di Coop e Simply: «Sul fronte della nostra

Roberto Nanni
Roberto Nanni

marca privata – sottolinea Roberto Nanni, responsabile strategia prodotto a marchio Coop Italia – chiuderemo il 2015 con un forte recupero delle vendite a quantità, ottenuto grazie a una incisiva azione di riposizionamento dei prezzi verso il basso in una logica di “prezzi bassi tutti i giorni”, e a incrementi fino a doppia cifra nelle vendite delle linee a valore aggiunto. Penso, in particolare, a Fior Fiore (premium), Viviverde (bio nel food e eco nel non food) e Bene.sì (salute e benessere)».
«L’incremento dell’1,5% registrato a fine ottobre dalla nostra Mdd – gli fa eco Fiore – è trainato da un trend a doppia cifra messa a segno dai segmenti bio e premium, dove siamo presenti con la nostra linea Passioni». Il che fa ben sperare anche guardando al futuro: «Posto che il prodotto a marchio Simply è uno dei nostri pilastri strategici e ci guida nella costruzione dei nostri assortimenti – continua la manager -, il 2016 ci vedrà impegnati in un grande processo di sviluppo con l’obiettivo di coprire il maggior numero di bisogni attraverso la Pl. Le previsioni sono quindi senz’altro di crescita, sia in termini di giro d’affari che di quota sui nostri scaffali». Un ottimismo, quello della catena del gruppo Auchan, non certo isolato. «Confidiamo – prevede anche Ottone – in una impennata positiva delle vendite dei prodotti Mdd di Sisa, alla luce di nuove politiche commerciali e di marketing sui brand dove enfatizzeremo in particolare le linee premium di eccellenze italiane e i prodotti dell’area bio, benessere e salute».
Al coro si aggiunge poi anche La Viola: «Il mercato sta vivendo un continuo processo di evoluzione dei consumi e dei bisogni dei consumatori e questo si traduce in nuove opportunità anche per lo sviluppo della private label, e in particolare per alcune sue categorie merceologiche. Mi riferisco, in buona sostanza, a trend quali il biologico, il cosiddetto mondo light e quello delle intolleranze, del senza glutine, del delattosato.
Abbiamo infatti molto chiaro come tutto il comparto healthy living sia un’area da presidiare. Va detto però che anche il segmento premium manterrà interessanti livelli di crescita».
E proprio sull’alto di gamma intende puntare VéGé. «Per la nostra linea Delizie VéGé – conferma Pozzali – il 2016 sarà l’anno del consolidamento su categorie importanti e di manutenzione degli assortimenti, ma rappresenterà anche il momento di esordire nel segmento premium, magari senza relegarlo ai confini nazionali».

Paolo Paronzini
Paolo Paronzini

Una linea sulla quale si pone peraltro anche Unes. «Già in questo 2015 – stima Paolo Paronzini, direttore marketing & comunicazione e responsabile sviluppo packaging marca privata di Unes – ci aspettiamo un ulteriore incremento della Pl, complici in particolare le brillanti performance registrate dalla nostra linea premium il Viaggiator Goloso.
La Mdd è del resto un pilastro importante della nostra strategia: per U2 rappresenta infatti una quota di mercato superiore al 38%, ben più elevata, quindi, rispetto alla media del mercato italiano.
E questo anche in virtù del fatto che la nostra insegna ha scelto di non utilizzare la leva promozionale rendendosi così più libera di muoversi – e agire – su altri fronti, come appunto quello della Pl».

La sfida di internet

In un quadro, quindi, sostanzialmente positivo, qualche preoccupazione per i retailer potrebbe tuttavia venire dal web. Già, perché secondo indiscrezioni piuttosto insistenti, confermate anche da fonti autorevoli della stampa americana, a breve potrebbero comparire sulla piattaforma online di Amazon prodotti per la casa, latte, caffè, cereali, pasta e altri alimenti per il target baby, tutti rigorosamente a marchio. L’obiettivo del colosso americano sembra chiaro: scuotere gli equilibri del mercato, proponendo prezzi inferiori rispetto ai competitor, pur mantenendo standard qualitativi elevati. Senza contare che il focus sul cibo di Amazon non si limita qui: Bezos ha infatti puntato anche sulla divisione Fresh, specializzata nelle consegne a domicilio di prodotti alimentari e pasti caldi. Le insegne non potranno quindi stare a guardare. «Stiamo analizzando la discesa in campo di Amazon, che lancia oggi la sua sfida al mondo distributivo facendo leva su dinamiche molto diverse da quelle che governano il commercio tradizionale – racconta Paronzini -. Un nuovo competitor, dunque, al quale intendiamo rispondere puntando proprio sulle nostre marche private e sulle loro capacità di fidelizzare il cliente, andando oltre l’affezione per i singoli brand.
In questa prospettiva, sono dunque in fase di test alcuni prodotti che potrebbero presto entrare nelle fila delle nostre due gamme di Mdd, U! Confronta & Risparmia e la già citata il Viaggiator Goloso. Puntiamo inoltre su un canale di spesa online: stiamo infatti testando il servizio che dovrebbe diventare attivo tra febbraio e marzo 2016. E anche in questo ambito, concentreremo gli sforzi in modo particolare sulla marca privata». Per la Pl pare insomma prepararsi una stagione di crescita e rilancio.

di Manuela Falchero

Sport e colazione bionomio perfetto per 18 milioni di italiani secondo Doxa/Aidepi

Solo poco tempo fa era un’usanza bizzarra riservata a professionisti o popoli nordici con il pallino del fitness, ma ormai lo sport al mattino, prima di andare al lavoro, è una realtà anche nel nostro Paese, che coinvolge ben un italiano su tre (il 35% della popolazione pari a 18 milioni di persone) almeno una volta a settimana e 2 su 10 (11 milioni di persone) quasi tutti i giorni. Tra questi 9 italiani su 10 non rinunciano alla prima colazione, con il 54% che preferisce farla prima di svolgere l’attività sportiva, il 30% dopo, un 9% che fa la vera colazione prima e poi mangia qualcosa anche successivamente aver fatto attività fisica e solo il 7% non fa colazione ne prima né dopo sport. Sono i risultati della ricerca “Italiani e sport al mattino. Che ruolo per la colazione?” realizzata dall’Osservatorio DOXA-AIDEPI, Associazione delle Industrie del Dolce e della Pasta Italiane “Io comincio bene che ha fotografato come si svolge il primo pasto della giornata all’interno della pratica sportiva degli italiani al mattino.

«In generale non si dovrebbe mai iniziare un’attività fisica con alle spalle un digiuno superiore alle 3-4 ore – ricorda Michelangelo Giampietro, medico dello sport -. Saltando la colazione si corre il rischio di farsi potenzialmente male in allenamento. Siamo a digiuno da molte ore, cala la glicemia e il glicogeno muscolare non è ricaricato a sufficienza, quindi se non si sostiene l’attività fisica con la colazione i muscoli possono rimanerne danneggiati. Anche per chi al mattino ha lo stomaco chiuso il suggerimento è quello di mangiare comunque qualcosa, anche dei biscotti o un dolce da forno a ridosso dell’allenamento, purché non si resti a digiuno».

E in effetti se l’usanza di fare jogging ad esempio non è proprio nostrana molto tradizionali restano i gusti degli italiani a tavola, anche nelle prime ore del mattino. Biscotti, fette biscottate (con marmellata o crema spalmabile al cacao), cereali, croissant, frutta, accompagnati da caffè, latte o cappuccino costituiscono la colazione dell’86% degli sportivi mattutini, che non cambiano la scelta degli alimenti da portare in tavola e neanche aumenta o diminuisce le porzioni.

 

Uomini over 50 outdoor donne in palestra

La ricerca fa anche l’identikit del maniaco dello sport: uomo e over 50, pratica l’attività sportiva quotidianamente. Il 22% dei nostri connazionali invece fa sport dalle 3 alle 6 volte a settimana, e le donne invece tengono una media di 1-2 volte alla settimana. Nord Est e Centro sono le aree geografiche più “sportive” d’Italia.

Il luogo poi è importante e determina una altro spartiacque, in questo caso di genere. L’indagine Doxa/AIDEPI segnala infatti come i luoghi più frequentati dagli sportivi al mattino siano quelli all’area aperta (66%), mentre il 25% fa sport indoor (palestra o piscina) e il 9% lo pratica a casa sfruttando attrezzi casalinghi o facendo ginnastica a corpo libero. Però parchi, giardini, campi sportivi, piste di atletica e strade sono più frequentati dagli uomini (79%) rispetto alle donne (53%) le quali scelgono più spesso le strutture sportive (36% contro il 14% degli uomini) o il proprio domicilio (11% contro 7% degli uomini). In generale i giovani preferiscono le strutture sportive (39%) mentre gli over 50 lo sport outdoor (71%).

Numeri davvero lusinghieri, fino a quando si scopre che con i nostri 96 giorni l’anno su una media europea di 108 giorni, siamo al penultimo posto nella classifica della pratica dell’attività fisica, dietro a Gran Bretagna Francia, Germania Spagna, e Svezia. Gli Stati Uniti dal canto loro dedicano al fitness ben 135 giorni l’anno.

Dominante ormai è il ruolo della tecnologia e delle dinamiche social: se la colazione “ammassa” su Instagram 82 mila scatti diventando il pasto più fotografato dopo la cena lo sport ormai sembra non potere fare a meno di app e dispositivi indossabili che registrino le performance mattutine. E infatti hanno superato le 100.000 unità nel 2014 le app dedicate al fitness, più del doppio rispetto a quelle disponibili due anni e mezzo fa.

Worksumer: il rinascimento del lavoro creativo e liquido inizia da qui

Copy of Federica Pivetti-Paola De Patre credits to Andrea Menin ChillaxingRoad

Aggiornati, creativi e mobili: sono i worksumer, i lavoratori 3.0 sempre più a loro agio nella società liquida.

E’ questa la definizione fornita dall’osservatorio di COPERNICO Where Things Happen, a proposito dei nuovi worker in cui le esigenze di consumo (come spazio, tempo, contenuti, training, tecnologia, strumenti, network, benessere e cibo) sono sempre più spiccate.

La relazione tra tempo, spazio, contenuti e valori è centrale per capire il Worksumer- spiega infatti Pietro Martani, CEO di Windows on Europe e ideatore di COPERNICO-. “Si tratta di un lavoratore evoluto, allo stesso tempo protagonista e attore di una dimensione lavorativa dinamica e innovativa che va oltre il contesto tradizionale, creando un’esperienza diversa

Come è cambiato il mondo del lavoro

Negli ultimi 50 anni il ciclo di vita delle imprese si è ridotto da 60 a circa 18 anni. La linea che separa la sfera privata da quella lavorativa è sempre più sfocata e la ricerca di un equilibrio tra le due dimensioni porta il lavoratore a prediligere spazi funzionali al lavoro con un’attenzione al benessere: ambienti activity-based e flessibili, corredati da servizi che gli permettano di prendersi cura di sé e divertirsi allo stesso tempo.

E c’è addirittura chi parla di “nuovo rinascimento del lavoro”: un mood in cui la soggettività, l’individualità e la flessibilità prendono il sopravvento sulla schematizzazione e uniformità dei comportamenti e degli ambienti.

Lavorare in nome della mobilità, dunque, tanto che secondo l’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano questa nuova “mobilità della postazione di lavoro” potrebbe valere 27 miliardi in più di produttività e 10 miliardi in meno di costi fissi.

E le aziende italiane stanno progressivamente cavalcando l’onda, come dimostra il fatto che il 30% di esse favorisce il lavoro da remoto (fonte: Rapporto dell’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano). E non basta: gli investimenti dei Venture Capitalist italiani in aziende di nuova generazione sono infatti cresciuti a ritmi intorno al 200% nell’ultimo anno (fonte: CBS Insight) e, nello stesso periodo, gli spazi dedicati allo smart working si sono sviluppati in tutto il mondo con percentuali di crescita intorno al 250% (fonte Harvard Business Review). Un fenomeno globale come dimostra il caso di WeWork – start-up newyorkese – che con le sue 30.000 membership è stata recentemente valutata 10 miliardi di dollari. O Regus che alla fine del 2014 contava su una rete di 2.200 locations, e 2 milioni di clienti in un centinaio di Paesi.

La nascita del worksumer

Il risultato? Un nuovo modello di fruizione degli spazi e del tempo del lavoro per un lavoro ormai sempre più “liquido” e flessibile in termini di spazio e tempo ed esigenze di consumo funzionali al lavoro. Ed è in questo “nuovo habitat” che nasce e cresce il Worksumer. Che non è solo il giovane startupper, o il creativo digitale, ma anche il professionista più maturo che trasferisce in questi nuovi spazi gruppi di lavoro o interi rami di azienda con l’obiettivo di avviare e stimolare scambio e innovazione.

Da qui allo smartworking il passo è breve: in questi spazi condivisi, infatti, si genera una spontanea fluidità e contaminazione che ogni giorno produce visibilità e occasioni di business matching oltre che a una generica prolificazione di creatività.

Prendiamo Google, per esempio. Sapevate che molti suoi servizi di maggior successo – come Gmail, AdSense, Transparency Report – sono stati ideati nel tempo lasciato in totale autonomia ai propri collaboratori?

Oppure che nella sede di Facebook (a Menlo Park) è stato predisposto un corridoio aperto, lungo un chilometro e mezzo in cui i dipendenti camminano, si incontrano e staccano il computer?

Un lungo percorso che incoraggia gli incontri, gli scambi e le passeggiate sociali. Una pratica moderna – certo – che ricorda, però, molto da vicino l’indimenticabile usanza dei peripatetici

 

 

Fiducia in calo a dicembre secondo Istat per consumatori e imprese

Sarà l’avvicinarsi delle feste più consumiste dell’anno, la paura del terrorismo e l’instabilità geopolitica o forse il blues di fine anno, tant’è, la fiducia dei consumatori e delle imprese cala in questo dicembre 2015. Lo rivela l’Istat che segnala come l’indice del clima di fiducia dei consumatori (espresso in base 2010=100) è calato a 117,6 da 118,4 del mese precedente. Quanto alle imprese l’Iesi, Istat economic sentiment indicator scende a 105,8 da 107,1 di novembre. Resta dunque la flessione, anche se entrambi gli indici confermano i livelli elevati registrati nei mesi precedenti.

A diminuire però sono tutte le stime delle componenti del clima di fiducia dei consumatori, con un calo maggiore per le componenti economica e corrente che passano, rispettivamente, a 152,9 da 157,9 e a 109,1 da 111,6; meglio va invece la componente personale (a 104,5 da 105,0) e quella futura (a 127,3 da 128,0). Per contro però peggiorano le aspettative sull’attuale situazione economica del Paese (a -24 da -20 e a 25 da 31). Insoddisfazione anche sull’andamento dei prezzi nei passati 12 mesi, con un saldo che aumenta a -16 da -19. Quanto alle attese sui prezzi nei prossimi 12 mesi, il saldo passa a -11 da -20. Aumenta il saldo delle attese di disoccupazione (a 2 da -8).

Riguardo le imprese, il clima di fiducia nel commercio al dettaglio cala (a 109,1 da 115,0) ma migliorano le attese sulle vendite future (a 29 da 24) ma peggiorano sensibilmente i giudizi sulle vendite correnti (a 13 da 32).

A Natale spese per alimentari su, regali in promozione, l’e-commerce avanza ancora

È stato un Natale post-crisi e gourmand quello appena passato, con spese sostenute sui beni alimentari “tradizionali” e decisioni oculate sugli altri generi dove si sono concentrati i regali, quali elettronica o abbigliamento, giocattoli e articoli per la casa, dove si è preferito cercare le promozioni e si è fatto ampio uso dell’e-commerce.

Secondo Coldiretti per il cenone (“praticato” dall’82% degli italiani) sono stati spesi quest’anno 2,2 miliardi di euro, mentre Codacons stima una cifra ancora più alta, 2,8 miliardi, il 5% in più del Natale 2014. La spesa generale si aggirerebbe invece intorno ai 10,1 miliardi, +3% sull’anno scorso e in crescita per la prima volta dopo otto anni. A tavola si è cercata la tradizione rifuggendo esotismi e delikatessen fuori stagione: largo dunque a pollame, bolliti, cappelletti in brodo e dolci fatti in casa. Un megapaniere Made in Italy che Coldiretti ha così diviso: 850 milioni di euro sarebbero stati spesi per il pesce e le carni (compresi i contestatissimi salumi), 400 milioni di euro per spumante, vino e bevande, 350 milioni di euro per i dolci (panettone e pandoro con il primo scelto dal 76% degli italiani che “batte” il secondo di quasi dieci punti, tranne al Sud), 300 milioni di euro per verdure, frutta fresca e secca e conserve, 200 per pane e pasta e 100 milioni per formaggi e uova.

Se solo nove italiani su cento hanno trascorso il 25 dicembre al ristorante, è stato boom per gli agriturismi, complice il bel tempo e la voglia di prodotti del territorio e genuini: una scelta attuata da 750mila italiani, il 15% in più dell’anno scorso.

Dall’estero poi arrivano i primi dati sull’ormai giornaliera lotta tra retail tradizionale ed e-commerce, con quest’ultimo che anche quest’anno avanza. Nel Regno Unito le visite in negozio sono diminuite del 9% nei giorni precedenti il Natale, disertati a favore di pub e ristoranti (dati Springboard). Per Barclaycard (che effettua metà delle transazioni via carta di credito) le vendite in negozio nei primi dieci giorni di dicembre sono calate del 2,3% mentre l’e-commerce ha registrato un +9,4%.

Anche il fattore meteo, con temperature ben sopra la media stagionale, non ha aiutato le vendite di articoli prettamente invernali quali cappotti, stivali e maglioni.

L’emorragia di visite (e vendite) nei negozi fisici sarebbe però dovuta anche all’usanza esportata dagli USA e sempre più diffusa (quest’anno è partita anche da noi, anche se ancora in tono minore) delle promozioni del Black Friday/Cyber Monday, appuntamento ormai atteso per concentrare gli acquisti spendendo meno. E chi non ci ha pensato, prosaicamente e laicamente ha pensato di rimandare gli acquisti all’appuntamento successivo, che nei Paesi anglosassoni è il Boxing Day, il 26 dicembre, avvio dei saldi. Anche qui però una larga fetta andrà alle vendite online che si prevede cresceranno del 22%. Da noi per i saldi si dovrà invece aspettare fino al 2 gennaio in Sicilia e al 5 gennaio nel resto d’Italia.

Negli USA le vendite natalizie online secondo Forrester aumentaranno ancora quest’anno di un ulteriore 11% raggiungendo i 95,5 miliardi di dollari. Il successo dell’e-commerce è stato, secondo alcuni analisti, spinto anche dall’uso sempre più diffuso di effettuare ricerche e compere via smartphone, con la possibilità di fare acquisiti in pochi minuti e in qualsiasi momento, approfittando delle promozioni e scegliendo i prezzi più bassi.

A 40 milioni di italiani il Prosecco piace

Il 92% di chi beve vino (cioè l’87% degli italiani), ama il Prosecco. In numeri assoluti questo vuol dire che è conosciuto, apprezzato e bevuto (ovviamente in modi e con intensità differenti) da circa 40 milioni di italiani.

È quanto emerge dall’indagine realizzata da SWG spa di Trieste, su un campione di 1200 italiani, maggiorenni. Ricerca che segna l’avvio di un nuovo osservatorio sul Prosecco, voluto dal Consorzio di tutela Prosecco e affidato ad SWG con l’obiettivo di analizzare la relazione tra il consumatore contemporaneo e il Prosecco. L’indagine demoscopica ha portato alla luce un’intensa relazione di gusto e piacere tra il Prosecco e il consumatore nostrano.

Per il 41% delle persone la scelta del Prosecco è un fattore di gusto: perché gli piace. Un altro 31% lo ritiene semplicemente buono. Altri importanti driver di consumo, sono la sua versatilità e il fatto che si abbina a qualunque momento della giornata. Il Prosecco ha conquistato, quindi, il gusto e il cuore degli italiani. È un vino fresco, piacevole, spiritoso, eclettico, adatto ai tanti palati differenti. Una proposta giovane e al contempo tradizionale, di qualità e con un prezzo accessibile e soprattutto che favorisce il buon vivere e lo stare insieme agli altri. Non a caso, il Prosecco appare un vino ottimo per cerimonie, ricorrenze e festeggiamenti, ma è anche ritenuto una buona proposta per la pausa o il break quotidiano. Un vino che serve a fare bella figura, rendere l’aria della festa, ma anche un vino che ti fa evadere regalando un momento di piacevole relax.

«Non nascondo una certa soddisfazione nel leggere questi primi dati emersi dal sondaggio – dichiara il Presidente del Consorzio Prosecco Doc Stefano Zanette – In particolare mi compiaccio nel riscontrare che la prima ragione per la quale il Prosecco viene utilizzato, è il fatto che il Prosecco piace perché a buono. Non perché è economicamente vantaggioso rispetto ad altri vini come spesso mi capita di sentire. Questo dato è una conferma a quanto sostenevo anche senza il suffragio dei dati». «Insieme ai molti dati positivi – precisa il presidente Zanette – emergono anche altri segnali dai quali si evince che c’e ancora un certo lavoro da svolgere sia sul piano della formazione sia sul piano della promozione, per meglio far conoscere questo prodotto e il territorio che lo esprime. Noi siamo pronti».

Perché è necessario liberalizzare i farmaci di fascia C

Secondo i dati Federfarma, il giro d’affari delle farmacie è composto per il 49 per cento dai farmaci di fascia A, per il 12 per cento dai farmaci di fascia C, per il 9 per cento dall’autocura (Sop e Otc) e per il restante 30 per cento da prodotti non farmaceutici (parafarmaco, omeopatici, prodotti per l’infanzia, igiene e bellezza etc.), la liberalizzazione della fascia C riguarderebbe solo il 12 per cento del fatturato delle farmacie. Oggi le farmacie raccolgono dal libero mercato il 40 per cento del proprio fatturato (prodotti non farmaceutici più farmaci senza obbligo di ricetta), riuscendo a farlo senza sminuire la propria professionalità e con buoni risultati, visto che nei primi sei mesi del 2015 è stato proprio il mercato commerciale – quello liberalizzato – a far registrare il migliore trend di crescita, +4,8 per cento rispetto al primo semestre del 2014.

Liberalizzare la vendita dei farmaci a carico dei cittadini non sarebbe altro che la prosecuzione di un percorso che sta dando buoni risultati, secondo una ricerca dell’Istituto Bruno Leoni illustrata ieri nel corso del convegno organizzato da Ancd insieme con la Federazione Nazionale Parafarmacie Italia sul tema Monopolio e diritti: il caso dei farmaci di fascia C.

«I farmaci di fascia C senza obbligo di ricetta possono essere venduti fuori dalle farmacie, mentre sono ancora di esclusiva vendita delle farmacie, paradossalmente, quelli con obbligo di ricetta», ha puntualizzato il vice direttore dell’Istituto Bruno Leoni Serena Sileoni. «La condizione di una ricetta firmata dal medico curante, oltre alla presenza obbligatoria di un farmacista anche in spazi di vendita estranei alle farmacie, rendono davvero incomprensibile questo limite, dal punto di vista della sicurezza terapeutica. La strenua opposizione alla completa liberalizzazione dei farmaci di fascia C deriva soltanto dalla difesa di posizioni acquisite di mercato e da resistenze culturali che non hanno nulla a che vedere con la salute delle persone né con l’accessibilità di prezzo dei medicinali».

L’Antitrust si è più volte espresso per la liberalizzazione della vendita dei farmaci di fascia C, “una misura che consentirebbe un incremento delle dinamiche concorrenziali nella fase distributiva di tali prodotti, con indubbi benefici per i consumatori anche in termini di ampliamento della ‘copertura distributiva’, non più rappresentata dalle sole farmacie, ma arricchita dai punti vendita della grande distribuzione o dalle parafarmacie presenti nel territorio”. Una liberalizzazione che potrebbe tradursi in un risparmio annuo per i cittadini compreso tra 450 e 890 milioni di euro (applicando uno sconto tra il 15 e il 30 per cento), considerando che i farmaci di fascia C – con obbligo di ricetta medica (bianca) e non rimborsabili dal SSN – hanno un prezzo medio di 11,8 euro, 3,7 euro più elevato rispetto a quello dei farmaci senza obbligo di ricetta.

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«Le liberalizzazioni sono fondamentali per aiutare la ripresa economica del Paese e dei consumi interni promuovendo lo sviluppo di nuova imprenditoria», ha sottolineato l’amministratore delegato di Conad Francesco Pugliese. «Sono una misura che consentirebbe un incremento delle dinamiche concorrenziali nella fase distributiva dei prodotti, con indubbi benefici per i consumatori. Inoltre non “pesano” sul bilancio dello Stato, abbattono i costi attraverso lo sviluppo della concorrenza e producono una riduzione dei costi dei servizi e dei prodotti stessi. Impedire l’ammodernamento del Paese equivale a voler mantenere anacronistiche rendite di posizione perdendo di vista altri, ben più gravi pericoli che si profilano all’orizzonte». Pugliese ha anche anticipato che un primo blocco di centomila firme per la sottoscrizione della petizione lanciata da Conad sarà consegnato in tempi brevi alla presidenza del Consiglio prima dell’avvio della discussione in Senato

E il presidente della Federazione Nazionale Parafarmacie Italiane Davide Giuseppe Gullotta ha aggiunto: «Un tema, questo, che ci sta molto a cuore, sia in termini di nuova occupazione sia di riconoscimento del ruolo professionale del farmacista nella parafarmacia: stessa laurea, stesso Albo professionale, stessa competenza. Perché trattarlo come un professionista di serie B?».

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