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Rinnovati i Frollini Bauli con zucchero a velo nell’impasto e pack riciclabile

I sacchetti di frollini Bauli, ultimi nati tra i prodotti continuativi del brand che in pochi mesi hanno conquistato una buona fetta di consumatori, si presentano migliorati grazie a una selezione ancor più accurata delle materie prime e al vero grande ingrediente speciale: lo zucchero a velo nell’impasto. Lo zucchero a velo, infatti, dà all’impasto una consistenza fine e levigata per un’ideale resistenza all’inzuppo che prosegue la scelta di una accurata selezione degli ingredienti  e delle materie prime che caratterizza i frollini Bauli, come le uova da galline allevate a terra, yogurt dell’Alto Adige, nocciole e panna fresca italiane, latte fresco alta qualità.

Ma i frollini Bauli nella loro confezione lilla si caratterizzano anche perché l’incarto non deve essere più smaltito tra i rifiuti indifferenziati ma è riciclabile tra quelli di carta: una confezione eco-compatibile senza perdere la funzionalità nella conservazione del prodotto.

Carne di maiale contaminata in UK: troppi antibiotici negli allevamenti europei

Si chiama MRSA, Staphylococcus aureus resistente alla meticillina, la più recente emergenza sanitaria europea proveniente dal mondo animale. È un superbatterio resistente agli antibiotici che sta dilagando negli allevamenti di suini del nord Europa. Infettando non solo chi lavora a contatto con i suini, ma anche i prodotti che arrivano sugli scaffali della GDO. In Danimarca alcuni test hanno evidenziato come il 20% dei prodotti suini sarebbero contaminati, nel Regno Unito in un test promosso dal quotidiano Guardian ed effettuato da un’Università danese, su 100 prodotti prelevati dalle principali catene britanniche 9, venduti da Co-operative, Sainsbury’s, Tesco e Asda, sono risultati contaminati dal batterio MRSA.
Il problema sanitario va ben oltre le eruzioni cutanee anche gravi che alcune persone hanno sviluppato (in genere lavoratori di allevamenti, ma non solo), e la contaminazione dei prodotti che secondo le autorità sanitarie non sarebbero direttamente legati allo sviluppo della malattia, e riguarda la resistenza agli antibiotici, che secondo l’OMS, organizzazione mondiale della Sanità, entro il 2050 potrebbe provocare più morti dei tumori, causate da infezioni non più curabili dai farmaci che oggi usiamo, e che sono utilizzati pesantemente negli allevamenti. La drastica riduzione del loro utilizzo è l’unico modo per arginare il problema.

Da qui l’idea di alcune associazioni di applicare un’etichetta sulla carne in vendita che certifichi l’assenza di somministrazione di antibiotici durante la vita dell’animale. Un mezzo che segnalerebbe, indirettamente, un allevamento più sano e sostenibile. Secondo alcuni attivisti però la creazione di un’etichetta “non trattato con antibiotici” rischierebbe di creare un’oasi protetta (un po’ come il biologico) per carni a prezzi rialzati, mentre la maggior parte dei consumatori continuerebbe ad acquistare prodotti low cost, senza affrontare direttamente il problema. Non sarebbe tanto l’uso di farmaci, quando necessari e se prescritti da un veterinario, che andrebbe sanzionato, ma il loro impiego indiscriminato e preventivo “a pioggia” su tutti gli animali diffuso negli allevamenti intensivi, sovraffollati e dove le condizioni igieniche sono estremamente carenti.

Il problema non è evidentemente arginato al Nord Europa, per due motivi. Innanzitutto, la metà delle carni suine utilizzate in Italia è importata. Inoltre, come ha detto al Guardian Dan Jørgensen, ex ministro dell’agricoltura danese, “ogni Paese con allevamenti di suini ha questo problema: solo che non sanno quanto sia grande”. E l’Italia non è certo esente dall’uso massiccio di antibiotici, segno che esistono problemi sanitari, spesso derivati da condizioni di allevamento insostenibili, come quelle denunciate da Animal Equality in alcuni allevamenti del nord Italia. È la stessa ministra della Salute Beatrice Lorenzin a dichiarare che “Il dato sull’uso degli antibiotici è alto nei nostri allevamenti”. Il ministero ha anche fornito questi dati: oltre 10 milioni di suini sono allevati nel nostro Paese e 137.851 sono gli allevamenti di maiali censiti. Infine, all’Italia è stata assegnata la “maglia nera” nella resistenza agli antibiotici, causata da un loro uso spesso indiscriminato, nell’uomo e negli animali. La resistenza all’MRSA, in particolare, in Italia ha percentuali da primato europeo, superiori al 38%.

Il regolamento europeo entrato in vigore ad aprile che obbliga ad indicare in etichetta anche della carne suina, ovina, caprina e avicola la nazione d’origine, oltre al nome dello stato dove è stato allevato e macellato l’animale, è certamente un passo avanti, ma il problema vero è che gli allevamenti infetti non sono tracciati in alcun modo. Due giornalisti danesi che hanno investigato sull’industria della carne suina sono stati denunciati per “violazione della privacy”. Non solo, l’etichettatura dell’origine non riguarda le carni lavorate come i salumi.

Un problema, quello degli allevamenti intensivi e dell’uso di antibiotici, che riguarda non sola la carne suina ma anche quella avicola. Secondo il rapporto ECDC/ EFSA/ EMA 2015 in Italia consumiamo per uso animale tre volte la quantità di antibiotici della media europea.

Il ritorno ad allevamenti più “artigianali” e “umani”, che tengano conto della salute e – per quanto possibile – del benessere degli animali, e diminuiscano le probabilità di ammalarsi sarebbe secondo molto la soluzione. Un passo che porterebbe ad avere una carne sicuramente più cara, ma presumibilmente più sana. Sullo sfondo, c’è un consumatore sempre più preoccupato della salute e dell’origine della carne che acquista, come rivelato da una ricerca SWG recentemente pubblicata (vd I consumatori e la carne in un’indagine Swg a Eurocarne).

 

Convegno Popai: Innovazione e tecnologie nel retail foodservice

Dopo il successo della prima edizione, torna il convegno Popai dedicato al Retail Food Service, un settore in ascesa grazie allo sviluppo ormai parallelo della ristorazione moderna e degli specialty food stores.

Il settore italiano della ristorazione, così come già avvenuto all’estero, deve mettere in atto nuove strategie che migliorino la propria capacità di comunicare, interagire e sollecitare la clientela, aumentando la qualità delle risorse umane.

L’evento, in programma il 9 luglio presso l’Urbana Center Milano, sarà l’occasione di analizzare le best practice italiane a confronto con quelle internazionali, discutendone i presupposti del loro successo grazie all’unione tra innovazione e realismo applicativo.

Il programma prevede interventi di Massimo Innocenti (Titolare Spontini), Dino Maldera (Food Manager Ikea Italia), Alessandro Ravecca (Presidente Cibiamo), Roberto Simonetto (Direttore Vendite Supermercati Diretti Carrefour Italia),  Nicola Vandi (Responsabile Marketing America Graffiti Franchising).

Per iscrizioni convegni@popai.it

Pastifico Maffei, pack limited edition d’artista orientato all’export

Il Pastificio Maffei di Barletta è  fra i brand “con i loro prodotti hanno scritto la storia del “Food Made in Italy” e, per questo motivo, ha uno spazio espositivo all’interno del Padiglione “Cibus è Italia”. Fondata negli anni Settanta da Savino Maffei l’azienda, grazie alla ricerca continua sul prodotto e all’innovazione dei processi produttivi, ma rimanendo fedele alla qualità, è diventata una solida realtà industriale, leader nel mercato italiano, producendo e commercializzando pasta fresca di semola di grano duro, all’uovo e gnocchi di patate.

In occasione di Expo e con uno sguardo proiettato allo sviluppo dei mercati internazionali lancia una limited edition con il nuovo pack a firma dello stilista Marco Coretti, che aveva già firmato nel 2013 un nuovo pack per Maffei.

Savino Maffei«Un’operazione che in un anno portò al raddoppio del fatturato», sottolinea Savino Maffei (nella foto a sinistra) che per il 2015 prevede un ulteriore aumento del 15% del fatturato. E le premesse ci sono tutte se si considera che dagli 8,4 milioni di chili di pasta fresca del 2011 l’azienda pugliese è salita ai 14,6 milioni del 2014, marcando in quattro anni “neri” per i consumi, un incremento superiore al 73%.

Con la limited edition, l’obiettivo sarà rafforzare l’identità del brand soprattutto all’estero, sotto l’impulso di Expo e in quei mercati quali Giappone, Stati Uniti, Canada e Romania, grazie ai quali «contiamo di aumentare il fatturato estero del 15% in un anno e del 40 in due anni», fa sapere Maffei, che anticipa: «Entro luglio lanceremo un nuova linea di produzione, l’undicesima, ma per il mercato estero; si affiancherà alle specialità regionali che portano addirittura il nome di un quartiere come Bari vecchia e ad altre tipiche del Belpaese come i maccheroni calabresi, le trofie liguri, le tagliatelle all’uovo, gli gnocchi di patate, oltre ai formati speciali e alle linee realizzate per le grandi insegne della distribuzione».

 

Speck Alto Adige e Melone Mantovano, due Igp insieme per un’estate dal sapore insolito

Nata quasi per caso, il connubio insolito tra il gusto speziato e leggermente affumicato dello Speck Alto Adige Igp  e di quello zuccherino e aromatico del Melone Mantovano Igp ha tutte le premesse per consolidarsi. La premessa è infatti giocata sulla qualità dei due prodotti e sul loro secolare radicamento nelle rispettive zone di produzione.

In un incontro organizzato a Milano – dove peraltro è sempre troppo carente la presenza di buyer – questo connubio di sapori è stato testato da due chef di talento con le loro ricette creative.

Il Melone Mantovano Igp, coltivato nella pianura lombardo-emiliana in tre diverse tipologie, è il frutto di terreni ad alta fertilità adiacenti il corso del Po, che conferiscono al melone un aroma più intenso e una più alta concentrazione di sostanze benefiche come potassio e sodio rispetto ad altre aree di coltivazione.

Lo Speck Alto Adige Igp è invece preparato secondo i dettami della tradizione contadina altoatesina e all’attenta selezione della materia prima seguono le fasi della speziatura, dell’affumicatura e della lenta stagionatura.

La collaborazione appena nata potrà dare già dei frutti nei prossimi mesi (la stagione del Melone mantovano va da giugno a settembre) con possibili eventi in Store già allo studio dei due Consorzi.

I numeri dello Speck Alto Adige Igp
Nel 2014 il 35% dello speck prodotto dagli iscritti al Consorzio ha ottenuto la denominazione. Lo scorso anno, i produttori iscritti al Consorzio hanno prodotto 7.039.604 pezzi, pari a circa 31.700 tonnellate di speck, ovvero il 9% in più rispetto al 2013.

Il 69% della produzione di Speck Alto Adige viene venduto in Italia. Una grossa parte in Alto Adige e nelle regioni settentrionali. Però lo Speck Alto Adige è molto richiesto anche fuori dai confini nazionali. Con una quota di export del 31%, lo Speck Alto Adige è uno dei salumi più esportati d’Italia.

In Italia il 61% viene venduto nei supermercati. Altri canali importanti sono i discount col 23%, l’ingrosso col 6%, le gastronomie col 4% e la vendita al dettaglio (6%), particolarmente forte in Alto Adige.

I numeri del Melone Mantovano Igp
Oggi aderiscono al Consorzio di Valorizzazione e Tutela del Melone Mantovano 9 produttori di melone Igp e nessun trasformatore, queste le due categorie ammesse dal Ministero per attestare la rappresentatività della filiera. Le imprese del Consorzio nel 2015 dedicano alla coltivazione del Melone Mantovano una superficie complessiva di ca. 1000 ettari che porteranno ad una produzione stimata di 102’000 quintali di melone a marchio Igp. Un dato in netta crescita rispetto ai 6’000 quintali del 2014.

Riso italiano a rischio: l’allarme dell’Ente nazionale risi

«C’è il rischio molto concreto che nel giro di due anni si perdano circa 50.000 ettari di superficie risicola italiana a riso indica»: l’allarme arriva da Paolo Carrà commissario dellEnte Nazionale Risi, che ha così spiegato la non partecipazione della rappresentanza italiana al Cluster del riso:  «La concorrenza di alcuni Paesi Asiatici (Cambogia e Myanmar) sta mettendo sotto pressione le nostre produzioni che rappresentano un patrimonio unico non solo per l’Italia ma per il mondo intero. Nel Cluster del riso sono presenti anche questi paesi, ed è per questo che non vi parteciiamo. Viceversa vogliamo utilizzare Expo 2015 per avviare un’intensa campagna di sensibilizzazione, che riaffermi il valore e la qualità del nostro prodotto. Abbiamo cosìproposto a tutti gli attori della filiera un progetto di lungo periodo che abbia al centro la qualità del prodotto», continua Carrà. «Expo 2015 rappresenta una grande opportunità per tutto il comparto e vogliamo che non sia una semplice vetrina, ma che ponga le basi per relazioni istituzionali e commerciali durature e coinvolga tutto il comparto. Per questo negli eventi che si susseguiranno fino ad ottobre proporremo un viaggio che coinvolgerà tutti i distretti che si dedicano alla coltura del riso, da Pavia a Novara, da Vercelli a Verona, da Mantova ad Oristano, da Alessandria a Biella».

Il primo evento si è tenuto nella terrazza del Padiglione CibusèItalia. Ne sono previsti altri cinque da giugno a ottobre.

L’Italia è il primo paese produttore di riso nell’Unione Europea. Con una superficie di 220.000 ettari e una produzione di 1,4 milioni di tonnellate di riso greggio l’Italia copre, rispettivamente, il 52% della superficie ed il 50% della produzione risicola europea. Il 92% della superficie risicola italiana è concentrata nelle Regioni Piemonte e Lombardia, in particolare nelle Province di Pavia, Vercelli e Novara.

La produzione italiana annua di riso lavorato si attesta a circa 1 milione di tonnellate che viene collocato per il 10% sui mercati extra Ue, per il 35% sul mercato italiano e per il 55% sul mercato dell’Unione europea.

In Italia figurano 4.100 produttori agricoli, 100 industrie di trasformazione e 75 pilerie. Il fatturato ottenuto dalla vendita di riso greggio da parte dei produttori è pari a circa 0,5 miliardi di euro. Il fatturato ottenuto dalla vendita di riso lavorato da parte delle industrie di trasformazione è pari a circa 1 miliardo di euro.

Pedon a Expo, impresa sostenibile dal seme allo scaffale

Il Gruppo Pedon si presenta a EXPO Milano 2015 presso il Padiglione The Waterstone di Intesa Sanpaolo, prendendo parte all’iniziativa “Ecco la mia impresa”, lo spazio dedicato alle eccellenze del Made in Italy, per dare loro visibilità sulla scena internazionale dell’Esposizione Universale. Annunciata l’imminente apertura di un nuovo impianto produttivo in Egitto, vera testa di ponte per «aprire nuovi sbocchi commerciali verso i Paesi del bacino mediterraneo e del Medio Oriente», come ha detto l’amministratore delegato del gruppo Remo Pedon.

«Esportiamo in 45 Paesi del mondo, operiamo in 5 continenti con i nostri stabilimenti produttivi – ha proseguito – impegnandoci costantemente per lo sviluppo economico e sociale del territorio, nel pieno rispetto delle risorse naturali e della cultura locale, promuovendo un corretto e sano stile alimentare. Questi sono i principi che ci caratterizzano da più di trent’anni, e che presentiamo all’Expo di Milano: un modello industriale vincente, dal seme allo scaffale».

Pedon si caratterizza infatti per l’integrazione verticale della filiera e per l’attenzione posta a temi fondamentali come la sicurezza alimentare, la promozione di una sana e corretta cultura alimentare e le attività svolte in ambito etico, sociale e ambientale.

All’interno del Padiglione esposte le gamme più rappresentative delle linee I Salvaminuti, Dalla Buona Terra, Biologica Pedon, C’è di Buono, Bioritmi, Italia Tipica e Lenticchia Pedina. Cereali, legumi e semi tradizionali e a rapida cottura, convenzionali e biologici, acquistabili anche presso il Temporary Shop NaturaSì e il supermercato del futuro Coop.

 

 

Export alimentare: anche la gdo si muove e Coop comincia dalla Cina

Per decenni si è detto che la Gdo italiana avrebbe dovuto espandersi all’estero, ma che le imprese non avevan o una dimensione tale da fare il grande salto e confrontarsi con i big internazionali. Poi sono arrivati loro in Italia.

Qualcuno se n’è andato, altri stanno medicando le  ferite. Altri arriveranno. Oggi però nel 2015, se rimane la difficoltà di piantare bandiere all’estero, tra le opportunità dell’e-commerce e l’interesse che in quasi tutti i paesi del mondo viene riservato al cibo italiano, le cose sono un po’ cambiate. Lo ha sottolineato recentemente a Fruit Innovation con forza il presidente dell’Ice Riccardo Monti: «Dall’estero vi è una domanda gigantesca per i prodotti della filiera agroalimentare italiana. Noi oggi siamo leader riconosciuti nella qualità, dobbiamo diventarlo nella quantità».

Maurizio Martina (Ministro delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali con delega ad  Expo Milano 2015), Carlo Calenda (Vice Ministro dello Sviluppo Economico) e Riccardo Monti (Presidente dell’ICE – Istituto per il Commercio Estero).
Maurizio Martina (Ministro delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali con delega ad Expo Milano 2015), Carlo Calenda (Vice Ministro dello Sviluppo Economico) e Riccardo Monti (Presidente dell’ICE – Istituto per il Commercio Estero).

È l’obiettivo dei 50 miliardi di fatturato all’export per il 2020, dai 33 miliardi attuali,  che si è dato il Governo. «Un obiettivo alla portata – ha  affermato il ministro delle Politiche agricole Maurizio Martina – che può contare anche su un logo unico dell’agroalimentare made in Italy”, presentato ieri a Expo. Il segno unico è rappresentato da una bandiera italiana con tre onde che richiamano il concetto di crescita e di sviluppo e dalla scritta The Extraordinary Italian Taste. Il piano seleziona tre fasce: i mercati consolidati, gli emergenti e i nuovi. E proprio a giugno partirà la prima campagna rivolta a Stati Uniti e Canada per un investimento di 30 milioni di euro sui 150 milioni complessivamente previsti.

“Da oggi l’agroalimentare italiano – ha spiegato il Ministro Maurizio Martina – sarà più forte e più riconoscibile sui mercati internazionali. Finalmente abbiamo un segno distintivo unico che aiuterà consumatori e operatori a identificare subito le attività di promozione dei nostri prodotti. Partiamo da Expo Milano 2015 per sfruttare questa straordinaria occasione di visibilità e proseguiremo con le azioni previste dal nostro piano di internazionalizzazione sui mercati strategici. Nei prossimi tre anni investiremo oltre 70 milioni di euro per la promozione, imparando a fare squadra e a non disperdere in mille rivoli le risorse. Con il segno unico distintivo vogliamo fare un’operazione di riconoscibilità, creare un filo conduttore che leghi tutte le attività di promozione del vero prodotto italiano sullo scenario internazionale. Il nostro obiettivo è essere al fianco delle imprese che in questi anni hanno messo in campo energie, capacità di fare, passione, aziende che hanno consentito all’Italia di registrare una crescita del 70% dell’export agroalimentare negli ultimi 10 anni. Abbiamo chiuso il 2014 con 34,4 miliardi di euro, nel primo trimestre del 2015 siamo a oltre 8,7 miliardi di euro e il nostro obiettivo è arrivare a 36 miliardi a fine anno. Anche sfruttando bene l’Esposizione Universale di Milano possiamo farcela e puntare all’obiettivo di quota 50 miliardi di export nel 2020”.

Anche la Gdo può fare la sua parte. Infatti qualcosa si sta muovendo, proprio nella direzione di utilizzare le tante ricchezze dei giacimenti agroalimentari italiani per sviluppare business all’estero. Non sono mancati esempi in passato, tanto che Crai è presente in Svizzera e a Malta con 160 punti vendita. Le modalità sono diverse, ma i due maggiori gruppi italiani, Coop e Conad, si sono finalmente mossi.

La Cooperativa di dettaglianti è approdata in Cina a febbraio con una formula mista che prevede per ora cinque punti vendita e una rete di vending machine con un’ampia selezione di prodotti acquistabili anche via internet.

Appena partito è invece il progetto di Coop Italia che ha creato una specifica società – Coop Italian food – per sviluppare contatti con retailer internazionali o distributori di prodotti italiani all’estero,  ai quali proporre i prodotti a marchio e quelli delle piccole aziende fornitrici, come afferma il presidente di Coop nell’intervista.

Il primo episodio di questa nuova avventura è in Cina: è stata costituita, secondo quanto risulta a inStoremag, ItalMenu, società con sede a Hong Kong la cui attività è importare e distribuire i prodotti a marchio Coop di importazione e distribuzione nei canali retail e horeca. Con Ice sono previste tre settimane di iniziative promozionali tra giugno e luglio in 40 punti vendita della catena ParknShop, che fa capo al gruppo Hutchison Whampoa.

Coop a Expo: le parole del cibo del futuro tra timori e aspettative

Coop Expo

Nella grande vetrina-luna park di Expo, lo sforzo maggiore di chi espone è quello di riportare l’attenzione sui contenuti. E non v’è dubbio che Coop con la sua presenza costituisce un laboratorio – insieme ad altre organizzazioni – che cerca di interrogarsi propio sul futuro del cibi e del pianeta. Non è un futuro immediato, è traslato al 2050, ma è un futuro che ci riguarda tutti e soprattutto riguarda le giovani generazioni.

Così Coop si interroga sul cibo del futuro e lo fa non solo con la sua presenza istituzionale, ma attraverso una ricerca commissionata a Doxa in 8 Paesi del mondo esemplificativi di situazioni diverse.

La ricerca si articola sul presente e sul futuro. E il presente è caratterizzati da un proprio stile alimentare, come dichiara quasi la metà del campione (il 45%), ma è sulla via della globalizzazione. Le differenze nell’approccio al cibo iniziano fin dalla preparazione del pasto, a cui si dedica in media 1,3 ore al giorno, ma con valori nettamente più alti per Paesi come il Brasile, l’India e la Russia. Gli italiani non sono da meno e si distaccano in questo dai vicini europei, analogamente si mostrano meno attratti dal take away e dal consumare cibo fuori casa. Per Italia, Cina e India prevale una dieta varia con utilizzo di carboidrati, di frutta e verdura, mentre il consumo di carne si concentra sui Paesi anglosassoni, ma anche in Cina e Brasile.

Emergono anche stili alimentari alternativi e in qualche modo trasnazionali.

I Foodies (cibo  tipico e di qualità) sono il 13% ma occupano posizioni di rilevo anche la dieta ipocalorica (10%), il credo salutista (10%), vegano (8%) o biologico (8%). Solo una minima parte del Pianeta sembra restia alla contaminazione, se è vero che appena il 22% del campione dichiara di non mangiare mai cibo etnico e quasi un quarto afferma invece di consumarlo spesso. Il 90% di tedeschi e inglesi dichiara infatti di mangiare etnico spesso o qualche volta, i più diffidenti sono i brasiliani e gli italiani.

Il cibo domani: cadono i tabù

Nell’infografica che sintetizza i risultati della rierca si colgono gli aspetti più interessanti.

Presentazione standard di PowerPoint

«Vi è un certo ottimismo dichiarato dagli intervistati – afferma Albino Russo, Responsabile Ufficio Studi Ancc-Coop – ma vi è una netta consapevolezza del cambiamento del cibo tra trent’anni, sia perché le tecnologie faranno la differenza, sia a causa dei cambiamenti climatici. dell’inquinamento e dell’aumento della popolazione». Questi fattori di cambiamento, nella percezione del campione intervistato, impatteranno significativamente soprattutto sulla naturalità del cibo (64%) sulla sua qualità e sicurezza (62%), sulla stessa tipologia di alimenti (60%). Proprio l’attesa di tali forti cambiamenti induce specifici timori sulla manipolazione degli alimenti che mangeremo (60%) e sugli effetti indotti dall’inquinamento ambientale (53%). In alcuni Paesi prevalgono al contrario i timori di un innalzamento del costo del cibo (Usa 57% Brasile 61%), un cibo meno democratico e solo per pochi, e del rischio di una futura scarsità alimentare (Brasile 63%). Il 72% del campione mostra infine piena consapevolezza sulla diffusione del cibo ogm.

Peraltro a livello mondiale i consumatori intervistati non prevedono una riduzione delle quantità consumate (solo in Uk e Germania si pronostica una riduzione nella frequenza di consumo di carne) mentre la dieta sembra spostarsi su una maggiore varietà con maggior ricorso a carboidrati, frutta e verdura.

Che cosa ci sarà Nel piatto del futuro? Cadono molti tabù. Troveremo Ogm (il 72% del campione mostra piena consapevolezza sulla loro diffusione), molte pillole (75%) e carne sintetica (60%), non mancheranno insetti e alghe comunque cibi dalle proprietà nutrizionali bilanciate. I più eclettici e aperti al cambiamento del gusto gli indiani, i cinesi e i brasiliani, ma anche un 70% di italiani potrebbe provare il cibo in pillole e il 44% dei nostri connazionali non si tirerebbe indietro nemmeno davanti a un insetto. A fronte di ciò, per tutti prevale comunque la paura sulla possibile manipolazione del cibo (il 60%) e il timore per un pianeta sempre meno controllabile o sull’orlo del precipizio ambientale (53%). Il 43% indica invece come la sua paura più grande sia un cibo troppo costoso.

«Vi è una consapevolezza trasversale del fatto che il rapporto con il cibo cambierà e una disponibilità  e apertura anche a provare ciò che non appartiene alla propria tradizione alimentare – afferma il presidente di Coop Italia Marco Pedroni – nonché una forte tendenza verso il cibo per la salute, per il vivere bene. È un campo di lavoro che ci deve vedere impegnati verso un cibo più salutistico mantenendo però le caratteristiche di gusto, di tradizione, di convivialità. Certo sono forti le paure per la scarsità, le possibili manipolazioni, ma anche per una minore democraticità, che significa contraffazioni, truffe alimentari. La domanda che ci poniamo è se vogliamo un cibo buono, sicuro e accessibile per tutti o se si sceglie di segmentare tra chi ha accesso a questo tipo di cibo e chi invece è destinato a uno più standardizzato e globalizzato.

Ma dalla domanda che abbiamo posto su come si immaginano i consumatori il luogo dove fare la spesa ricaviamo delle indicazioni precise. vVogliono avere  elementi per sapere di più su che cosa mangiano. E non si tratta di una generica rassicurazione, che le marche e le insegne perseguono, ma informazioni sui processi di coltivazione e allevamento, che cosa c’è dietro e dentro i prodotti. Il nostro Supermercato del futuro a Expo è un esempio in questa direzione».

 

Arriva Viviana l’uva italiana, un progetto di valorizzazione che fa cultura di prodotto

È finanziato dall’Unione Europea e promosso da Italia Ortofrutta – Unione Nazionale il progetto di valorizzazione dell’uva da tavola ‘Viviana, l’uva italiana’, presentato a Fruit Innovation, in corso di svolgimento a Fieramilano Rho.

Sono 12 le Organizzazioni di Produttori (OP) che hanno deciso di aderire al progetto, pronte a riconoscersi e farsi conoscere dal mercato tramite un marchio comune, tutte provenienti da territori (Puglia, Sicilia e Basilicata) vocati alla coltivazione di questo prodotto. Le Op aderenti sono. A. Bio.Med, Agricola Hortoitalia, Agritalia, Apoc Salerno, Assofruit Italia, Eredi Pietro Di Donna, Frutta più, Pugliaviva, Ecofarm, Consorzio fonteverde, Opi Sicula, Tarulli.

Insieme hanno fatto una scelta precisa di valorizzazione del settore, che cerca di opporsi con una strategia di inclusività alla forte crisi che da qualche anno lo attraversa. I consumi infatti sono calati senza sosta: solo nel 2010 le famiglie italiane acquistavano annualmente 8.254.164 tonnellate di ortofrutta l’anno, scese a 8.187.742 nel 2011, a 8.023.756 nel 2012 per arrivare alle 7.843.229 tonnellate del 2013 (fonte Ismea). Riassumendo, nell’arco di 13 anni (dal 2000 al 2013) il consumo medio di ortofrutta è calato di 138 chili a famiglia, e gli acquisti sono passati da 461 chili a 323 chili.

«Attraverso un marchio unico in grado di comunicare al consumatore informazioni utili ad accrescere il valore dell’uva da tavola – spiega Vincenzo Falconi, direttore di Italia Ortofrutta – i produttori che hanno deciso di partecipare al progetto ‘Viviana’ immettono sul mercato uva di prima scelta, superando così la criticità legata alla frammentazione dell’offerta. Questo è il modo migliore per uscire dalla crisi che ha colpito tutti: produttori, consumatori e grande distribuzione».

Il marchio Viviana riunisce quindi alcune delle migliori organizzazioni italiane di produttori per sviluppare nuove relazioni con la Gdo in un’ottica di partnership. Le OP coinvolte infatti sono in grado di fornire un approvvigionamento costante sia dal punto di vista temporale che di qualità, valori che certamente possono contribuire alla fidelizzazione del cliente. Ed è proprio questo uno dei punti di forza di ‘Viviana’: portare nei supermercati un prodotto 100% made in Italy e mettere a sistema una serie di plus che le organizzazioni dei produttori coinvolte potevano già vantare, ma che vedranno potenziate grazie al marchio Viviana.

Grazie alle forze in campo – 351 produttori, per 4.656 ettari e 120 mila tonnellate di uva prodotta – il progetto Viviana mette a disposizione della Gdo le principali varietà di uve da tavola italiane con e senza semi per un periodo che va da luglio a dicembre, tutte da filiera controllata e tracciabile.

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