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Microsoft punta sugli store e apre un flagship a New York e un temporary a Milano

Sarà aperto fino al 24 dicembre il primo negozio Microsoft d’Italia, “Casa Microsoft”, inaugurato a Milano il 19 ottobre in corso Vercelli, zona di shopping.
Niente vendita, si tratta di uno showroom su due piani, una vetrina per i prodotti del colosso di Redmond, che spaziano dai pc (i laptop e tablet Microsoft Surface ma anche dei partner come Hp, DeNovo, Acer) agli smartphone Nokia Lumia (per ora “sotto vetro” gli ultimi arrivati, 950 e 950XL, in vendita dal 27 novembre, con i quali Microsoft spera di risollevare le sorti di Nokia grazie al sistema operativo Windows 10 Mobile, puntando al segmento business grazie alla possibilità di utilizzarli come pc se collegato a uno schermo), alla Xbox alla domotica. C’è anche un’area per i corsi, gratuiti,
«L’interesse è tanto, la gente vede il marchio ed entra, vuole provare i prodotti che vengono mostrati, poi magari si aspetterebbe di poterli giù acquistare – dice Daniele, responsabile dello store – Vengono a vedere i Pc ma sono anche molto interessati agli smartphone».
Pareti bianche e linee pulite, dispositivi a disposizione lungo le pareti e personale accogliente al primo terra, mentre al secondo, allestito con divani di design firmati Edra, c’è l’angolo dedicato alla Xbox, altri Pc, uno schermo che mostra le potenzialità della domotica e la sala per i corsi.

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A New York il flagship punta sui nuovi prodotti e sulla community

Foto: Microsoft.
Foto: Microsoft.
Foto: Microsoft.
Foto: Microsoft.

Cinque piani, 22mila mq, prodotti e servizi presenti nei 110 pdv Microsoft in USA e Canada ma anche “nuove esperienze interattive”: questo promette il flagship Microsoft aperto pochi giorni fa a New York nel cuore di Manhattan, tra la Fifth Ave. e la 53rd St. Anche se ci sono molti produttori di pc partner, il focus è sui nuovi prodotti Microsfot come i Surface e i Lumia.
Non manca, come è uso ultimamente negli States, un richiamo (non solo formale dati gli investimenti in donazioni a musei ad associazioni cittadine) alla “local community” (vd anche Nike a Brooklyn). «Il nostro negozio in Fifth Avenue è qui per mostrare il meglio di Microsoft alla comunità locale – ha detto David Porter, vicepresidente Worldwide Retail and Online Stores di Microsoft -. Vogliamo costruire una relazione con i nostri clienti , ognuno di loro, e siamo felici di iniziare oggi a farlo anche qui».
Grande focus sul servizio infatti, con 160 addetti che parlano 19 lingue addetti solo al flagship.
Non ci sono casse a vista e le transazioni avvengono tramite POS mobili. Le affinità, nel layout e nell’organizzazione degli spazi, con gli Apple store sono parecchie, ma del resto i punti vendita della casa di Cupertino sono ormai lo standard di riferimento per l’elettronica (e non solo).

La folla si accalca all'apertura del nuovo Microsoft Flagship Store in Fifth Ave. lo scorso 26 ottobre. (Foto Stuart Ramson/Invision for Microsoft/AP Images)
La folla si accalca all’apertura del nuovo Microsoft Flagship Store in Fifth Ave. lo scorso 26 ottobre. (Foto Stuart Ramson/Invision for Microsoft/AP Images)

La facciata, di vetro, mette in mostra l’interno che è così organizzato:

  • Come risolvere un problema. Al centro dello store c’è l’Answer Desk dove andare per ottenere risposte a problemi tecnici e riparazioni di apparecchi ovunque siano stati acquistati. Consulenza gratuita sull’ottimizzazione di Windows 10, diagnostica, supporto sul software, rimozione virus e malware, ecc.
  • Corsi per tutti. Il Community Theater è la più grande sala per eventi e corsi con 60 posti Disponibile anche per eventi di associazioni locali.
  • Schermo schermo delle mie brame… Schermi ad alta definizione e digital signage sono ovunque nel Flagship Store e mostrano video, immagini ed informazioni. Uno schermo alto due piani si trova alle spalle dell’Answer Desk e i clienti possono giocare alla Xbox circondati da un audio multidirezionale . Nel Community Theater c’è un grande schermo al plasma touch-screen con Windows da usare durante i corsi.
  • Parte della comunità Il Culture Wall è il muro/schermo rivolto alla strada e vuole dimostrare la volontà di entrare a far parte della comunità locale, che ha già ricevuto 3 milioni di dollari di donazioni a varie associazioni. L’idea è mostrare immagini artistiche e non commerciali che si accordino con la facciata del palazzo e richiamino la storia e l’allure del posto, da sempre una delle aree di shopping più chic della Grande Mela.

Perché Mariano’s può insegnare molto al retail alimentare italiano

«Shop well. Eat well. Live well» è lo slogan di Mariano’s Fresh Market, insegna del gruppo Roundy’s Supermarkets che, con i suoi 4 miliardi di fatturato, si colloca al 37esimo posto tra le catene di grocery store americane.

Ne scrive Daniele Tirelli sull’ultimo numero di inStore, tracciando la storia professionale del Ceo Robert “Bob” Mariano, ma soprattutto cogliendo le carateristiche di innovazione che ne fanno una insegna a mezzo tra Safeway e Whole Foods. Secondo Tirelli, che ha visitato lo store di Bucktown, uno dei 32 attivi nell’area di Chicago, sono diversi gli aspetti che fanno di Mariano’s una insegna interessante per i etailer italiani: un ambiente commerciale di vicinato, l’enfasi sulla frechezza, la profondità di assortimento in ogni categoria, e il suo saper essere il risultato di un’audace fuzione tra supermarket e ristorante.

Per Tirelli, la tumultuosa avanzata dei grocerant (v. articolo) è uno degli aspetti che più sfuggono ai retailer nostrani e “il caso di Mriano’s costituisce un riferimento obbligato per il retail Italiano che appare, al momento, ancora titubante nell’intraprendere la strada della specializzazione alimentare e della ibridazione con business collaterali”.

Leggi l’articolo completo

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La tecnologia RFID utile per prevenire gli ammanchi nel pdv (Infografica)

Prevenire, gestire e monitorare ciò che avviene nel punto vendita, con particolare riferimento agli ammanchi provocati sia da esterni sia da dipendenti: la visibilità dell’inventario abilitata dalla tecnologia RFID (Radio-Frequency IDentification) secondo un’indagine di Tyco Retail Solutions aiuta secondo molti retailer a comprendere e prevenire le cause degli ammanchi, grazie all’inventory visibility che è l’elemento chiave nel fornire i dati in tempo reale. La tecnologia RFID garantisce una visibilità degli articoli in tutte le aree fondamentali del punto vendita, fornendo ai retailer importanti informazioni che possono essere azionate per migliorare le operazioni in-store, il merchandising e prendere decisioni più ponderate in materia di loss prevention.

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La Nuova imprenditoria chiude il ciclo di incontri Plef a Expo il 21 ottobre

Si conclude il 21 ottobre alle 10,30 il percorso di 12 eventi organizzato in Cascina Triulza, padiglione della società civile di Expo, da PLEF. Il tema sarà la Nuova Imprenditoria, per dimostrare che il cambiamento verso una società sostenibile, rispettosa dei vincoli ambientali, sociali ed economici, è possibile. Una scelta non casuale, che corrisponde alla volontà di sottolineare che la costruzione del valore, in qualsiasi società, arriva dall’impresa, e preoccuparsi di come nascono le nuove imprese è garanzia che queste abbiano interiorizzato i principi di sostenibilità.
La giornata sarà introdotta da Alessandro Curti, imprenditore socio PLEF e sponsor del progetto EXPO “Il Senso Ritrovato”. Promotore di progetti di eco-innovazione e di un coinvolgimento partecipativo dei collaboratori e del territorio in cui opera, Curti rappresenta la dichiarazione che fare impresa responsabile e innovativa è un indicatore di successo nel tempo e nello spazio.
Curti SpA si propone anche come incubatore e acceleratore per nuove imprese: per questo motivo la sua esperienza ben si collega con un altro protagonista della giornata, la rete internazionale di The Hub, realtà nata in Inghilterra ma sviluppatasi in tutto il mondo. In Italia si è diffusa da Milano in altre sette città, fra cui Firenze, rappresentata in Cascina dal responsabile Riccardo Luciani che ci racconterà la ricchezza di contenuti dei giovani protagonisti attivi nel co-working di Firenze Rifredi, dove le imprese nascono e si fortificano, dall’idea al progetto fino alla costituzione societaria.
Lo scenario istituzionale di riferimento per le start up, tecnologicamente e creativamente intese, verrà illustrato da Paolo Carnazza del Ministero dello Sviluppo Economico che dalla ricostruzione del decreto Monti, del Ministro Passera, descriverà i cambiamenti in Italia, le risposte fornite dal mercato e le correzioni resesi necessarie nella normativa, e le prospettive attuali, come ad esempio il Fondo di Venture Capital per le PMI innovative e start up con alto potenziale di crescita appena approvato dal CdA di Invitalia, in conformità al decreto del gennaio 2015 del MISE.
Su questo scenario si misureranno poi le testimonianze di realtà invitate, la cooperativa Artis attiva nell’edilizia, l’UISP nello sport, l’associazione ForestIERI del tortonese nell’agricoltura, ma anche l’incubatore Salesiani 2.0 di Faenza, The Natural Step sul tema della Benefit Corporation e il Comune di Milano con la direzione attività produttive, ricerca e università con i risultati milanesi di nuova imprenditoria “IN” (innovazione-inclusione) e di future facilitazioni col crowdfunding civico.
Il dibattito coinvolgerà startupper, studenti e insegnanti interessati a capire l’opportunità dell’alternanza scuola/lavoro e tanti giovani a cui PLEF propone di formarsi, sempre e comunque in primo luogo, come imprenditori di se stessi, consapevoli e responsabili a garanzia della costruzione di un valore durevole.

Le prime mele Melinda conservate nella montagna sugli scaffali a gennaio: unico il progetto delle celle ipogee

Utilizzano meno acqua ed energia, diminuiscono la CO2 immessa nell’atmosfera, non impattano sul paesaggio e preservano meglio la catena del freddo (carico e scarico avvengono in ambiente refrigerato), aumentando la shelf-life del prodotto fino al 50%: per questo i magazzini ipogei (ovvero scavati nella roccia, utilizzando in una miniera di Dolomia preesistente) creati da Melinda in Val di Non, che sono ora caricati della nuova raccolta di mele, sembrano essere la soluzione ideale per la frigo-conservazione in condizioni di atmosfera controllata.
Utilizzare celle sotterranee per la conservazione degli alimenti non è una novità, in Norvegia da anni ad esempio sono adibite alla conservazione del pesce a basse temperature. Per la prima volta al mondo (e per ora unica) però sono stati utilizzate per conservare della frutta, a temperature più alte.
«La roccia è un isolante termico, quindi non è più necessario usare idrocarburi e il risparmio energetico arriva al 53%. L’enorme massa termica della roccia rende possibile l’accumulo energetico – ha spiegato alla presentazione del progetto Maurizio Fauri, Professore presso il Dipartimento di Ingegneria Civile Ambientale e Meccanica dell’Università degli Studi di Trento –; le celle necessitano di un terzo dei gruppi frigoriferi e sono più sicure perché non soggette ai black-out, che può capitare quando ci si affida a fonti rinnovabili: il freddo infatti si conserva per due settimane anche senza refrigerazione. Si può anche utilizzare l’energia elettrica solo nelle fasce che hanno un costo inferiore».

Oggi 10mila tonnellate, domani..
La prima fase dei lavori ha creato 12 celle uguali tra loro, in grado di contenere 900 tonnellate di prodotto, circa 5 milioni di mele. ovvero 10mila tonnellate, “un investimento da 8,8 milioni di euro, ma il progetti prevede successivi ampliamenti” ha detto Michele Odorizzi, Presidente Consorzio Melinda.

Lo scaricamento e il caricamento delle mele avviene in ambiente refrigerato all'interno della ex-miniera, ottimizzando la catena del freddo.
Lo scaricamento e il caricamento delle mele avviene in ambiente refrigerato, ottimizzando la catena del freddo.

La forza del progetto è la sostenibilità sia economica sia ambientale. «Il consumatore oggi ci richiede non solo qualità e genuinità, ma garanzie di orientamento dell’azienda in senso della sostenibilità. Le prime mele conservate nelle celle ipogee arriveranno a gennaio nei supermercati. È stato uno investimento enorme per le 4000 famiglie socie del consorzio, che quest’anno hanno prodotto un raccolto record di 420mila tonnellate di mele, per l’80% vendute sul mercato italiano. Da qui il claim rivolto al consumatore: “La natura protegge i nostri frutti e noi proteggiamo lei”» ha spiegato Andrea Fedrizzi, responsabile comunicazione Consorzio Melinda.
Siamo ora al primo vero raccolto (c’è stato un primo test l’anno scorso) che utilizza i magazzini ipogei ricavati dai vuoti di cava della ex miniera di Rio Maggiore a Predaia (TN), un’area di 80 ettari di roccia Dolomia, a 575 metri sopra il livello del mare, a 900 metri dall’ingresso della miniera e 275 metri sotto le radici degli alberi dei meli coltivati sui terreni in superficie.

Innovazione premiata
Melinda ha già ricevuto due premi per il suo progetto innovativo e sostenibile: il Good Energy Award di Bernoni Grand Thornton nell’ambito del 15° Italian Energy Summit, evento di riferimento per il mercato italiano dell’energia e il Sodalitas Social Award, che viene assegnato alle iniziative più efficaci nel generare una crescita sostenibile.

Il Consorzio Melinda cui aderiscono 16 cooperative di oltre 4.000 famiglie di frutticoltori che coltivano circa 6.500 ettari di meleti nella Val di Non e Val di Sole, in Trentino copre più del 50% delle mele Golden acquistate in Italia e il 20% della produzione media annua di mele con circa 420.000 tonnellate. In aumento anche la percentuale di produzione destinata al mercato estero, dal 12% del 2011 al 25% medio degli ultimi tre anni in oltre 48 Paesi.
Coltiva le varietà Golden Delicious (70% della produzione totale), Red Delicious (10%), Renetta Canada (9%), – le uniche in Italia a Denominazione di Origine Protetta – Gala (5%), Fuji (6%) ed Evelina. Completano la produzione 3.000 tonnellate/anno circa di mele ottenute dall’applicazione del disciplinare di produzione biologica.

Guerra dei prezzi Uk: niente più voucher, Tesco applica il Miglior prezzo automatico alla cassa

Niente più voucher che si perdono o si dimenticano a casa, o magari si lasciano scadere: nella sua politica di prezzi sempre più aggressiva (che l’anno scorso è risultata nel dimezzamento dei ricavi per l’insegna britannica) Tesco applica un nuovo programma di comparazione prezzi che promette: “non pagherai mai di più per i tuoi prodotti di marca” e che presenta due novità.

Non solo si applica solo ai prodotti di marca (il programma precedente includeva la private label), ma il miglior prezzo garantito è applicato direttamente alla cassa, scontando il prodotto acquistato nel caso sia in vendita a un prezzo più basso in una delle catene concorrenti “storiche”: Sainsbury’s, Morrisons e Asda. Niente più voucher dunque ma un accredito automatico e in tempo reale, che tiene conto anche delle promozioni della concorrenza: secondo alcuni analisti britannici riportati dal Guardian, questo programma potrebbe segnare una svolta nel mondo delle promozioni della Gdo britannica.

Il nuovo schema, che si chiama Brand Guarantee, si applica su spese di oltre dieci articoli diversi tra cui almeno uno, ovviamente, deve essere di marca. È valido anche online e nei supermercati più grandi mentre esclude i punti vendita di prossimità. L’insegna spera di risparmiare sul fronte della carta dei voucher stampata in negozio e di dare una percezione al cliente di valore istantaneo e di comodità (non richiede alcun tipo di intervento da parte sua). Per contro, resta il dubbio che questa “guerra dei prezzi” tra le insegne tradizionali sempre più aggressiva sia la politica giusta per contrastare l’avanzata inesorabile dei discount tedeschi, Lidl e Aldi, che a fronte di un’offerta limitata sono comunque percepiti come più convenienti rispetto ai “Big Four”.

 

Censis: i Millenials, giovani che non ti aspetti

Com’è nella sua lunga tradizione di osservatore della società italiana, il Censis nella ricerca «Vita da Millennials: web, new media, startup e molto altro. Nuovi soggetti della ripresa italiana alla prova» realizzata per il Padiglione Italia di Expo 2015 offre una lettura dei giovani assai diversa da quella stereotipata della rappresentazione mediatica che va per la maggiore. I giovani, dice il Censis non nono quelli pigri e apatici così spesso rappresentati. Viceversa sono vitali, pieni di energia, con tanta voglia di fare. Una generazione che a Expo ha partecipato attivamente. Ma siamo distanti dalla “meglio gioventù” degli anni Sessanta e Settanta, perché è forte il senso dell’io, della soggettività nei Millenials, quanto forte era il senso della collettività nei Baby boomers.

Voglia di impresa

Il Censis traccia un profilo dei Millennials contraddistinto da una grande voglia di imprenditorialità. Quasi 32.000 nuove imprese nate nel secondo trimestre del 2015 fanno capo a un under 35, cioè sono nate più di 300 imprese al giorno guidate da giovani, con una crescita del 3,6% rispetto al trimestre prec: edente a fronte del +0,6% riferito al sistema d’impresa complessivo. Un terzo delle imprese avviate nel trimestre è stato fondato da un giovane. Alle barriere di accesso al mercato del lavoro e ai rischi di incaglio nella precarietà, i Millennials italiani hanno opposto una forza vitale partendo da una potenza italiana consolidata: l’imprenditorialità.

Contemporaneamente, sempre riferendosi al rapporto con il lavoro, per il Censis sono 2,3 milioni i Millennials (i giovani di 18-34 anni) che svolgono un lavoro di livello più basso rispetto alla propria qualifica (sono il 46,7% di quelli che lavorano, rispetto al 21,3% dei Baby Boomers di 35-64 anni),

“Pur di entrare nel mondo del lavoro, pur di «stare in partita», tanti Millennials si accontentano di impieghi lontani dal loro percorso di formazione, anche in nero”. E una volta chlavorano, non si tirano indietro: lavorano oltre l’orario (3,8 milioni), spesso senza compenso per gli straordinari (1,1 milioni), spesso anche di notte (1,1 milioni) o in remoto (11,8 milioni).

La frontiera dell’innovazione

Ovviamente riguardo alla tecnologia, i Millennials sono per il 94% utenti di internet, per l’87% attivi sui social network e sono loro ad aver fatto decollare l’e-commerce: il 64% nell’ultimo anno ha acquistato almeno un prodotto o un servizio in rete nell’ultimo anno. Sobrietà e sharing economy vanno a braccetto nella loro quotidianità. Il 31,7% acquista prodotti usati (contro il 14,7% dei Baby Boomers), il 21,9% si sposta regolarmente in bicicletta (fa altrettanto solo il 10,3% dei 35-64enni) e l’8,4% (il 4,1% dei 35-64enni) utilizza il car sharing e il bike sharing.

Sul fronte dei valori espressi e condivisi, sono allo stesso tempo individualisti, solidali e global e sono decisamente proiettati verso il futuro. Il 42,1% di loro contro un dato medio del 20,9% pensa che i gironi moigliori per l’Italia devono ancora arrivare e che il futuro vada costruito con una spinta al cambiamento nel quotidiano.

Cambiare passo per crescere

Qualche perplessità l’analisi del Censis l’ha sollevata, non per la impeccabilità dei numeri, ma per la loro lettura. La voglia di far impresa dei Millenials non è forse frutto proprio di una prospettiva di precarietà tipico di questa generazione alla quale vengono offerti solo lavori camuffati da stage sottopagati, a meno che non si trasformino in micro impresa o lavoratori autonomi? Certo, vivendo in una società più aperta, viaggiano di più, hanno un sistema di valori contraddistinto da un soggettivismo etico, consumano con maggiore sobrietà (ma lo stanno facendo anche milioni di famiglie). Ma riguardo al quadro celebrativo della flessibilità sul lavoro, dello stacanovismo come lo definisce il Censis e dell’imprenditorialità giovanile, come replica naturale del capitalismo molecolare che distingue l’economia italaiana, qualche perplessità resta.

«I dati del Censis sono importanti – afferma una Millennial impegnata in una startup, Barbara Labate, amministratore delegato di Risparmiosuper – perché dà il quadro di un forte ecosistema che sta crescendo in Italia, ma non basta. Stiamo cercando di copiare il modello americano, ma siamo distanti, perché pochi fondi investono nelle startup. Per gran parte di queste nuove aziende un finanziamento di 50 mila euro significa vivere sei mesi, con il risultato che si trasforma in un lavoro a tempo determinato per chi vi è impegnato. Se non si cambia passo, creiamo solo delle nanoaziende che non riescono ad avere una prospettiva di sviluppo internazionale».

L’irresistibile avanzata dei locker: 420 InPost entro fine anno, Gdo partner per le location

Un po’ in ritardo rispetto a molti Paesi Europei, ma sembra che finalmente la rivoluzione locker arriverà anche in Italia. Dopo Dhl entrato un po’ in sordina a Milano e Roma, promette di investire su una rete capillare sul territorio italiano InPost, società di Integer Group, azienda polacca con capitali di private equity americani.

inpost_italia«Sono già 320 le macchine installate, e diventeranno 420 entro fine anno – spiega Stefano Moni, Ad InPost -. La creazione della rete prevede in una prima fase l’installazione di 1000 locker che diventeranno 2500 nei prossimi tre anni. Già oggi 20 milioni di italiani hanno un nostro locker nel raggio di 5 Km. Siamo presenti in 820 città nel mondo con 8000 macchine e non siamo un corriere: lavoriamo solo con i locker. Questo non è un test, ma una soluzione reale e immediata che consente tempi di consegna rapidi, definiti e garantiti. I nostri piani sono solo parzialmente legati alle vendite quando entriamo in un Paese installiamo le macchine secondo un piano di copertura del territorio».

Gdo e locker: un’operazione win-win?

Tra le location scelte, in primo piano dopo le stazioni di servizio Erg, partner principale in questa prima fase con 200 location, figurano i parcheggi della Gdo. «Abbiamo installato già macchine presso Coop, Auchan, Lidl, Carrefour, Md Ld. Il rocker non fa concorrenza al punto vendita fisico, anzi è un’opportunità per riportare il cliente che comunque acquista online presso il negozio, dove spesso effettua altri acquisti, nel 27% dei casi. Tra i vantaggi per il retailer che mette a disposizione uno spazio c’è lo sfruttamento di un’area esterna altrimenti inutilizzata, un traffico extra di persone, un’immagine moderna e volta all’innovazione che si riflette sull’insegna ospitante, che tra l’altro usufruisce della pubblicità nel sito dell’e-shop».

Poste Italiane scende in campo nel 2016 con test a Torino e Bologna

Un altro player importante che è Poste Italiane, che sull’e-commerce sta investendo parecchie risorse. «È un percorso centrale nel nostro piano strategico anche in vista della quotazione in Borsa” ha detto Massimo Curcio, direttore Marketing e logistica all’incontro “La nuova logistica per l’e-commerce. Modelli di delivery e tendenze a confronto” organizzato da Netcomm. Forte di una rete di 13.000 uffici postali (“3000 dei quali hanno una corsia taglia-coda per l’e-commerce” ), 26.000 mobile POS per i pagamenti in contrassegno, e il 25% delle transazioni e-commerce che avviene tramite carta Poste Pay. «Stiamo pensando a una serie di servizi per migliorare la shopping experience. Stiamo lavorando per ridurre i costi di spedizione fissi con un nuovo sistema, Crono. Stiamo pensando ad installare dei locker in posti integrativi rispetto alla rete degli uffici postali. È uno die tanti progetti che partiranno a brevissimo, già dl primo quadrimestre del 2016, con alcuni test a Bologna e Torino, per capire quanto l’esigenza dei locker sia sentita da una platea estesa».

La digital disruption migliora i risultati delle imprese. Ma quelle italiane sono indietro

La strada verso la digital disruption è lunga e in salita per le imprese italiane. Secondo l’Indice di efficienza digitale messo a punto da Ca Technologies in collaborazione di Freeform Dynamics sulla base di una ricerca globale presso 1500 imprese (di cui 85 tricolori) con fatturati superiori ai 500 milioni di euro (realizzata da Freeform Dynamics) , quelle italiane risultano all’ultimo posto.

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La ricerca suddivide nel complesso le aziende intervistate in tre gruppi: i digital disrupter, che stanno conseguendo importanti risultati (14%), le achiever, imprese che hano già attivato iniziative di trasformazione digitale (il32%) e le mainstream, che non stanno investendo in questa direzione (il 50%). Ebbene le percentuali in Italia passano rispettivamente a un modesto 4%, al 39% e al 58%. Anche il confronto con l’Europa è impietoso, dove il 12% sono imprese disrupter, il 33%  achiever e il 55% mainstream. Quanto ai settori,  banking e retail sono ai primi posti, mentre la PA è indietro.

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Da un punto di vista metodologico, l’indice è la sommatoria del contributo del processo di trasformazione digitale al miglioramento della competitività e del suo impatto sugli indicatori di performance.

Così, sebbene, il 58% delle imprese italiane dichiari di avere attivato un processo di trasformazione digitale che ha assunto la forma di programma strategico coordinato, in realtà solo il 15% – la percentuale più bassa di tutta Europa – ritiene che le applicazioni e i servizi web-based siano cruciali per rafforzare il legame con i clienti e sviluppare il mercato. E soltanto il 20% considera la tecnologia mobile essenziale per creare “engagement” dei clienti e incrementare il business — distinguendosi anche in questo caso come percentuale più bassa di tutta Europa.

Lo studio evidenzia inoltre il legame tra attività digitali e risultati economici e che, fra le fila dei digital disrupter, la crescita del fatturato è il doppio di quella registrata fra le organizzazioni tradizionali, mentre la crescita dei profitti è superiore di ben due volte e mezzo.

«La trasformazione digitale è oggi indispensabile per guadagnare un vantaggio competitivo nella cosiddetta Application Economy», ha dichiarato Vittorio Carosone, Sales & Partner Director, CA Technologies (nella foto). «Questo studio ha evidenziato disparità significative nei livelli di maturità complessiva delle iniziative digitali messe in atto dalle aziende italiane – riscontrando tra le più innovative una crescita consistente del fatturato e della fidelizzazione dei clienti, nonché  un positivo impatto sugli utili e sul bilancio aziendale. Intimamente legato al concetto di trasformazione digitale è un impiego efficace del software che diviene in tal modo fattore di efficienza, competitività e successo»

Un ruolo chiave nel processo di trasformazione digitale riguarda l’organizzazione aziendale, vale a dire la crossfunzioalità, come ha testimoniato Alberto Maldino, Group Digital & Business Technology Italia di Barilla: «Oggi l’azienda opera su cinque linee di sviluppo e tutte, tranne una dedicata all’IT coinvolgono tutte le funzioni, tanto che la crossfunzionalità in azienda è ormai strutturale. Abbiamo lanciato Business Academy, nella quale sono coinvolte tutte le aree di business e tutti i livelli aziendali con l’obiettivo di affrontare e risolvere un problema in tre mesi. Con risultati immediati».

Più complessa, secondo Gabriele Tubertini, Cio di Coop Italia, è la trasformazione digitale nel retail («ma il retail alimentare è diverso da altri») perché oltre alla crossfunzionalità bisogna considerare anche una crossterritorialità. «Nel nostro caso – afferma Tudertini – le 150 cooperative che fanno riferimentoo a Coop hanno diverse esigenze in funzione della maturità digitale delle organizzazioni e dei clienti. La lezione che ci ha trasferito il Supermercato del futuro in Expo riguarda l’utilizzo della digital transformation per migliorare l’efficienza di processo: nel retail alimentare è questa la sfida più importante».

Sound Branding identità di marca e shopping experience nell’era della multicanalità

Si parla tanto di shopping experience e marketing emozionale, di come il punto vendita fisico per continuare ad avere successo debba imparare a coinvolgere e attirare il cliente invogliandolo a recarvisi fisicamente invece di acquistare da uno smartphone, nei ritagli di tempo ovunque egli o ella sia. Dunque il layout di un negozio, la scelta dei materiali e dei colori, il servizio, le tecnologie giocano un ruolo. Ma il suono? È uno degli elementi più potenti che influenzano la permanenza in un luogo (“si può decidere di non guardare, ma non di non ascoltare” dice Michele Arnese) ma è spesso trascurato e dato per scontato, come fosse un inevitabile rumore di sottofondo. Eppure influenza la shopping experience, la fruizione dei contenuti e delle aree del negozio ma anche dei prodotti esposti, in modo subliminale spesso ma proprio per questo che difficilmente può essere ignorato.
Anzi il suono (brani musicali noti ma anche pensati ad hoc, e perfino suoni presi dalla quotidianità come la strada o la spiaggia) può essere utilizzato per creare “aree sonore” rivolte a target diversi (divisi per età ad esempio) ma anche prodotti diversi (come può l’enoteca avere la stessa identità sonora della parafarmacia?).

Non solo: in tempi di multicanalità è essenziale che l’identità sonora sia frutto di una strategia complessiva che unifichi in qualche modo tutti i punti di contatto attraverso i quali il consumatore raggiunge il marchio o il retailer: fisico, mobile, pubblicità e social.
Ne abbiamo parlato con Michele Arnese di amp, compagnia basata a Monaco di Baviera che si occupa di Sound Branding, ovvero di identificare per ogni marca o situazione l’identità sonora più incisiva e adatta, e che hatra i suoi clienti Porsche, Triumph, Unicredit ed Erste Bank.
“Il Sound Branding fa parte dell’identità di una marca – spiega Arnese -; ogni marca ha un suono che deriva dalla comunicazione effettuata su tutti i canali, digitali e reali, ma quasi mai è il frutto di una strategia unica e consapevole, quindi varia da canale a canale e non è in linea con quello che sono gli attributi di una marca e con quello che la marca vuole comunicare”.
Come si sceglie il suono di una marca? “Noi lavoriamo con lo stesso processo con cui si lavora per la parte visiva ad esempio per trovare un logo. Facciamo dei workshop con le persone che si occupano di branding e marketing aziendale e lavoriamo sulle caratteristiche della marca e sul suo posizionamento. Abbiamo una metodologia che si basa sugli archetipi umani, quindi cerchiamo di capire come deve parlare il brand dal punto di vista sonoro per raggiungere le persone che vuole raggiungere, dando alla comunicazione l’efficacia emozionale di cui ha bisogno”.

Ma non si tratta solo di questo. Il ritmo della musica ad esempio è bene che cambi a seconda del momento della giornata per seguire il ritmo circadiano degli individui.
“La sound identity è un concetto molto largo, compiliamo le playlist di musica da trasmettere nel comparto retail ma componiamo anche DNA sonori che vengono declinati nei diversi punti di contatto. Ad esempio si crea una melodia principale che diventa un ingrediente delle musiche che sono diverse a seconda del punto di contatto e del contesto”.

 

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