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La legge anti-spreco arriva alla Camera. Obiettivo: ridurre le eccedenze in tutta la filiera

Dopo la Francia, l’Italia. Anzi prima, secondo alcuni. La proposta di legge infatti che approda oggi alla Camera ha un obiettivo: ridurre gli sprechi nella produzione, trasformazione, distribuzione e somministrazione di prodotti alimentari o di altri prodotti, e in particolare favorire il recupero e la donazione delle eccedenze alimentari, in via prioritaria ai fini dell’utilizzo umano. Ma non è la prima che ha favorito il recupero perché in questo almeno una volta il Bel Paese è stato pionieristico:  è di 12 anni fa infatti la legge 155-2003 detta “del Buon Samaritano” che facilita la donazione rendendo i donatori responsabili solo nei confronti dello stato degli alimenti consegnati all’organizzazione non profit cui vengono donati gli alimenti, sollevandoli da ogni responsabilità legale rispetto a ciò che succede (trasporto, conservazione) dopo aver affidato l’alimento per il riutilizzo. Semplice, ma efficace. Un primo passo.

Ora si cerca di andare oltre. Lo scopo del nuovo progetto di legge è quello di incentivare il recupero di quei prodotti alimentari adatti al consumo ma invenduti o non idonei alla commercializzazione per vari motivi (dalla confezione danneggiata alle “imperfezioni estetiche” nel caso di frutta e verdura, alla vicinanza della data di scadenza) semplificando le procedure burocratiche e rendendo non solo più semplice, ma in qualche modo più conveniente donare piuttosto che gettare via.

Secondo Banco Alimentare, la principale organizzazione che in Italia si occupa di recuperare e destinare agli indigenti le eccedenze alimentari (dall’inizio de 2016 ne ha “salvate” oltre 16mila tonnellate), ogni anno finiscono nella spazzatura 5,1 milioni di tonnellate di cibo (per un valore di quasi 13 miliardi di euro), e più della metà (il 53%) è ancora adatto al consumo umano. Secondo uno studio del Politecnico di Milano, in Italia il 58,1% degli sprechi alimentari va imputato agli attori economici della filiera contro il 41,9% che è dovuto ai consumatori. Escluso il consumo domestico, la distribuzione è responsabile per il 22,3% dell’eccedenza contro il 66,5% della produzione, il 6% della ristorazione e il 5,2% della trasformazione.

Con la proposta di legge “Puntiamo a far crescere – ha commentato il ministro delle Politiche agricole alimentari e forestali Maurizio Martina – la consapevolezza nei consumatori rispetto alle abitudini alimentari, e a semplificare le donazioni per le aziende e per la prima volta anche per l’agricoltura si disegna un ruolo da protagonista, attraverso le donazioni dirette agli indigenti. Sotto questo versante l’Italia rappresenta già una buona pratica a livello internazionale: ogni anno recuperiamo 550mila tonnellate di eccedenza in tutta la filiera. Nel 2016 vogliamo arrivare a 1 milione”.

La proposta di legge prende in considerazione anche i prodotti farmaceutici ed altri articoli, proponendo meccanismi che ne favoriscano il recupero a fini di solidarietà sociale.

Scalpore aveva fatto l’anno scorso l’approvazione della legge anti-spreco francese, che obbliga i supermercati di oltre 400 metri quadrati a recuperare le eccedenze attraverso donazioni, destinando l’invenduto all’alimentazione animale o ad usi agricoli come compost o per il recupero di energia.

Secondo Una buona Occasione le cause principali dello spreco nella Gdo sono le imperfezioni estetiche dei prodotti agroalimentari, gli accordi di ritiro presi dall’industria alimentare dei prodotti rimasti invenduti nei supermercati, la pratica di mantenere scaffali traboccanti di merci fino a fine giornata, i packaging “scaduti” (perché riportano concorsi o promozioni terminate), e il ritiro dagli scaffali della merce in anticipo rispetto alla scadenza (i consumatori tendono ad evitarne l’acquisto).

Per quanto riguarda le iniziative “spontanee” delle catene della Gdo invece leggi Lotta allo spreco e Gdo: cosa stanno facendo le insegne in Europa.

Fairtrade: superati i 100 milioni di euro di premi per i produttori

Per la prima volta è stata superata la “soglia psicologica” (ma in realtà molto concreta e reale) dei 100 milioni di euro di premio aggiuntivo per i produttori agricoli
Fairtrade. Lo rivela la settima edizione del report annuale “Monitoring the scope and the benefits of Fairtrade”, la fotografia più ampia e dettagliata a disposizione sull’impatto per i produttori agricoli del circuito del commercio equo certificato, relativa all’anno 2014, frutto dell’attività di monitoraggio e valutazione interna a Fairtrade International.

Sono 1,65 milioni gli agricoltori, lavoratori e produttori parte del sistema Fairtrade (+9% di nuovi produttori rispetto all’anno precedente, in prevalenza in Africa e Medio Oriente) che insieme generano un fatturato annuale di oltre 900 milioni di euro (+1%). Il Fairtrade Premium, che è il margine di guadagno aggiuntivo da investire in progetti di sviluppo sociale ed economico, ha superato per la prima volta i 100 milioni di euro, che sono stati impiegati dagli stessi produttori in programmi di educazione, assistenza sanitaria e miglioramenti tecnici e infrastrutturali. A dimostrazione che non solo crescono i “numeri” del commercio equo e solidale (nel 2014 sono stati spesi in prodotti certificati 5,9 miliardi di euro nel mondo con un incremento del 10% sull’anno precedente), ma anche l’impatto sulle comunità locali.

“Il report fornisce un quadro globale dettagliato di cosa è oggi Fairtrade e dimostra chiaramente come il nostro lavoro – e quello di molti altri operatori del commercio equo – debba crescere ulteriormente e intensificarsi, al fine di generare un impatto sempre maggiore in futuro” dice Marike de Peña, presidente di Fairtrade International.

A livello mondiale il fatturato 2014 dei prodotti del commercio equo si è chiuso con un + 1% rispetto al 2013 – con il comparto delle banane che ha ottenuto risultati migliori – registrando una crescita dei ricavi pari al 18%. L’80 per cento degli agricoltori Fairtrade lavora su terreni agricoli grandi 1,4 ettari.

“Il merito di questo report è quello di mostrarci dove stiamo ottenendo buoni risultati e quali sono le sfide da individuare e superare” spiega Arisbe Mendoza, Monitoring Evaluation and Learning manager di Fairtrade.

 

Cibo, alimentazione e benessere sociale: i giapponesi se la passano meglio

Cibo, alimentazione e sostenibilità ambientale. C’è un fil rouge che sottende questi tre ambiti: purtroppo, infatti, i consumi e le abitudini alimentari sempre più diffusi stanno erodendo le risorse naturali. E neanche la dieta mediterranea sembra poter arginare questo scempio. Anche perché gli italiani più giovani sembrano non la tengano più in debito conto. Il 18,3% dei nostri connazionali tra gli 11 e i 15 anni – quasi 2 su 10 – è in sovrappeso contro l’8,7% dei Giapponesi. Inoltre mentre il 72% della popolazione svedese svolge regolare attività fisica, in Italia si verifica solo per il 29% della popolazione, con un effetto di incidenza sullo sviluppo di patologie che ha ripercussioni sull’aspettativa di vita e sul costo della società per fronteggiarle.

Schermata 2016-02-19 a 14.42.48Se uniamo questi due elementi (vita sedentaria e abitudini alimentari mutate, con una predilezione per un regime dietetico ricco di proteine animali e grassi) e li proiettiamo in un quadro futuro, appaiono inevitabili possibili ricadute anche sul tasso di incidenza di malattie con conseguenze come diabete (con un nuovo caso ogni 5 secondi), patologie cardiache (che rimangono la prima causa di morte al mondo con 20 milioni di decessi nel 2015) e patologie croniche (che determinano il 60% dei decessi a livello globale).

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Ecco, allora, che l’adozione della doppia piramide alimentare e ambientale – un modello che promuove la Dieta Mediterranea e ne dimostra i benefici per la salute dell’uomo e dell’ambiente – diventa uno dei primi passi da compiere in cammino per la salvaguardia del pianeta e della salute.

Sono queste alcune delle evidenze principali emerse nel corso della presentazione della seconda edizione del lbro “Eating Planet. Cibo e sostenibilità: costruire il nostro futuro”, promossa dal Barilla Center for Food & Nutrition.

Schermata 2016-02-19 a 14.42.25Schermata 2016-02-19 a 14.42.33

Gli indicatori del benessere

Al fine di fotografare al meglio la situazione, i ricercatori della Fondazione BCFN hanno messo a punto due Index, presentati all’interno di Eating Planet, che analizzano e misurano, accanto al Pil (che quantifica solo il benessere economico, senza calcolare le disuguaglianze sociali o lo stato dell’ambiente), anche gli aspetti legati all’alimentazione e ai loro impatti sulla qualità della vita.

Secondo questi speciali indicatori, l’Italia si pone al terzultimo posto in termini di “benessere attuale”, sopra a Spagna e Grecia, ma dietro a nazioni come Danimarca, Francia, Germania, Giappone, Regno Unito, Svezia e Usa. Una situazione che peggiora se guardiamo all’indice di sostenibilità del benessere delle generazioni future”, dove siamo al penultimo posto prima della Grecia. Un quadro che impone necessariamente delle riflessioni (sul concetto di benessere, che non può essere ridotto soltanto alle sue caratteristiche economiche) e delle azioni che vadano ad incidere sui processi decisionali di natura pubblica, concorrendo così a definire le condizioni sociali, politiche, economiche e ambientali in cui le persone vivono.

Dieta Mediterranea, addio?

Come anticipato, nel nostro Paese si fa sempre più largo la tendenza ad abbandonare la dieta mediterranea tradizionale in favore di altri modelli alimentari. Ogni giorno in Italia vengono consumati circa 105 milioni di pasti, di cui il 24% fuori casa, con una prevalenza dei pranzi (53%) sulle cene (47%). E l’accelerare dello stile di vita si riflette sui pasti: i pranzi vengono consumati “di corsa” in meno di dieci minuti per il 9% degli intervistati e il 14% addirittura lo consuma in piedi. Il risultato è che il tempo dedicato all’alimentazione risulta compresso e subordinato agli altri impegni quotidiani.

Schermata 2016-02-19 a 14.41.37E all’estero?

Anche fuori dai confini nazionali la situazione non differisce poi tanto.

Nonostante cittadini europei dichiarino di adottare una dieta alimentare sana, le persone che hanno difficoltà ad alimentarsi in una maniera sana sono in una percentuale consistente in Paesi come Ungheria (54%), Slovacchia (%2%) e Polonia (49%). Tra gli ostacoli all’adozione di una dieta sana, i cittadini europei hanno evidenziato: l’eccessivo tempo da dedicare alla scelta e alla preparazione dei pasti (31%), il mancato controllo sugli alimenti consumati perché preparati da altri (27%), la considerazione che sano sia anche meno appetibile (23%).

Last but not least: i rischi per il pianeta

Il tema dell’alimentazione non può prescindere da quello della sostenibilità. In quest’ottica, il primo problema da affrontare è quello della tutela del “suolo”. Secondo la FAO (Food and Agriculture Organization), il 25% dei suoli del pianeta è gravemente danneggiato e solo il 10% mostra qualche cenno di miglioramento. Solo negli ultimi 40 è diventato improduttivo il 30% dei terreni coltivabili. E non basta: tra meno di 10 anni, nel 2025, 3 milioni di persone non avranno acqua potabile eppure, oggi, il 70% di acqua dolce viene destinata alla produzione agricola e a quella di cibo. Attività, quest’ultima, che impatta per il 23% delle emissioni di gas serra totali.

Dopo Belgio e Olanda, Lidl vende solo banane sostenibili anche in Uk

Foto: Fairtrade International.

Continua il riposizionamento di Lidl che sempre più intende scrollarsi di dosso l’etichetta del discount e presentarsi come insegna dove trovare prodotti di qualità al giusto prezzo, toccando anche tematiche care al consumatore odierno: come la sostenibilità, ambientale e sociale. Dopo Olanda e Belgio, anche nel Regno Unito il retailer tedesco si è impegnato a vendere entro il 2016 solo banane certificate, da Fairtrade oppure dalla Rainforest Alliance. Una mossa già annunciata da Asdi, discounter “gemello” e compagno d’avventure, anch’esso tedesco, nell’ascesa alla distribuzione britannica.

Se insomma è ormai normale trovare sugli scaffali del discount tedesco pesce pescato con tecniche sostenibili, aragosta e filet mignon, ricette etniche e snack salutari, le certificazioni sembrano il modo migliore per guadagnarsi, una volta per tutte, la fiducia dei consumatori. Tanto che la stessa mossa è stata già annunciata anche per il caffè, che sarà interamente certificato entro il 2017.

Sostenibilità degli allevamenti: Waitrose, M&S, Noble Foods e Coop CH le insegne più virtuose

La nuova edizione del The Business Benchmark on Farm Animal Welfare, il rapporto nato con lo scopo di incentivare un trattamento più equo degli animali negli allevamenti e giunto alla quarta edizione, ha dato le pagelle valutando 90 aziende del settore alimentare. Noble Foods, Marks & Spencer, Waitrose e Coop Group (Svizzera) sono le insegne della GDO che hanno ottenuto il punteggio più alto.
Una problematica sempre più sentita questa delle condizioni estreme in cui versano gli allevamenti di bestiame, che suscitano questioni etiche ma anche sanitarie, tanto da far nascere una nuova categoria di “dietisti etici”, i flexitarians, che scelgono se mangiare o meno carne a seconda della provenienza e delle condizioni cui sono sottoposti gli animali.
Un tema che non sfugge alle aziende, tanto che il rapporto rileva come il 69% di quelle prese in considerazione hanno pubblicato delle linee guida che riguardano il benessere degli animali (erano solo il 46% nel 2012) e il 54% si è posta degli obiettivi che riguardano il benessere animale (il 26% nel 2012). Tra gli aspetti presi in considerazione c’è la reclusione in gabbie, la clonazione o modificazione genetica, l’uso di sostanze che promuovono la crescita e di antibiotici, le mutilazioni, lo stordimento prima della macellazione e i trasporti su lunghe distanze.

Le aziende sul podio
Il direttore esecutivo di BBFAW, Nicky Amos, ha commentato: «I risultati dimostrano come sia realistico per le aziende in tutto il mondo e in tutta la filiera (distributori, grossisti, ristoranti, bar e produttori) aspirare a raggiungere alti voti nel Benchmark e riconoscere la responsabilità che hanno nel benessere degli animali nella loro supply chain».
Sono 11 le aziende che occupano la testa della classifica, avendo dimostrato l’impegno più forte verso il benessere degli animali negli allevamenti. Le 90 aziende sono divise in livelli: piazzarsi nei primi significa avere sviluppato sistemi e processi per gestire la questione.
Al primo livello troviamo le più virtuose, tre insegne britanniche (Marks & Spencer, Waitrose e Noble Foods) e la svizzera, Coop Group.
Al secondo livello ancora UK in primo piano con The Cooperative Food (UK), J Sainsbury e Cranswick, la svizzera Migros ma anche multinazionali come Unilever, Marfrig, McDonald’s (che ha registrato nel quarto trimestre 2015 il miglior risultato trimestrale in quasi quattro anni, anche, secondo gli analisti grazie al “restyling green” cui è stata sottoposta).
Nel terzo livello stazionano Ahold, FrieslandCampina, Danone, JBS, Nestlé, Subway, Tesco e Tyson Foods. Raggiunti quest’anno da Barilla, la prima italiana delle sei prese in esame, BRF, Sodexo, Walmart, Compass Group, Greggs, Kaufland e Whitbread.
La direttrice esecutiva di BBFAW, Nicky Amos, ha commentato: «I risultati dimostrano come sia realistico per le aziende in tutto il mondo e in tutta la filiera (distributori, grossisti, ristoranti, bar e produttori) aspirare a raggiungere alti voti nel Benchmark e riconoscere la responsabilità che hanno nel benessere degli animali nella loro supply chain».

Nonostante i passi avanti compiuti dal 2012, nota il report, circa il 40% delle aziende (tra cui Burger King, Domino’s Pizza Group (UK) e Starbucks) non hanno fornito alcuna informazione sulla loro strategia nei confronti del benessere animale negli allevamenti. Come ha detto Nicky Amos: «Nonostante i progressi è chiaro che c’è ancora molto da fare per mettere il benessere animale degli allevamenti nei programmi di molte grandi aziende globali del settore alimentare».
Il rapporto però sottolinea come vi sia da parte delle società di investimento un interesse crescente sul tema.
«Per la prima volta abbiamo visto investitori a livello globale che si sono impegnati attivamente con le aziende per incoraggiarle a migliorare le pratiche e la comunicazione di ciò che fanno per la sostenibilità degli allevamenti. Il Benchmark annuale fornisce alle aziende un grande incentivo per migliorare la divulgazione e rendere conto della loro prestazione. Con la crescita della consapevolezza da parte degli investitori e la comprensione dei rischi sistemici e delle opportunità posta dal benessere animale negli allevamenti ci aspettiamo di veder crescere nel tempo l’interesse e l’azione degli investitori» ha detto Rory Sullivan, BBFAW Expert Advisor.
Il rapporto è stato compilato in collaborazione con organizzazioni attive nella difesa degli animali e dell’ambiente quali Compassion in World Farming World Animal Protection e con la banca di investimenti Coller Capital.
Sul fronte della sostenibilità la multinazionale Mondelez (ex-Kraft, molto mal piazzata nel rapporto) ha da poco annunciato che entro il 2025 tutte le uova utilizzate per i suoi prodotti venduti in Europa proverranno da allevamenti a terra.

La classifica 2015 del The Business Benchmark on Farm Animal Welfare.
La classifica 2015 del The Business Benchmark on Farm Animal Welfare. Barilla è la meglio piazzata delle italiane, tra le altre Ferrero, Cremonini, Veronesi, Autogrill.

Leggi anche: Carne di maiale contaminata in UK: troppi antibiotici negli allevamenti europei

MDD: le aziende raccontano la loro esperienza di copacker

Come vivono le aziende di marca il fatto di essere fornitori della distribuzione peri i prodotti a marchio?
Lo abbiamo chiesto ad alcune di loro, in rappresentanza delle rispettive categorie merceologiche.
A tutti sono state poste le stesse domande: consistenza e trend delle pl nel rispettivo settore, quota sul loro fatturato, criticità e opportunità connesse con l’essere partner della gd per la fornitura dei prodotti a marchio, confronti tra le dinamiche nella gdo estera e italiana.
Seppure nelle peculiarità di ogni comparto emerge, dalle parole degli operatori, una tendenza alla crescita del peso delle private label, anche se non sempre ai tassi registrati negli anni passati, con focalizzazione anche nei segmenti premium.
La grande distribuzione è vista come un partner  esigente in termini di garanzie relative agli standard qualitativi, al contenuto di servizio, alla flessibilità produttiva, ma la capacità di rispondere a tutte queste richieste contribuisce alla crescita aziendale e prefigura l’instaurarsi di rapporti continuativi fidelizzati.
Infine una nota è doverosa: per stendere questa inchiesta è stato contattato un numero piuttosto alto di aziende, per poter dare uno spaccato il più completo possibile del mercato.
Solo quelle che vedete hanno accettato di metterci la faccia.
Si possono solo ipotizzare i motivi di questa ritrosia ad esporsi: forse per alcune aziende la private label non rappresenta  una opportunità di business così interessante, oppure non amano che il loro brand venga associato con questa attività, temendo di che ne venga sminuito, seppure in un ambito strettamente riservato agli addetti ai lavori.
Qualunque siano i motivi sembrano non tener conto del grande valore che il consumatore attribuisce alle marche della distribuzione che, chissà, potrebbero diventare per i fornitori degli indici di qualità ancora più forti delle certificazioni che esse stesse richiedono.

Carlo Pessina, Amministratore Delegato Norda SpA

Schermata 2016-01-18 a 14.08.04Nel nostro settore le PL valgono circa il 9% del mercato complessivo e certamente quest’anno – grazie alla stagione estiva molto calda – la quota salirà di qualche punto. Inoltre i trend di mercato segnalano un crescente interesse dei consumatori verso i prodotti Premium delle linee PL; è questa una strada da valutare, anche se nel settore delle acque minerali non è facile pensare a un posizionamento di questo tipo. Una valida proposta in questo senso consiste nel pensare ad altre modalità per muovere questo mercato, ad esempio con il progetto di affiancare ai formati tradizionali – 2,0 L., 1,5 L. e 0,5 L. – un nuovo contenitore da 1 L.
Finora le PL rappresentano il 30/35% del nostro fatturato e quest’anno il trend è sicuramente in crescita grazie anche alle condizioni climatiche favorevoli. L’ingresso di Norda in questo settore risale alla metà degli anni Novanta. Infatti siamo stati i primi a produrre PL nel settore delle acque minerali e nel canale GDO.
Abbiamo maturato una profonda conoscenza di questo mercato così da essere in grado di soddisfare le domande e le richieste dei Retailers in termini di qualità, controlli di filiera, sicurezza.
Nello stesso tempo questo ha consentito all’azienda di crescere qualitativamente grazie ai diversi Audit che le catene con cui collaboriamo effettuavano annualmente presso i nostri siti coinvolti nel co-packaging.
In questo modo si sono creati e consolidati rapporti con diverse aziende di cui siamo oramai fornitori da molti anni.
Quanto all’estero, attualmente non abbiamo in produzione PL destinate all’esportazione ma stiamo dialogando con alcune aziende e pensiamo di concretizzare questi progetti nel 2016.

Paolo Isolati – Direttore Generale di FBF

Schermata 2016-01-18 a 14.08.18FBF è una realtà vocata alla produzione di merende per conto della distribuzione. Dalle nostre linee vengono “sfornate” circa 2 Milioni di merendine ogni giorno confezionate con i marchi delle principali catene della distribuzione italiana, per le quali FBF è azienda di riferimento per il bakery dolce.
Nel nostro mercato di riferimento, le merende appunto, la PL detiene una quota a volume a totale Italia di ca. il 23 % (2° player del mercato dopo Mulino Bianco), ben al di sopra della quota media della PL in Italia (18%).
Ancora più rilevante la quota della PL nella Croissanteria (segmento che vale oltre il 37 % del mercato complessivo delle Merende) in cui la marca del distributore gode di una quota del 35,3%. (Fonte: Iri AT 25 ottobre 2015).
Sicuramente vi sono ancora spazi di crescita per questa quota, considerando le medie europee della quota PL in tutti i mercati del FMCG, anche se con tassi sicuramente inferiori a quelli fatti registrare negli ultimi 5 anni, dove la quota PL è cresciuta di oltre un punto percentuale ogni anno.
Fbf da quasi un decennio, si è guadagnata il ruolo di “partner leader” della Distribuzione su questi prodotti, grazie ad un approccio commerciale orientato verso una logica “win win” e grazie a cospicui investimenti produttivi, mirati al miglioramento di prodotto e di processo ed ad ottenere le massime performances in tema sia di qualità di prodotto che di sicurezza.
La nostra Società infatti, oltre a tutte le certificazioni inerenti il processo e l’organizzazione produttiva (ISO 9001: 2008, IFS/BRC), ha ottenuto anche il Certificato ISO 14001 e 18001 (Ambiente e Sicurezza) e la certificazione SA 8000 (Etica).

Luca Zocca, Direttore Marketing di Pedon

Schermata 2016-01-18 a 14.08.42Come dato medio delle pl relativamente al LCC la quota è ferma al 18%, mentre nella nostra categoria di riferimento dei cereali, legumi e semi siamo oltre al 30%. In generale vediamo che il segmento primo prezzo non cresce più in Gdo a causa del forte disinvestimento della marca del distributore, dovuto anche all’impatto delle politiche promozionali delle marche leader nel segmento mainstream.Si registra invece una ripresa del segmento premium, le tendenze messe in atto dalle aziende vanno infatti a previlegiare la ricerca da parte del consumatore di un valore aggiunto nel prodotto, come alti contenuti salutistici e di benessere ed elevata qualità al giusto prezzo.
Allo stesso tempo però si arresta la crescita delle promozioni, che perdono efficacia in termini di vendite a scaffale.Le PL rappresentano circa il 70% del nostro fatturato, produciamo oltre 100 linee a marca del distributore. Questo dato in Italia è stabile, mentre all’estero è sicuramente destinato a crescere.
La criticità è rappresentata senz’altro dall’alto livello di servizio che dobbiamo garantire e dal time to market, spesso molto compresso in quanto i retailer hanno la necessità di arrivare con un’offerta a scaffale in tempi ridotti. Tra le opportunità rientrano sicuramente la possibilità di sviluppare nuovi prodotti e nuovi concept di prodotto, che poi possiamo replicare e trasferire su un altro mercato, e lo sviluppo di interessanti business con un alto grado di fidelizzazione del cliente, che ci garantiscono vendite e marginalità importanti.Lavoriamo attualmente con i principali retailer esteri in 25 Paesi del mondo.
Rispetto alla situazione italiana, sui mercati internazionali osserviamo delle dinamiche più innovative e una diversa gestione della categoria rispetto alla GDO italiana. Riscontriamo un’evoluzione non solo nel prodotto, che è sempre più rispondente ai nuovi trend di comportamento, di consumo e di stile di vita, ma anche nel packaging e nei format di vendita.

Pierantonio Invernizzi, Direttore Commerciale di Inalpi

Schermata 2016-01-18 a 14.08.53Nel nostro settore di riferimento (fettine, formaggini, burro) le PL pesano circa il 32%. Nel breve-medio periodo non evidenziamo particolari incrementi o decrementi, a nostro avviso, così significativi da determinare un cambiamento del trend in corso. Il peso delle PL sul nostro fatturato globale è di circa circa il 20%, che rapportato sul fatturato della sola divisione consumer diventa circa il 70%.
Questo ultimo dato andrà gradatamente al ribasso, grazie alla crescita distributiva dei nostri brands. In questo modo sarà possibile equilibrare i nostri fatturati con i retailers.
Le opportunità di essere partner della GD, per i prodotti a loro marchio sono molteplici. Instaurare un rapporto di collaborazione e fiducia reciproca è alla base di obiettivi comuni quali la ricerca della sicurezza e salvaguardia della qualità dei prodotti, avendo come unico punto di riferimento il consumatore finale e dove i rapporti di negoziazione tra le parti sono molto meno complessi quindi più fluidi e veloci.
Le criticità possono nascere dalla mancanza di uno solo degli obiettivi comuni sopra enunciati e, comunque, sono dettate dall’interpretazione diversa che ognuna delle parti ha nel progetto.
In relazione alle PL prodotte per la GD estera, non riscontiamo differenze, grazie anche all’internazionalizzazione delle politiche commerciali delle catene che sono presenti in più stati.

di Elena Consonni

Coop: sempre più attenzione all’origine dei prodotti e al loro contenuto valoriale

“3 miliardi di euro di fatturato e una quota di mercato del 30%: numeri veramente importanti quelli registrati dal prodotto Coop e presentati nel corso di Marca 2016. E in linea con gli scenari delineati da Iri sulla Mdd, le linee più performanti sono quelle ad elevato contenuto valoriale come la Fior Fiore (l’eccellenza gastronomica), la Vivi Verde (il biologico) e la Bene.sì (i prodotti salutistici).

“Sostanzialmente – spiega Roberto Nanni, responsabile strategia prodotto a marchio Coop – abbiamo registrato una tenuta del fatturato e contemporaneamente per effetto della campagna convenienza “Prezzi Bassi Sempre” abbiamo ottenuto un significativo incremento a volume senza mai far venire meno la componente per noi irrinunciabile della qualità del nostro prodotto a marchio”.

Gli impegni per il 2016

Riguardo a questo fronte, Coop ha dichiarato di voler estendere il progetto “Origini Materie Prime” che permette ai consumatori in tempo reale, attraverso un semplice link al sito dedicato, di scoprire da dove provengono le principali materie che compongono quel prodotto ripercorrendo a ritroso la filiera, dalla tavola al campo. L’idea che ne sta alla base è che bisogna andare oltre all’indicazione del produttore e unica in Italia e in Europa Coop ha attivato questo progetto di informazione già da due anni. Accanto “al dove si produce”, bisogna poi sempre indicare anche “il come”: l’origine è un’informazione utile, ma altrettanto importanti sono le garanzie sulle modalità produttive, sui controlli, sulle caratteristiche di sicurezza e qualità dei prodotti. Tutti campi valoriali su cui Coop è da sempre fortemente impegnata e su cui continuerà a svolgere un’azione di costante presidio.

TUTTOFOOD: il pensiero corre al 2017. Ed è già successo

TUTTOFOOD 2017:  a un anno e mezzo dalla prossima edizione si riconfermano i numerosi grandi nomi del settore, delle principali regioni produttive italiane, nonché di rilevanti associazioni dell’agroalimentare oltre che di aziende e collettive internazionali.

A oggi, infatti, è già stato prenotato oltre un terzo della superficie espositiva occupata nel 2015, una situazione identica a quella raggiunta a pari data della passata edizione. E questo, è bene sottolinearlo,  pur non essendoci più la concomitanza con EXPO: è dunque evidente il ruolo centrale assunto nel panorama europeo dalla rassegna milanese. In aumento, inoltre, la partecipazione di produttori internazionali, che – anche grazie all’Expo – associano ormai il food a Milano.

Una crescita costante che pone TUTTOFOOD in prima linea nella strategia del Gruppo Fiera Milano, che punta in maniera sempre più decisa a rafforzare la leadership delle manifestazioni direttamente organizzate con elevato potenziale di crescita, aumentando la penetrazione dei settori presidiati e la crescita internazionale.

La strategia riceverà nuova linfa anche dall’aumento di capitale che Fiera Milano Spa ha offerto in opzione agli azionisti per un controvalore di 66,8 milioni di euro, che consentiranno di ampliare i progetti di incoming buyer, comunicazione all’estero, workshop ed eventi e che incrementeranno l’affluenza di qualificati visitatori, in particolare internazionali.

“I primi riscontri di questo 2016 – sottolinea Corrado Peraboni, Amministratore Delegato di Fiera Milanoci confermano che TUTTOFOOD ha saputo valorizzare al meglio il volano di EXPO in un’ottica a lungo termine. Le nuove risorse provenienti dall’aumento di capitale ci permettono di rafforzare ulteriormente le azioni dirette alla crescita dell’internazionalizzazione del nostro business, valorizzando l’appeal del Made in Italy.”

“Nel nostro portafoglio – ha concluso Peraboni – spiccano appuntamenti leader in settori dove l’Italia è il riferimento mondiale. La crescente internazionalizzazione è per noi un passaggio indispensabile per contribuire anche nei prossimi decenni all’ulteriore sviluppo del sistema fieristico e dell’intera economia”.

L’edizione 2017

L’adesione delle aziende al progetto TUTTOFOOD è da collegare anche alle molte novità dell’edizione 2017, che vedrà l’inserimento di due nuovi settori merceologici, con lo sviluppo della presenza nel comparto ortofrutticolo, avviata nel 2015 con la prima edizione di Fruit Innovation, e che completerà la manifestazione con i prodotti della filiera; e con l’altra grande première TUTTOHEALTH / Spazio Nutrizione. Grazie all’accordo siglato tra Fiera Milano e Akesios, società specializzata nell’organizzazione di convegni e congressi medico-scientifici, TUTTOFOOD 2017 si arricchirà infatti, oltre che di un’area espositiva dedicata, di un programma di convegni che si fa momento di conoscenza e condivisione coinvolgendo nuove figure come medici, nutrizionisti, dietisti, operatori del benessere, personal trainer e dei farmacisti grazie a un’agenda di grande rigore scientifico. Partnership che rafforza il ruolo di TUTTOFOOD come centro nevralgico internazionale per il dibatto su nutrizione e salute, oltre che insostituibile piattaforma di business.

Nell’ambito dei settori tradizionali, sta raccogliendo molto consenso PASTA ITALIA, che nasce dalla partnership di Fiera Milano con AIDEPI, Associazione delle Industrie del Dolce e della Pasta Italiane, che ha scelto TUTTOFOOD come manifestazione di riferimento per promuovere a livello internazionale il valore della pasta nella dieta mediterranea.

In crescita anche le adesioni a tutti gli altri settori di TUTTOFOOD: dalle imprese del lattiero-caseario al grocery, dal settore oleario – con la grande riconferma di Unaprol – a quello del green, dal settore carne e salumi – con la riconferma grazie ad ASSICA dei principali attori italiani del comparto – al dolciario grazie ancora alla partnership con AIDEPI, all’ittico, al beverage.

E un nuovo progetto garantirà la crescita di TUTTOFROZEN, l’area riservata al surgelato, sviluppata insieme ad UNAS, per presentare una modalità di conservare gli alimenti che coniuga la freschezza e la naturalità con la comodità, sempre più richiesta dagli stili di vita dei consumatori.

Novità della prossima edizione è anche il road show internazionale di TUTTOFOOD, organizzato in collaborazione con ITA-Ice, che con diverse tappe toccherà Europa ed Extra Europa nel 2016 e 2017.

Evoluzione costante: ecco il segreto che ha portato TUTTOFOOD, in sole 5 edizioni, alla terza posizione tra le fiere agroalimentari B2B in Europa e di gran lunga al primo posto in Italia. Un primato fatto dalla qualità del business prima ancora che dai (grandi) numeri. Lo conferma anche il parere degli operatori, praticamente all’unanimità: ben il 94% degli espositori è soddisfatto della qualità dei visitatori allo stand, l’88% dell’affluenza e l’86% dei contatti generati.

Il caporalato minaccia l’export dei pomodori Made in Italy

Un’ombra si allunga sull’industria del pomodoro italiana. Da noi non è una novità, ma ora, che la filiera del pomodoro sia fortemente segnata da episodi di caporalato e toccata dalle agromafie lo denuncia anche uno studio dell’Ethical Trading Initiative, associazione che raccoglie aziende, sindacati e Ong con lo scopo di promuovere il rispetto dei diritti dei lavoratori nel mondo. Nel loro ultimo rapporto sotto il mirino è finita la raccolta e l’imballaggio dei pomodori in Italia, che risulta in un “colossale e sistematico” sfruttamento del lavoro dei migranti. I quali guadagnano secondo ETI il 40% meno del salario minimo. Non solo: mentre i lavoratori agricoli “ufficiali” nel nostro Paese sono 116mila, l’Asgi, Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, valuta che tra legali e illegali a lavorare nei campi italiani siano in 500mila. L’Osservatorio Placido Rizzotto stima che siano 400mila i lavoratori agricoli a rischio caporalato, l’80% immigrati, e che 100mila lavoratori migranti illegali da Paesi non UE abbiano subito un duro sfruttamento e condizioni di vita spaventose. Lo scopo di ETI è chiaro: spingere i distributori a mappare i fornitori delle aree più a rischio e valutare i salari e le ore di lavoro. Non solo: devono anche valutare se le loro condizioni di acquisto influenzino in qualche modo le condizioni cui sono sottoposti i lavoratori.

«Il pomodoro è il gioiello della corona dell’agricoltura italiana. È il prodotto maggiormente esportato e l’Italia è il terzo produttore mondiale di pomodori lavorati. Il lavoro degli stranieri è considerato fondamentale per consentire all’agricoltura italiana di competere sui mercati globali, ma nella corsa al profitto le leggi del lavoro sono costantemente ignorate» ha detto Nick Kightley, consigliere ETI per l’alimentazione e l’agricoltura.

Il messaggio alla GDO britannica è diretto: “se vogliono che la loro catena di distribuzione sia pulita, possono e dovrebbero agire”. Il BRC, British Retail Consortium, l’associazione dei retailer britannici che importano dall’Italia il 60% dei pomodori lavorati, ha già preso posizione: «Prendiamo molto sul serio ogni accusa di trasgressioni all’eticità del lavoro da parte dei nostri fornitori. Il benessere dei lavoratori è di capitale importanza per i retailer membri del British Retail Consortium che stanno lavorando molto per migliorare le pratiche nella loro catena di produzione e distribuzione nel mondo. I membri della BRC studieranno il rapporto di ETI e prenderanno le azioni che riterranno appropriate. Ci auguriamo che le autorità facciano in modo di assicurare che le leggi per il lavoro etico vengano rispettate».

Nomi per ora non ne sono stai fatti ma la questione, se non è proprio un fulmine a ciel sereno, è sicuramente una campanello d’allarme per i produttori italiani, che rischia di minacciare seriamente una parte importante, nonché simbolica, della nostra industria agroalimentare.

 

Bollino etico arma spuntata

Una soluzione avrebbe dovuto venire dal “bollino etico”, il sistema pubblico di certificazione etica del lavoro che fa capo all’Inps, nato nel settembre scorso. In tre mesi però solo 207 aziende hanno ottenuto il riconoscimento su 669 domande presentate e un potenziale di 200mila imprese interessate.

Il 60% dei derivati da pomodori italiani è destinato ai mercati internazionali. La produzione totale italiana nel 2015 secondo Coldiretti sarà di 5,2 milioni di tonnellate di pomodoro fresco (+ 7% sul 2014) con un fatturato di 3 miliardi di euro, 8mila produttori agricoli e 10mila addetti nell’industriale in 110 aziende e 54 Organizzazioni dei Produttori.

Forse, oltre a denunciare il pomodoro contraffatto cinese, sarebbe il momento di guardare nei campi di casa nostra… in un periodo peraltro “d’oro” che ha visto un aumento delle esportazioni per le conserve di pomodoro italiane del 20% delle vendite in valore negli USA, nel 2015 primo Paese di destinazione fuori dall’Ue. Ma ancora per quanto?

Carrefour lancia “Tous AntiGaspi”, la private label antispreco e sostenibile

Prodotti che andrebbero altrimenti gettati perché di forma o aspetto difettoso, riutilizzati e immessi sul mercato: da gennaio faranno parte di una private label dedicata allo spreco zero di Carrefour in Francia, battezzata “Tous AntiGaspi”.
L’iniziativa, in collaborazione con il collettivo Les Gueules cassées già protagonista di varie azioni in passato con la GDO francese (vd il nostro articolo) è stata anticipata da “Le Figaro” che ha indicato come i primi prodotti del nuovo marchio, dei cereali per la colazione, saranno messi i vendita in 228 ipermercati Carrefour del Nord-Ovest della Francia. Ma l’insegna francese già quest’anno aveva commercializzato dei camambert invendibili perché “fuori taglia” rispetto allo standard, sempre in collaborazione con la “mela che ride” simbolo di Les Gueules cassées.
«Per essere venduti nei nostri supermercati sotto questo marchio un prodotto dovrà seguire alcuni criteri» ha chiarito a “Le Figaro” Bertrand Swiderski, direttore responsabilità sociale e ambientale Carrefour – deve essere stato prodotto seguendo la stessa ricetta e avere le stesse garanzie di sicurezza alimentare del suo equivalente “bello” (ovvero non alterato); essere venduto in un pdv che si trovi nella stessa regione della fabbrica; costare circa il 30% meno dell’”originale». Infine, non ci sarà alcuna garanzia sulla disponibilità del prodotto “perché per definizione questi prodotti sono scarti di produzione; non ci pensiamo nemmeno a produrre sistematicamente partite difettose!” Un centesimo di ogni prodotto venduto della nuova linea andrà inoltre a fondi e iniziative per la lotta contro la fame nel mondo.
Carrefour non è nuovo ad iniziative anti-speco: ad esempio ha già tolto o prolungato la data di scadenza da tutta una serie di prodotti a marchio (vd il nostro articolo).

Che la lotta allo spreco sia una questione reale sul banco di istituzioni e aziende in vari Paesi lo dimostra anche l’attenzione suscitata dal progetto Les Gueules cassées, pronto a sbarcare in altri Paesi tra cui USA (con il nome Ugly Mugs), Inghilterra, Giappone e Germania. E che ha appena attirato 6 milioni dal fondo di investimento americano Global Emerging Markets per lo sviluppo del concept in America del Nord e del Sud e in Medio Oriente. Affascinati anche loro, evidentemente, da questa “buona idea di buon senso” come la sintetizza il fondatore Nicolas Chabanne.

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